L’Algeria tra centralismo e sfide separatiste
Il caso del Movimento per l’autodeterminazione della Cabilia (MAK)
Ansa L’Algeria vive una fase di tensione politica tra le aspirazioni democratiche interne e le spinte separatiste del MAK. Il governo, timoroso di minacce all’unità nazionale, reagisce con durezza a ogni retorica indipendentista. In questo contesto, la questione cabile rivela le fragilità di uno Stato ancora dominato dal centralismo.
Dialogo con Dario Cristiani, analista politico specializzato in geopolitica del Mediterraneo.
1. Il contesto politico e sociale
Dopo anni di proteste popolari e di promesse di riforme, qual è oggi lo stato reale della democrazia e della rappresentanza politica in Algeria?
Lo stato complessivo della democrazia in Algeria è deficitario, visto che gli spazi di libertà politica e sociale sono limitati. Ciò detto, l’Algeria non deve essere considerata un monolite dove ogni manifestazione di dissenso sia vietata, anzi: ci sono spesso e volentieri proteste di vario genere che le autorità tollerano, anche quando queste proteste si indirizzano verso il potere politico, come nel caso recente dell’indignazione popolare dopo il terribile incidente del 15 agosto, nel quale un autobus del trasporto pubblico è precipitato da un ponte nel fiume Oued El Harrach, periferia orientale di Algeri, e che ha provocato 18 morti. Tale incidente ha causato un’ondata d’indignazione popolare da parte dell’opinione pubblica algerina, portando il Presidente Abdelmadjid Tebboune a licenziare il primo ministro, Nadir Larbaoui, sostituendolo con Sifi Ghrieb, ministro uscente dell’industria. Con la nascita del movimento dell’Hirak nel 2019, ci furono delle aperture, che in realtà però furono definite dal potere militare, in particolare dall’allora capo di Stato Maggiore Gaid Salah per ridefinire il perimetro delle regole del gioco nella gestione del potere e per mettere in disparte tutta quella parte dell’élite algerina legata al regime di Abdelaziz Bouteflika. Questo passaggio, insieme al blocco delle manifestazioni a causa della pandemia tra il 2020 e il 2021 ha fatto si che il movimento perdesse di “forza”. Ciò non significa, però, che non ci sia una tensione democratica da parte di ampie fette della società algerina, una società che resta in larga parte formata da giovani che hanno necessità e visioni del mondo molto diverse da quelle della generazione che ha fatto la Guerra d’indipendenza con la Francia e che ha gestito il potere fino ad oggi.
2. Il nodo cabile e la crisi dello Stato-nazione/Radicalismo e consenso
Il Movimento per l’autodeterminazione della Cabilia (MAK) è un sintomo di una crisi più profonda dello Stato algerino?
Il MAK credo rappresenti un movimento unico, peculiare e non può essere considerato sintomo di un malessere complessivo. Nei primi decenni d’indipendenza l’Algeria aveva certamente un problema nella gestione del pluralismo, a tutti i livelli, data la volontà, nata come rigetto per il colonialismo francese, di arabizzare il più possibile società, politica, cultura etc. e dato anche il centralismo spinto delle élite postcoloniali. Ma direi che nel corso degli ultimi 30 anni rispetto alla questione Amazigh nel suo complesso siano stati fatti dei passi avanti notevoli. Ciò è in particolare grazie all’opera di politici come la ministra della cultura Khalida Toumi Messaoudi, la cui azione favorì l’integrazione sistematica delle élite culturali cabili a livello nazionali e rafforzando le garanzie per i loro diritti culturali e sociali. Infatti, molte di queste rivendicazioni autonomiste, i fervori che portarono alle proteste del 1980 e dei primi 2000, si sono calmate. Il MAK invece persegue un’agenda massimalista, con una retorica volutamente estrema che tocca un punto estremamente sensibile per chiunque sia al potere in Algeria: quello di un potenziale smantellamento dello stato algerino, che è la grande paura che spinge le autorità algerine a reagire spesso in maniera spropositata alle azioni e alle parole di Mehenni e dei suoi. Tale retorica è così massimalista che anche i gruppi che si oppongono al governo non vogliono avere nulla a che fare col MAK, come dimostrato durante le manifestazioni dell’Hiran. Insomma, c’è un elemento quasi psicologico, non solo politico, che determina le azioni algerine nella repressione fortissima che opera verso il MAK e la sua leadership.
3. Repressione o sicurezza nazionale?
Dal 2021 il MAK è classificato come organizzazione terroristica in Algeria. Si tratta di una misura giustificata da minacce reali o di uno strumento politico per criminalizzare ogni forma di dissenso autonomista o identitario?
