Polveriera Serbia, tra crisi interna e ambiguità geopolitica
L'esperto: "La risposta del governo alle proteste è una combinazione tra repressione calibrata e narrativa difensiva"
ANSA/EPA La Serbia attraversa una crisi complessa che intreccia instabilità politica, tensioni sociali e profonde ambiguità geopolitiche tra Europa e Russia. In questo contesto, la mobilitazione delle nuove generazioni emerge come risposta alla chiusura delle istituzioni e al malcontento diffuso. Il Paese appare sospeso tra spinte per il cambiamento democratico e rischi di irrigidimento autoritario. Ne parliamo in questa intervista con Andrea Molle, politologo della Chapman University (Usa).
Quali sono, secondo lei, le cause più profonde dell’attuale crisi politica e sociale in Serbia, oltre il noto episodio del crollo di Novi Sad?
Direi che le radici dell’attuale crisi serba vadano ricercate molto più in profondità rispetto all’episodio, per quanto simbolico, del crollo di Novi Sad, avvenuto quasi un anno fa. Questo è stato certamente un evento catalizzatore, che ha dato forma visiva a un malessere diffuso, ma non ne rappresenta la causa. Se guardiamo il quadro complessivo, la Serbia vive oggi una crisi sistemica in cui convergono almeno tre dimensioni; quella politica, quella socio-economica e quella identitaria. Sul piano politico, il Paese si trova da anni in una condizione di accentramento del potere che ha progressivamente svuotato le istituzioni di controllo e alimentato un clima di sfiducia. Il Partito Progressista Serbo (SNS), guidato dal Presidente Aleksandar Vučić, ha consolidato un dominio quasi egemonico, sostenuto da una rete di fedeltà amministrative e da un controllo pressoché totale del sistema mediatico. Questo ha ridotto lo spazio di competizione democratica e spinto una parte crescente della popolazione a considerare la protesta come unico canale di espressione. Sul piano socio-economico, la Serbia affronta problemi strutturali che il boom edilizio e i grandi progetti infrastrutturali non riescono a mascherare. Corruzione, clientelismo e gestione opaca degli appalti pubblici hanno eroso la fiducia dei cittadini nello Stato. Il crollo di Novi Sad, in questo senso, è diventato il simbolo di una governance che privilegia l’apparenza alla sostanza. A ciò si aggiunge un quadro demografico drammatico — emigrazione giovanile, invecchiamento, stagnazione — che accentua la percezione di immobilismo e mancanza di futuro. Infine, sul piano identitario e geopolitico, la Serbia vive una tensione irrisolta tra il richiamo europeo e la tradizionale prossimità con Mosca. Il processo di adesione all’Unione Europea è fermo, e la politica estera di Belgrado appare sempre più come un gioco d’equilibrio tra blocchi contrapposti. Questo alimenta una sensazione di sospensione: il Paese è “sospeso”, senza una direzione chiara. Tutti questi fattori si combinano in un circolo vizioso. Istituzioni deboli producono cattiva governance, la pessima governance alimenta il malcontento e il malcontento, gestito con strumenti autoritari, mina ulteriormente la legittimità del potere. Il risultato è un sistema politicamente chiuso, socialmente teso e privo di una prospettiva condivisa. La crisi serba è quella di uno Stato che si è sviluppato economicamente, ma non democraticamente, e che ora paga il prezzo di questa asimmetria.
Come giudica la risposta del governo alle proteste? Ritiene che le misure repressive abbiano aggravato o contenuto la tensione sociale?
