Stasera 24 settembre 2023 andrà in onda su Tv8 alle ore 21.30 il film Baywatch. Il regista è Seth Gordon mentre la sceneggiatura è stata scritta da Damian Shannon e Mark Swift. Nel cast ci sono Zac Efron, Dwayne Johnson, Priyanka Chopra, Alexandra Daddario e Pamela Anderson.
Baywatch, trama e cast del film stasera 24 settembre 2023 su Tv8
La trama racconta le avventure di un’affiatata squadra di bagnini che opera sulle spiagge di Emerald Bay, in Florida. Il tenente Mitch Buchannon (Dwayne Johnson) è il capo della squadra e tenta di fare tutto per proteggere i bagnanti. Fanno parte del team anche le brave e atletiche colleghe Stephanie Holden (Ilfenesh Hadera) e C.J. Parker (Kelly Rohrbach). Tuttavia, Mitch si rende conto che la squadra non è completa e decide di fare una selezione per assumere dei nuovi bagnini. Dopo i colloqui, vengono assunti l’ex campione di nuoto Matt Brody (Zac Efron), la bellissima e intelligente Summer (Alexandra Daddario) e l’impacciato appassionato di informatica Ronnie (Jon Bass).
Tutto sembra andare per il meglio e le spiagge sembrano essere sicure. Tuttavia, un giorno sembra circolare una nuova droga a Emerald Bay chiamata Flakka. A quanto pare, dietro il traffico di questa pericolosa sostanza si cela Victoria Leeds (Priyanka Chopra), nuova proprietaria dell’Huntley Club. Le cose si complicano quando sulla spiaggia viene ritrovato un cadavere, forse a causa della nuova droga e i bagnini cercano di indagare. Comunque, quando il capitano Thorpe (Rob Huebel) comprende che non c’era nessun bagnino alla torre di guardia quando è accaduto l’evento, decide di rimuovere Mitch dal suo luogo. La squadra dovrà cercare di risolvere il giallo del cadavere e soprattutto fermare la spietata Victoria, disposta a tutto pur di ottenere il predominio.
Baywatch, 5 curiosità del film stasera 24 settembre 2023 su Tv8
Baywatch, il ruolo di antagonista scritto inizialmente per un attore
Priyanka Chopra ha rivelato che inizialmente l’antagonista principale della pellicola doveva essere un uomo. Tuttavia, la produzione ha cambiato idea dopo il suo provino e ha deciso di assegnare a lei la parte del villain.
Baywatch, un curioso soprannome dato da un personaggio
A un certo punto del film, il personaggio di Dwayne Johnson chiama quello di Zac Efron con il soprannome High School Musical. Curiosamente, High School Musical è stato il film che ha fatto ottenere grande popolarità a Zac Efron.
Baywatch, le pessime critiche e la risposta di Dwayne Johnson
Il film fu massacrato dai critici che lo criticarono negativamente e ritennero la trama mediocre. Tuttavia, Dwayne Johnson rispose su Twitter dichiarando che il film non era stato realizzato per piacere ai critici ma ai fan dell’omonima serie televisiva.
Baywatch, il cameo delle star che hanno reso celebre la serie
All’interno del film appaiono in un cameo gli attori David Hasselhoff e Pamela Anderson. Si tratta del duo di protagonisti che rese famosa la serie del 1989 Baywatch sia in Italia che negli Stati Uniti.
Baywatch, le tante attrici prese in considerazione per il ruolo di Summer
Il ruolo di Summer è stato affidato dalla produzione all’attrice statunitense di origini italiane Alexandra Daddario. Tuttavia, molte attrici erano state prese in considerazione dalla produzione per questo personaggio come Nina Dobrev, Ashley Benson, Alexandra Shipp, Shelley Hennig, Bianca A. Santos e Denyse Tontz.
Stasera 24 settembre 2023 andrà in onda alle ore 21.10 il film Abel – Il figlio del vento sul canale Rai Movie. I registi sono Gerardo Olivares e Otmar Penker con quest’ultimo che ha curato anche sceneggiatura e fotografia. Nel cast ci sono Jean Reno, Manuel Camacho, Eva Kuen e Tobias Moretti.