Credo che questo passaggio vada visto a diversi livelli. Probabilmente il MAK in sé per sé non rappresenterebbe una minaccia tale da giustificare tale classificazione, e certamente – e non solo negli ultimi anni, e non solo in Algeria ma più in generale nella regione intera – si è fatto un utilizzo strumentale di tale classificazione per criminalizzare dissenso politico a più ampio raggio. Ciò detto, e qui mi collego al passaggio precedente, la peculiare storia post-indipendenza algerina, la guerra d’indipendenza e il “decennio nero” dove l’Algeria ha veramente rischiato il collasso istituzionale per mano della violenza jihadista rende la leadership del paese estremamente sensibile a qualsiasi situazione che possa mettere a rischio l’unità statuale. Questa preoccupazione fa automaticamente percepire retoriche indipendentiste (quelle autonomiste sono diverse e infatti sono più tollerate) come un elemento di rischio sistemico. Chiaramente, ciò non giustifica necessariamente questa classificazione, ma aiuta a spiegare la logica. Da osservatore esterno, sono convinto che l’Algeria abbia sia gli strumenti politici che la maturità istituzionale, sociale e culturale complessiva per gestire anche un movimento separatista come il MAK nell’alveo della costituzione e della legalità senza necessariamente considerarlo un movimento terrorista.
4. Le influenze esterne: Marocco e Israele
Le presunte connessioni del MAK con Israele e il Marocco hanno aggravato le tensioni con Algeri. Si tratta di alleanze ideologiche e strategiche autentiche, o di relazioni strumentali usate per logorare l’Algeria sul piano geopolitico regionale?
Per un paese come l’Algeria nato da una violentissima guerra d’indipendenza contro il colonialismo francese e che fa della non-interferenza negli affari interni di un altro stato un principio fondamentale del proprio approccio politico complessivo, l’idea che il MAK possa avere connessioni con Israele e il Marocco e da tali visto come uno strumento per indebolire il paese lo fa diventare automaticamente un nemico esistenziale. La leadership del MAK, inoltre, fa pochissimo per contenere e limitare queste accuse, vista la retorica e le azioni di Mehenni. Inoltre, forse sarà un caso, ma da quando Algeri ha ripreso ad avere relazioni più serene con l’Iran nel corso degli ultimi due anni, il MAK ha provato a rafforzare il suo profilo politico e la propria visibilità, con la marcia per l’indipendenza a New York di fronte all’ONU, ora il congresso e poi la dichiarazione d’indipendenza per la fine dell’anno. In tal senso, il MAK rappresenta uno strumento geopolitico nelle mani dei rivali algerini e mi sembra che abbia molta poca autonomia in queste relazioni con attori esterni.
5. Prospettive e rischi futuri
Il MAK ha annunciato una dichiarazione unilaterale d’indipendenza per dicembre 2025.Quali potrebbero essere le reazioni del governo algerino e della comunità internazionale? E più in generale, quanto è realistico immaginare una vera autonomia regionale in Algeria senza mettere in crisi la coesione nazionale?
Se il MAK dovesse annunciare unilateralmente l’indipendenza il prossimo dicembre, l’Algeria reagirebbe chiaramente con fermezza. Sulla comunità internazionale, il supporto al MAK sembra essere estremamente limitato, al netto di quegli attori che vedono nel MAK uno strumento geopoliticamente utile per infastidire Algeria. Sulla vera autonomia regionale, va detto che il MAK non persegue una autonomia, ma vuole l’autodeterminazione e l’indipendenza. Se volesse solo l’autonomia, la questione sarebbe diversa. In questo senso, credo ci sia in Algeria un problema più complessivo, non limitato solo alle sue componenti berbere, ma anche ai territori nel sud al confine con la fascia del Sahel e altrove, e cioè quello legato alla devoluzione di uno stato fortemente centralizzato la cui rigidità fa fatica a gestire le spinte che vengono dai territori. In quel senso, credo che qualcosa cambierà nei prossimi anni, ma niente che possa mettere a rischio l’unità statuale algerina. Quella è una linea rossa che, anche se l’Algeria fosse più democratica di quanto sia ora, nessuno oserebbe accettare di oltrepassare.
Dario Cristiani è un analista politico italiano specializzato in geopolitica del Mediterraneo. Attualmente è Visiting Senior Researcher all’Institute of Middle Eastern Studies del King’s College di Londra, università da cui ha ricevuto il Dottorato in Studi sul Mediterraneo e Medio Oriente nel 2015, ed è ricercatore associato dell’Istituto Affari Internazionali di Roma. Dal 2019 al luglio 2025 è stato Senior Resident Fellow al German Marshall Fund di Washington D.C. Dal 2024 cura la newsletter Substack di analisi geopolitica sul Mediterraneo chiamata “Mediterraneo Globale”
Fonte: www.rainews.it