A mio avviso la risposta del governo ha seguito il copione della cosiddetta trappola autoritaria. La risposta di Belgrado è una combinazione tra repressione calibrata e narrativa difensiva, volta più a preservare l’immagine del potere che a gestire le cause del malcontento. Il governo ha scelto una linea di contenimento coercitivo, fatta di arresti mirati, uso dissuasivo della forza e un linguaggio che delegittima i manifestanti presentandoli come “strumenti di interessi esterni”. Questo approccio può essere efficace nel breve periodo — perché frammenta la protesta e scoraggia la mobilitazione — ma nel medio-lungo termine accentua la frattura tra Stato e società. In un contesto dove la fiducia nelle istituzioni è già fragile, ogni episodio di abuso o eccesso repressivo agisce come un moltiplicatore della rabbia. Guardare alla strategia comunicativa è altrettanto significativo. I media vicini al governo hanno costruito una narrazione che riduce le manifestazioni a episodi isolati o violenti, oscurando la componente civile e spontanea del movimento. È una tattica consolidata nel repertorio dei regimi “ibridi”; quella di creare l’impressione di ordine ristabilito, mentre la tensione sociale rimane sotto la superficie. In realtà, la tensione non è stata contenuta, ma spostata su un piano latente. Le proteste di questi mesi non rappresentano una crisi momentanea, bensì l’emergere della frustrazione accumulata negli anni. Ogni misura punitiva, ogni arresto, ogni limitazione dello spazio civico rafforza l’idea che il sistema politico serbo non sia più in grado di assorbire il dissenso attraverso i canali democratici. In sintesi, la risposta del governo ha garantito un’apparente stabilità, ma a costo di erodere ulteriormente la legittimità del potere. È una pace sociale di superficie, fondata sulla paura e non sul consenso. E come tutte le paci imposte, è destinata a essere temporanea.
Qual è il ruolo delle nuove generazioni e degli studenti all’interno delle mobilitazioni? Crede che ci siano prospettive, o rischi, di radicalizzazione ulteriore?
Il ruolo delle nuove generazioni, e in particolare degli studenti, è oggi centrale e, direi, profondamente simbolico. Le mobilitazioni nate dopo il crollo di Novi Sad hanno avuto una struttura inedita rispetto ai movimenti precedenti in quanto meno legate ai partiti d’opposizione e più radicate nei campus, nelle scuole e negli spazi civici. È un segnale importante, perché mostra che la contestazione non nasce più solo dall’élite politica o intellettuale tradizionale, ma da una generazione che non si riconosce nel patto sociale post-2000 e che percepisce la Serbia come un sistema chiuso, bloccato, senza ascensore sociale né libertà reale. Questi giovani si muovono in modo fluido, spesso coordinandosi sui social, senza un’agenda ideologica rigida ma con una domanda di dignità, trasparenza e meritocrazia. È un movimento “civico” prima ancora che politico, e proprio per questo spiazza le autorità. Gli studenti non rivendicano solo la caduta del governo o la fine della corruzione: chiedono di poter credere in un futuro nel proprio Paese, di non essere costretti a emigrare per realizzarsi. Quanto ai rischi di radicalizzazione, direi che esistono ma non sono inevitabili. Finora la mobilitazione giovanile ha mostrato una notevole disciplina e un orientamento non violento, persino quando provocata. Tuttavia, se la repressione dovesse continuare e lo spazio di dialogo restare chiuso, è realistico aspettarsi una polarizzazione crescente. A quel punto una parte dei giovani potrebbe spostarsi verso forme più estreme di opposizione, anche solo simbolica, mentre altri finiranno per disimpegnarsi completamente. Entrambe le reazioni rappresenterebbero una sconfitta per la democrazia serba. In sintesi, gli studenti incarnano oggi la parte più dinamica e credibile della società civile serba. Se il governo saprà aprire un canale di ascolto reale, potrebbero diventare il motore di una transizione democratica graduale. Se invece verranno criminalizzati o repressi, potrebbero trasformarsi, loro malgrado, nella scintilla di una radicalizzazione