Abel – Il figlio del vento, trama e cast del film stasera 24 settembre 2023 su Rai Movie
La trama racconta la storia di Lukas (Manuel Camacho), un ragazzo di appena 12 anni che cresce a contatto con la natura nelle valli delle Dolomiti. Lukas è un grande appassionato di flora e fauna e trascorre le sue giornate ad ammirare le meraviglie della natura. Tuttavia, un giorno trova casualmente un piccolo aquilotto: si tratta di Abel, una piccola aquila reale che è caduta dal nido dopo essere stato gettato dal nido dal suo fratello primogenito. Lukas decide di prendersi cura di Abel e lo porta con sé alla sua abitazione. Comunque, Lukas deve nascondere il suo nuovo amico rapace.
Questo perché il piccolo non ha un buon rapporto con il padre Keller (Tobias Moretti) che è un cacciatore. Il giovane teme che il padre possa voler uccidere Abel e continua a farlo crescere in segreto. Nel frattempo, tra l’uccello e il piccolo si instaura una forte amicizia e Abel diventa sempre più portentoso, imparando a volare e sfrecciare nel vento. Grazie anche all’aiuto del saggio guardaboschi Danzer (Jean Reno), Lukas potrà preparare l’amico alla battaglia della vita e imparerà tante lezioni che gli serviranno per crescere.
Abel – Il figlio del vento, 5 curiosità sul film stasera 24 settembre 2023 su Rai Movie
Abel – Il figlio del vento, le riprese hanno richiesto molto tempo
Questo non è stato un progetto facile da portare a termine. Infatti, ci sono voluti 4 anni di lavorazione e la troupe ha dovuto seguire i rapaci in volo per diverso tempo per ottenere le inquadrature perfette da inserire all’interno del montaggio finale.
Abel – Il figlio del vento, le location delle riprese
Le riprese sono state svolte in alcuni luoghi magnifici. Nel dettaglio, il film è stato girato tra il Parco nazionale Alti Tauri dell’Austria e nelle Dolomiti d’Ampezzo. La troupe ha sviluppato delle tecniche speciali e personalizzate per poter riprendere al meglio le aquile in volo.
Abel – Il figlio del vento, un’artista internazionale nella colonna sonora
La colonna sonora del film contiene al suo interno la canzone Freedom interpretata dall’artista internazionale Rebecca Ferguson.
Abel – Il figlio del vento, i buoni incassi della pellicola in Italia
Questo film ha ottenuto buoni incassi in Italia. Secondo i dati riportati dal sito MyMovies.it al botteghino la pellicola ha incassato circa 484 mila euro.
Abel – Il figlio del vento, recensioni miste per la pellicola
Non ci sono state grandi recensioni per questo film. In molti hanno apprezzato la fotografia ma il giudizio è stato sufficiente in linea di massima. Infatti, sul sito Imdb la sua valutazione è di 6.8 su 10. Si tratta comunque del secondo film con punteggio migliore per il regista Gerardo Olivares, visto che al primo posto della sua classifica c’è la pellicola Il Grande Match, del 2006.
Stasera 24 settembre 2023 andrà in onda il film La stoccata vincente su Rai 1 alle ore 21.25. Il regista è Nicola Campiotti che ha collaborato anche a scrivere la storia e la sceneggiatura insieme a Marco Videtta e Alessandro Tonda. Nel cast ci sono Flavio Insinna, Alessio Vassallo, Egle Doria e Chiara Cavaliere. Il film TV sarà disponibile anche in streaming e on demand sulla piattaforma Rai Play.
La stoccata vincente, trama e cast del film stasera 24 settembre 2023 su Rai 1
La trama racconta la storia di Paolo Pizzo (Alessio Vassallo), campione di scherma che ha dovuto affrontare molte difficoltà prima di raggiungere i suoi sogni. Paolo nasce a Catania e viene accudito dal padre Piero (Flavio Insinna) e dalla madre Patrizia (Egle Doria). Durante l’infanzia cresce come qualsiasi altro ragazzo e ha anche una sorella di nome Marina (Chiara Cavaliere). Tuttavia, quando ha 13 anni gli viene diagnosticato un tumore al cervello. Inizia così la sua lotta contro la malattia, una lotta lunga e dolorosa ma che Paolo supera con un’entusiasmante vittoria.
