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Gaza, il giorno dopo: la speranza fragile del nuovo piano di Trump
Con la liberazione degli ultimi ostaggi israeliani e lo scambio di prigionieri, entra in vigore la prima fase dell’accordo. Ora Gaza guarda a una possibile tutela internazionale, ma la storia del Medio Oriente invita alla prudenza

Dopo quasi due anni di guerra, Gaza vive ore che potrebbero segnare una svolta storica. Hamas ha liberato tutti i venti ostaggi israeliani ancora vivi nella Striscia, ponendo fine a una trattativa lunga e complessa mediata dagli Stati Uniti e da diversi Paesi arabi. In cambio, Israele ha avviato la liberazione dei prigionieri palestinesi. È il primo punto, il più simbolico e fragile, del piano di pace promosso da Donald Trump, che negli ultimi mesi ha deciso di tornare protagonista sulla scena mediorientale.
La liberazione degli ostaggi rappresenta la condizione necessaria per avviare la seconda fase del cosiddetto Trump Gaza Plan, un progetto che ambisce a ridisegnare il futuro della Striscia e, con esso, l’intero equilibrio israelo-palestinese. L’obiettivo è togliere a Israele il controllo diretto di Gaza, senza restituirlo però integralmente a Hamas o all’Autorità Nazionale Palestinese. Al suo posto nascerebbe una forma di tutela internazionale: un’amministrazione provvisoria sotto garanzia di Stati Uniti, Unione Europea e alcuni Paesi arabi, incaricata di gestire la sicurezza e la ricostruzione.
A coordinare questa fase dovrebbe essere Tony Blair, l’ex primo ministro britannico, chiamato a guidare il comitato di supervisione. La sua nomina divide: per molti palestinesi Blair incarna l’Occidente che promette stabilità e porta ingerenza, per altri è una figura pragmatica, esperta, capace di trattare con tutte le parti. In ogni caso, il suo ritorno segna un passaggio simbolico: Gaza sotto una sorta di tutela internazionale, un richiamo moderno – e inevitabilmente controverso – al sistema di mandati che segnò la Palestina sotto amministrazione britannica.
In questa prospettiva, Gaza diventerebbe un territorio sotto amministrazione temporanea, gestito da tecnocrati palestinesi e osservatori internazionali, con il compito di creare istituzioni civili, favorire la ricostruzione e garantire sicurezza e aiuti. Una fase transitoria che dovrebbe preparare, nelle intenzioni, il terreno per la nascita di uno Stato palestinese o almeno di un’autorità unificata capace di rappresentare tutto il popolo palestinese.
Il piano di Trump è ambizioso, ma anche fragile. Ogni passaggio dipende dal successo del precedente e basta un inciampo per far deragliare l’intero progetto. Se la nuova amministrazione non riuscisse a insediarsi, se la ricostruzione venisse rallentata o se la sicurezza non fosse garantita, tutto potrebbe tornare al punto di partenza. Eppure, per la prima volta dopo anni, tutte le parti in causa sembrano avere interesse a farlo funzionare: Israele per chiudere una guerra costosa e impopolare; Hamas per evitare l’annientamento politico; gli Stati Uniti e i Paesi arabi per riportare una parvenza di stabilità in un’area ormai esausta.
Più che un accordo di pace, il piano appare come un esperimento politico nel cuore del Medio Oriente: un tentativo di sostituire la logica della forza con quella della gestione condivisa, di trasformare Gaza da ferita permanente a laboratorio di governance internazionale. Per Israele significherebbe rinunciare a un controllo diretto ma oneroso; per i palestinesi, potrebbe aprirsi una nuova fase di autodeterminazione; per la comunità internazionale, rappresenterebbe un banco di prova cruciale della propria credibilità.
Resta, però, una verità antica che attraversa la storia della regione: in Medio Oriente non c’è nulla di più certo dell’incertezza. Ogni tregua è temporanea, ogni equilibrio è provvisorio, ogni speranza si accompagna al rischio del ritorno alla violenza. È per questo che, pur guardando con ottimismo alla liberazione degli ostaggi e all’avvio del piano, conviene mantenere la cautela.
La pace, da queste parti, è sempre un cammino sul filo: può sembrare a portata di mano, ma basta un solo passo falso perché tutto ricominci da capo. E tuttavia, dopo tanta distruzione, dopo due anni di guerra e decenni di promesse mancate, anche questa fragile tregua è un’occasione da non sprecare. Gaza resta un territorio devastato, ma per la prima volta da tempo si intravede una prospettiva diversa. Non è la fine del conflitto, forse neppure l’inizio della pace. È solo una possibilità. Ma, in un luogo dove la guerra è diventata la norma, anche una possibilità può valere molto.
Fonte: www.rainews.it