generazionale. Queste manifestazioni toccano anche uno dei nodi più delicati della politica serba, ovvero il rapporto ambiguo tra protesta interna e influenza esterna, in particolare russa. Ad oggi, non ci sono prove concrete che le mobilitazioni studentesche siano direttamente pilotate da Mosca. Tuttavia, va detto che la Russia ha un interesse strategico evidente nel mantenere la Serbia in una condizione di instabilità controllata, funzionale a indebolire il percorso di integrazione europea e a proiettare influenza nei Balcani occidentali. Questo non significa però che ogni forma di dissenso sia “manovrata”: è una lettura comoda per il governo, ma riduttiva e politicamente pericolosa. In realtà, la composizione e la dinamica delle proteste suggeriscono piuttosto un movimento autenticamente domestico, nato da cause interne — corruzione, mancanza di futuro, sfiducia nelle istituzioni — e solo successivamente oggetto di tentativi di strumentalizzazione esterna, da più parti. Mosca, come altre potenze, cerca di sfruttare il malcontento, amplificando online narrazioni anti-occidentali o anti-UE, ma non risulta che ne diriga la regia. Quello che è invece chiaro è che la retorica del “complotto esterno” viene usata con una certa efficacia dal potere serbo per delegittimare le mobilitazioni: attribuire la protesta a interferenze straniere serve a criminalizzarla e a presentarsi come “difensore della sovranità nazionale”. È un copione classico nei regimi ibridi, già visto in Ungheria, in Turchia o in Georgia. In conclusione, la Russia è certamente un fattore di contesto — perché opera attraverso media, ONG e reti culturali per mantenere la Serbia nella propria sfera d’influenza — ma le proteste studentesche restano, nei fatti, un fenomeno endogeno. Nascono dal cuore della società serba, non da Mosca.
Ritiene realistico un dialogo tra governo e opposizione, come auspicato da varie parti, o la polarizzazione è ormai troppo avanzata?
Purtroppo, al momento, un dialogo autentico tra governo e opposizione in Serbia appare poco realistico, almeno nel breve periodo. La polarizzazione è ormai entrata in una fase strutturale, non più solo elettorale o retorica. Si è trasformata in un vero e proprio divario di legittimità. Il governo considera l’opposizione non come un interlocutore, ma come un nemico interno, e viceversa una parte crescente dell’opposizione non riconosce più al governo la legittimità di rappresentare il Paese. Negli ultimi anni, i tentativi di mediazione — spesso promossi dall’Unione Europea — si sono infranti contro due ostacoli principali. Da un lato, un governo che usa il dialogo come strumento tattico, utile a guadagnare tempo e a mostrarsi collaborativo verso Bruxelles, ma senza reale volontà di riforma. Dall’altro, un fronte d’opposizione frammentato, diviso tra chi vuole partecipare al gioco istituzionale e chi punta sul boicottaggio o sulla piazza come unica via. In questa situazione, ogni possibilità di compromesso appare congelata. Il linguaggio politico è diventato manicheo, dominato da una logica di “noi contro loro”. E quando la competizione democratica si riduce a una questione di sopravvivenza, il dialogo diventa percepito come una forma di resa, non come uno strumento di riconciliazione. Detto ciò, non è escluso che una crisi di legittimità più profonda — ad esempio un crollo di consenso o una frattura interna al partito di governo — possa riaprire uno spazio negoziale. Ma perché ciò avvenga, servirebbe un terreno minimo condiviso che includa garanzie sul processo elettorale, libertà dei media e sicurezza per chi protesta. Senza queste precondizioni, parlare di dialogo rischia di essere un esercizio retorico. In sintesi, oggi la Serbia non vive una semplice polarizzazione politica, ma una crisi di fiducia reciproca. Finché il potere non accetterà di confrontarsi su basi paritarie, e l’opposizione non riuscirà a proporsi come alternativa credibile e unitaria, il dialogo rimarrà un auspicio più che una prospettiva.
In che modo la situazione interna sta incidendo sulle relazioni della Serbia con l’Unione Europea e con gli altri attori regionali?