“Questo film insegna che dopo una caduta a volte si rimane a terra e si guarda il mondo da una prospettiva diversa, finché non arriva una mano tesa. Racconta una Sicilia che mi rappresenta, fatta di riscatto e sacrificio”. Alessio Vassallo è Paolo Pizzo ne #LaStoccataVincentepic.twitter.com/zCWki6HtrO
Dopo aver sconfitto questo nemico che sembrava insormontabile, Paolo si dedica anima e corpo allo sport. Scopre di avere un talento incredibile per la scherma e decide di allenarsi per diventare campione del mondo in questa disciplina. Per raggiungere quest’obiettivo, Pizzo si lega professionalmente al maestro Oleg Pouzanov (Maciej Robakiewicz) e si allena duramente per battere il suo rivale Guglielmo Visentin (Mario Ermito). Comunque, grazie ai suoi sforzi e alla sua determinazione, Paolo rinascerà il 12 ottobre 2011 quando vincerà per la prima volta il titolo mondiale e diventerà il campione del mondo.
La stoccata vincente, 4 curiosità sul film stasera 24 settembre 2023 su Rai 1
La stoccata vincente, il film ispirato a una storia vera
Questa pellicola realizzata per la televisione è ispirata alla vera storia del campione di scherma italiano Paolo Pizzo. Non a caso, Pizzo ha fornito anche la sua collaborazione per i dettagli tecnici di alcune scene e per la sceneggiatura. A sua volte, quest’opera è ispirata al romanzo omonimo scritto dal campione di scherma e dall’autore Maurizio Nicita.
La stoccata vincente, i luoghi delle riprese
Le riprese del film si sono svolte in diversi luoghi. La troupe ha lavorato a Catania, Aci Castello, Acitrezza e sull’Etna. Alcune riprese poi sono state effettuate anche a Roma, Guidonia Montecelio e sulle sponde del Lago di Bracciano.
La stoccata vincente, il racconto di Flavio Insinna sul set
Al sito Style.Corriere.it, Flavio Insinna ha raccontato la sua esperienza sul set. A questo riguardo ha dichiarato: «Personalmente ero preoccupato per il ruolo, non essendo io padre. Nelle giornate in cui sul set c’erano tutti i Pizzo, veri e finti, piccoli e grandi, non sapevo chi abbracciare prima. Arrivava il papà vero di Paolo e quindi mi ‘autoabbracciavo’. C’era Paolo e c’era Alessio Vassallo che lo interpreta. E poi Samuele Carrino che era Paolo da bambino… Ho sempre abbracciato tutti!».
La stoccata vincente, l’influenza che ha avuto su Alessio Vassallo
Alessio Vassallo nella pellicola interpreta Paolo Pizzo. Questo ruolo ha avuto un forte impatto su di lui come ha spiegato a Style.Corriere.it: «La stoccata vincente è sicuramente un film che rimarrà sulla mia pelle per sempre. Già il solo fatto di stare sul set con Paolo ed interpretare un personaggio vivente è qualcosa di straordinario. Lui, oltre a essere un campione, è una persona eccezionale».
Raffaella Borghi sapeva da sette anni che il marito Adamo Guerra, finto suicida rintracciato a Patrasso da Chi l’ha visto?, era in realtà vivo e vegeto. Lo ricostruisce l’Ansa. La donna, avrebbe presentato il 30 settembre 2016 una denuncia ai carabinieri di Imola, accusando il coniuge di violazione degli obblighi familiari, in relazione al mantenimento delle due figlie. Nel farlo, aveva verbalizzato che il marito era stato già rintracciato dalla polizia ellenica, a seguito di ricerche in ambito europeo.
Guerra era scomparso nel 2013, scrivendo di volersi suicidare
L’uomo aveva fatto perdere le proprie tracce a luglio del2013, lasciando due lettere in cui diceva che aveva problemi economici e di volersi uccidere. Il ritrovamento, avvenuto tre anni dopo, sarebbe stato ovviamente notificato all’ex moglie e ai genitori di Guerra, che dalla scomparsa del figlio avevano aiutato con una somma mensile il sostentamento delle due nipoti: la donna avrebbe deciso di sporgere denuncia nel momento in cui necessitava di maggiori risorse, visto che di lì a poco una delle figlie avrebbe iniziato l’università.
Borghi ha detto di aver scoperto nel 2022 che l’ex marito era vivo
Insomma, Borghi sarebbe stata al corrente di dove Guerra si trovasse da almeno sette anni. Eppure a Chi l’ha visto?, che ha raggiunto l’uomo a Patrasso, ha detto di aver avuto la certezza che l’ormai ex marito (nel frattempo ha ottenuto il divorzio) non era morto solo a febbraio 2022, quando quest’ultimo aveva fatto richiesta di iscrizione all’Aire, l’Anagrafe italiani residenti all’estero. Contattata dall’Ansa per una spiegazione degli ultimi sviluppi, Borghi non ha risposto, spiegando di non poter parlare perché al lavoro.