La crisi interna sta incidendo in modo profondo e, direi, multidimensionale sulle relazioni della Serbia con l’Unione Europea e con il suo contesto regionale. In sostanza, sta rendendo sempre più evidente la distanza tra la retorica europea di Belgrado e la sua pratica politica. Sul piano dei rapporti con Bruxelles, la situazione attuale ha di fatto congelato il processo di integrazione. Le istituzioni europee osservano con crescente preoccupazione il deterioramento dello stato di diritto, la repressione del dissenso e l’erosione delle libertà civili. L’immagine di una Serbia “candidata modello” dei Balcani è ormai tramontata. Il governo serbo continua formalmente a professare la volontà di aderire all’UE, ma nei fatti persegue una politica di equilibrismo strategico: mantiene i benefici del dialogo con Bruxelles, ma evita di compiere le riforme che ne costituirebbero il prezzo politico interno e guarda con crescente attenzione alla Russia e alla Cina. Questa ambiguità si riflette anche nei rapporti con gli altri attori regionali. Da un lato, la Serbia cerca di conservare la propria leadership nei Balcani occidentali, presentandosi come fattore di stabilità e interlocutore imprescindibile per ogni mediazione — dal Kosovo alla Bosnia. Dall’altro, però, il crescente isolamento politico e le tensioni interne indeboliscono la sua capacità di influenza. I Paesi vicini — in particolare Croazia, Montenegro e Macedonia del Nord — guardano con diffidenza alla deriva autoritaria di Belgrado e, in alcuni casi, si riallineano più decisamente al blocco euro-atlantico. Quanto al rapporto con Mosca e Beijin, la crisi ha spinto il governo serbo ad affidarsi ancora di più a questi partner come strumenti di legittimazione esterna. La Russia offre copertura politica e sostegno mediatico, la Cina investimenti e visibilità infrastrutturale: due fonti di capitale — simbolico ed economico — che compensano la crescente freddezza europea. Ma naturalmente questo doppio gioco ha un costo. Ogni passo verso Mosca o Beijin allontana ulteriormente la Serbia da Bruxelles e alimenta la percezione, nei Balcani e nelle cancellerie occidentali, di un Paese sempre meno affidabile e sempre più ibrido geopoliticamente. In definitiva, la crisi interna non è soltanto un problema domestico, ma è diventata una variabile geopolitica a sé stante. Sta trasformando la Serbia da potenziale ponte tra Est e Ovest in un attore sospeso, che rischia di restare ai margini di entrambe le sfere. In altre parole, finché Belgrado non risolverà la propria crisi di legittimità interna, non potrà esercitare una vera leadership né avanzare credibilmente verso l’Unione Europea.
Quali scenari prevede nei prossimi mesi: c’è la possibilità di elezioni anticipate, o più verosimilmente il rischio di una deriva autoritaria e di ulteriore isolamento internazionale?
Nei prossimi mesi possiamo aspettarci una fase di incertezza ad alta tensione, in cui coesisteranno due dinamiche opposte. Da un lato la pressione, interna ed esterna, per un ritorno alla normalità democratica; dall’altro, la tentazione del potere di stringere ulteriormente il controllo politico. Sul piano interno, l’ipotesi di elezioni anticipate non è del tutto esclusa. Il presidente Vučić potrebbe valutarla come una manovra tattica per riconquistare legittimità dopo mesi di crisi, soprattutto se riuscisse a gestire la campagna in modo da disarticolare l’opposizione. Tuttavia, per essere credibili, queste elezioni dovrebbero avvenire in un contesto di regole chiare, media pluralisti e osservazione internazionale indipendente — condizioni che, oggi, non sono garantite. Se si andasse al voto senza riforme sostanziali, il risultato rischierebbe di consolidare l’attuale status quo, non di superarlo. Più verosimile, almeno nel breve periodo, è uno scenario di irrigidimento del sistema. Il governo sembra convinto che ogni concessione possa essere letta come un segno di debolezza, e quindi risponde alla crisi con misure di controllo: repressione mirata, retorica securitaria, e una crescente centralizzazione dei processi decisionali. È una logica di bunkerizzazione del potere, tipica delle fasi in cui il consenso formale non basta più a garantire stabilità reale. Sul piano internazionale, questa chiusura si tradurrebbe in un progressivo isolamento. L’Unione Europea, già frustrata dalla mancanza di riforme, potrebbe ridurre ulteriormente il suo impegno politico, limitandosi alla gestione tecnica dei dossier aperti. Al tempo stesso, la Serbia finirebbe per dipendere ancor più da Russia e Cina — un rapporto asimmetrico che le garantisce margini tattici, ma ne riduce l’autonomia strategica. In sintesi, i prossimi mesi saranno un momento di verità per Belgrado. Due sono le traiettorie possibili: 1) una transizione controllata, con aperture negoziali e un graduale ritorno a forme di competizione politica regolare; 2) oppure una deriva autoritaria soft, in cui la stabilità è mantenuta solo attraverso il controllo e la paura, a costo di compromettere definitivamente la prospettiva europea. Oggi, purtroppo, la seconda opzione appare la più probabile.
È d'Accordo con chi afferma che la Serbia è strumento della guerra ibrida russa?
Direi che questa affermazione, pur forse eccessiva nei toni, contiene un fondo di verità. La Serbia non è un semplice strumento passivo della guerra ibrida russa, ma rappresenta senza dubbio uno dei principali vettori d’influenza di Mosca nei Balcani occidentali. Belgrado è una piattaforma politica, culturale e informativa che il Cremlino utilizza per proiettare instabilità e indebolire la coesione euro-atlantica nella regione a partire dal Kosovo. Detto questo, va fatta una distinzione importante. La Serbia non è una “colonia” della Russia. Essa ha una propria agenda nazionale, che il presidente Vučić maneggia con notevole abilità. Tuttavia, negli ultimi anni, la leadership serba ha strumentalizzato la vicinanza con Mosca come leva negoziale verso l’Unione Europea e la NATO, mantenendo così un margine di manovra strategico. In questo equilibrio, la Russia trova terreno fertile per le proprie operazioni ibride — propaganda, disinformazione, sostegno a gruppi nazionalisti, penetrazione energetica e religiosa — ma non sempre detiene il controllo diretto del gioco. La guerra in Ucraina ha reso ancora più evidente questa dinamica. Mentre quasi tutti i Paesi europei si sono allineati alle sanzioni, la Serbia ha rifiutato di rompere con Mosca, mantenendo una posizione ambigua: formalmente neutrale, ma nei fatti più vicina alla Russia che all’Occidente. In questo contesto, la guerra ibrida russa si serve della Serbia in due modi: 1) Come “zona grigia” geopolitica, dove diffondere narrazioni anti-UE e minare la credibilità del progetto europeo nei Balcani; 2) come laboratorio di influenza sociale, in cui reti mediatiche, ONG e canali religiosi filorussi amplificano il sentimento identitario serbo e il risentimento verso l’Occidente. Quindi sì, la Serbia funziona, volente o nolente, come uno strumento parziale e opportunistico della strategia ibrida del Cremlino. Ma sarebbe sbagliato considerarla un attore puramente eterodiretto. In realtà, Belgrado sfrutta quella stessa ambiguità per rafforzare la propria posizione negoziale, mantenendo aperti contemporaneamente tutti i canali: con Bruxelles, con Mosca, e con Beijin. Il vero problema, però, è che questa strategia rischia di trasformarsi in una trappola geopolitica. Più la Serbia gioca sull’ambiguità, più diventa vulnerabile alle manipolazioni esterne e più si isola dal progetto europeo. In ultima analisi, il confine tra “usare” la guerra ibrida e “essere usati” da essa è sempre più sottile. E la Serbia, oggi, cammina esattamente su quella linea.
Fonte: www.rainews.it