On bullshit ( letteralmente “stronzate”, ma anche “cazzate”) è un testo del filosofo statunitense Harry G. Frankfurt uscito nel 1986, ma ripubblicato in Italia (Rizzoli) nel 2005 e più recentemente ripreso in diverse piattaforme e blog filosofici. Probabilmente perché dire cazzate, ossia parlare a vanvera, spacciare dati fasulli, inventarsi congiure e complotti, è diventata pratica diffusa e linguaggio quotidiano. Anche nei conversari privati, ma soprattutto nell’ambito del discorso pubblico. Dove più delle celebrities e vipperia assortita, sono i politici a segnalarsi. Uomini e donne, leader e peones con uguale propensione a sparare cazzate. La sola differenza è che a destra si esagera senza ritegno e in modo più aggressivo. Mentre a sinistra, come al centro, c’è più compostezza e le cazzate sono perlopiù “buoniste”.
L’opinione pubblica ormai si è seduta al “bar sport”
Certo è che da Matteo Salvini a Elly Schlein, passando per Carlo Calenda e Matteo Renzi, non manca mai la cazzata del giorno. Le ragioni le elencheremo dopo avere riassunto il carattere fondamentale delle “cazzate” e chiarito che, come ha scritto Frankfurt, bisogna distinguere il “dire stronzate” dal semplice mentire. Per il fatto che «un bugiardo fa deliberatamente un’affermazione falsa (quindi, conoscendo egli stesso la verità), mentre colui che dice una stronzata (“bullshitter“, in inglese) è semplicemente disinteressato alla verità stessa». Può sembrare questa una differenza di poco conto, ma in realtà è centrale per capire perché il dire cazzate sia diventata una categoria politica. Sorta di narrazione obbligata, di concessione a una opinione pubblica che si è seduta al “bar sport”. Assuefatta all’obbligo del “cazzeggio” che ormai da anni regna sovrano in tivù e sui social, ma anche sui più importanti quotidiani d’informazione.
Non siamo consapevoli del danno procurato
Vero è che l’autorevole Treccani ha sdoganato le “cazzate” (definendole «chiacchiere senza costrutto, che si fanno tra amici specialmente per ammazzare il tempo») e che Umberto Eco ha definito il “cazzeggio” in modo «affettuoso e indulgente». Ma è altresì vero, citando il filosofo, che se «uno dei tratti salienti della nostra cultura è la quantità di stronzate in circolazione» la cosa ben più preoccupante è che «tendiamo a dare per scontata questa situazione… Di conseguenza, non abbiamo una chiara consapevolezza del danno che procurano».
Le cazzate sono a geometria variabile: ce ne sono d’ogni tipo. Donald Trump è stato ed è ancora un grande interprete del genere. Che le ha dette così grosse (dal pizzagate attribuito a Hillary Clinton alla «falsa nascita negli Usa» di Barack Obama) da arrivare all’assalto di Capitol Hill. Come dire: attenti a ridere di Salvini che dichiara guerra alla Germania sui social. Perché forse fa più ridere e meno danni il ministro Nello Musumeci che ha chiesto di intervenire sulla Costituzione, citando un improprio articolo 119, dove andrebbe esplicitamente scritto che l’Italia è «una Repubblica marinara».
Il Superbonus di Conte, i dati di Meloni, il gender
Ma cazzate sono anche il «milione di posti di lavoro» che secondo Giusppe Conte ha creato il Superbonus, o i dati che quotidianamente scodella la premier Giorgia Meloni; o, guardando agli Usa, il conflitto sul gender scatenato dal governatore della Florida Ron De Santis contro la Disney. Ma, aggiunto che il luogo massimo dove senatori e deputati postano cazzate a mansalva è Twitter (X), e che solo Sergio Mattarella e Mario Draghi non praticano il genere, ci sono almeno tre questioni importanti da evidenziare.
La prima è perché si producono e circolano tante cazzate e cazzari di successo. Detta con brutale sintesi, è il «potere dell’algoritmo», denunciato dal co-fondatore del The Global Disinformation IndexDaniel J. Rogers. Cioè un modello di business tossico, il cui movente principale è catturare l’attenzione del pubblico: «La verità non è da nessuna parte in questo calcolo: l’unica metrica che l’algoritmo premia è il coinvolgimento, e si scopre che la disinformazione e la teoria del complotto sono il foraggio perfetto per questa amplificazione algoritmica».
Per i politici l’importante è essere persuasivi
In altre parole i politici dicono cazzate non perché ci credano o siano disinformati (cosa questa che peraltro accade spesso), ma perché funzionano, sono convincenti, persuasive. Veri o falsi che siano i numeri che danno, o realistiche le promesse che lanciano, a loro importa solo impressionare il pubblico. Mentre il mentitore deve conoscere la verità per poterla meglio nascondere o contraffare, il “bullshitter” non fa uso alcuno della nozione di verità. Per questo motivo, riprendendo Frankfurt, «la stronzata è un nemico della verità più grande della menzogna».
Le stronzate non vengono percepite come un tradimento
E qui si pone la seconda questione. Perché le cazzate che vengono dette, quando poi smascherate, non producono reazioni ? Se guardiamo infatti alle promesse elettorali della Meloni sull’immigrazione e sull’abolizione delle accise, ora che è al governo si stanno rivelando pure illusioni. Però il nulla di fatto non viene percepito come un tradimento e non si traduce, secondo i sondaggi, in perdite di consensi. Sul medio periodo si vedrà. Ma intanto è evidente che le cazzate hanno un forte impatto nell’immediato: fanno boom ma rapidamente svaniscono.
Il Google effect e la digital amnesia sono sempre incombenti. Nel contempo il pubblico di appartenenza e riferimento, essendo sempre più polarizzato e identitario, non vuole e non può più dissociarsi, sconfessare il proprio leader. Leadersimo e tribalismo ossia personalizzazione estrema e acritica adesione al capo tribù, come già scritto su Lettera43, sono i due driver dominanti nella contesa politica.
Vana fatica nel cercare di ristabilire la verità
C’è infine una terza drammatica conseguenza nel non valutare la pericolosità sociale delle “stronzate”: il diffondersi dell’idea che sia impossibile sapere come stanno veramente le cose. Dunque che sia vana fatica cercare di ristabilire la verità e che qualsiasi critica o analisi intellettuale sia legittima, e vera, solo se persuasiva. È su questo terreno che cazzate epocali, siano esse teorie aberranti (il suprematismo bianco) o cretinate cosmiche (le scie chimiche) acquistano una qualche scellerata legittimità. In mancanza di puntali confutazioni anche le cose più inverosimili e le storie più improbabili a forza di ripeterle diventano credibili. Plausibili come il sospetto che sia vicino il futuro immaginato dallo scrittore di fantascienza Theodore Sturgeon, dove «il 90 per cento di tutto sono cazzate». E che la minaccia più grande per la nostra civiltà, per riprendere un pensiero di Carlos Ruiz Zafon, autore del best seller L’ombra del vento, non sia la bomba atomica bensì un eccesso di banalità e sciocchezze che «trasformano la realtà in una volgare barzelletta».
Vladimir Kara-Murza, l’oppositore russo condannato a 25 anni per aver criticato l’invasione dell’Ucraina, è stato trasferito in una colonia penitenziaria di massima sicurezza di Omsk, in Siberia. Lo ha annunciato su Facebook il suo legale Vadim Prokhorov. «Kara-Mourza è stato immediatamente messo in una cella di isolamento», ha aggiunto l’avvocato.
Le accuse e la condanna (senza precedenti) a 25 anni
Giudicato colpevole di alto tradimento e altri reati di natura politica dopo aver criticato l’invasione dell’Ucraina e Vladimir Putin, al termine di un processo a porte chiuse Kara-Murza, che ha 42 anni ed è in possesso della doppia russo-britannica, è stato condannato ad aprile a una pena senza precedenti, considerati i capi di imputazione. Nello specifico, l’accusa di alto tradimento era riferita alla «cooperazione con uno stato membro della Nato», consistente nell’aver preso parte a conferenze a Lisbona, Helsinki e Washington nelle quali aveva condannato l’invasione dell’Ucraina, chiedendo sanzioni contro i funzionari russi colpevoli di violazioni dei diritti umani e corruzione.
Sopravvissuto a due avvelenamenti, ora soffre di polineuropatia
Ora si trova a Omsk, città a circa 2.700 chilometri a est di Mosca. Il sistema penale russo spesso impiega settimane per portare i prigionieri nelle carceri più remote del Paese, e spesso un detenuto in transito può sostare in varie carceri lungo il percorso. «L’intero viaggio da Mosca a Omsk nel XXI secolo è durato non meno di tre settimane», ha detto Prokhorov, aggiungendo che il suo assistito è stato tenuto per diversi giorni in una cella di isolamento a Samara. L’avvocato ha affermato che collocare Kara-Murza in celle di questo tipo mette a rischio la sua già fragile salute: il dissidente russo – stretto collaboratore di Boris Nemtsov, assassinato nel centro di Mosca nel 2015 – soffre di una condizione nervosa chiamata polineuropatia a entrambi i piedi, a causa di due tentativi di avvelenamento.
È stata ritrovata Annarita Rizzo, la 70enne salentina residente a Roma di cui non si avevano più notizie dal 19 settembre: la donna, insegnante in pensione, si trova ricoverata in stato confusionale ma in buone condizioni di salute all’ospedale San Camillo, nella Capitale. Lo ha comunicato un medico dello stesso nosocomio ai suoi parenti, dopo aver letto gli appelli sui social e gli articoli dei quotidiani.
L’ultima telefonata appena atterrata a Fiumicino, poi il silenzio
I famigliari l’avevano sentita l’ultima volta alle 22.30 del 19 settembre, quando la donna aveva chiamato un parente dall’aeroporto di Fiumicino, dove era appena atterrata dopo una vacanza in Irlanda, dicendo di non riuscire a trovare mezzi pubblici per tornare a casa. Da quel momento il suo telefono è risultato sempre irraggiungibile. Quella stessa sera, l’auto della 70enne era stata trovata nello scalo romano. Annarita ha bisogno ancora di cure, fanno sapere dal San Camillo, ma le sue condizioni di salute sono buone. I suoi parenti possono tirare un respiro di sollievo.
Gli italiani nel 2023 spenderanno per la pausa-caffè 720 milioni di euro all’anno in più rispetto al 2021. Lo comunica Assoutenti, che ha realizzato una mappa dei rincari nel Paese. Italia: «Rispetto a due anni fa, oggi il caffè consumato al bar costa mediamente l’11,5 per cento in più, con l’espresso che è passato da una media nazionale di 1,04 euro del 2021 agli attuali 1,16 euro».
Il caffè più salato a Bolzano, il più economico a Messina
Solo nei bar di tre città italiane, Catanzaro, Reggio Calabria e Messina, si può ancora consumatore un espresso a prezzi inferiori a 1 euro a tazzina, mentre in ben 22 province i listini superano quota 1,20 euro. Il caffè più salato è quello di Bolzano, con una media di 1,34 euro a tazzina, seguita da Trento (1,31 euro), Belluno (1,28 euro), Padova (1,27 euro), Udine (1,26 euro) e Trieste (1,25 euro). La città più economica risulta Messina, con 0,95 euro ad espresso, 0,99 euro a Catanzaro e Reggio Calabria.
Gli aumenti maggiori in Calabria: a Cosenza +36,4 per cento
Tuttavia, rileva Assoutenti, «sono proprio le città calabresi quelle che registrano i rincari dei prezzi più pesanti: stando ai dati ufficiali forniti dal Mimit, a Cosenza il caffè al bar è aumentato addirittura del 36,4 per cento, passando una media di 0,88 euro del 2021 agli attuali 1,20 euro». A Catanzaro il prezzo è salito in due anni da 0,80 a 0,99 euro, facendo segnare un +23,8 per cento. Per il resto, a Pescara registrato un rincaro del 22 per cento (da 1 a 1,22 euro), poi +20,9 per cento a Bari, +19,5 per cento a Palermo. Bergamo, Ascoli Piceno, Trento e Siracusa registrano rincari attorno al 16 per cento. Considerando che nei bar italiani si servono circa 6 miliardi di tazzine all’anno, conclude Assoutenti, «il giro d’affari per l’espresso passa dai 6,24 miliardi di euro di due anni fa ai quasi 7 miliardi di euro del 2023».
Può un Paese come l’Italia sostenere progetti di sviluppo all’estero sul contrasto alla violenza di genere e sull’incremento della parità tra uomini e donne, quando in patria siamo ancora in ritardo di anni luce sulla stessa materia? Forse prima di salire in cattedra per insegnare agli altri sarebbe opportuno imparare un metodo che sia efficace anche in casa propria, ma al netto del paradosso è quello che sta succedendo: il governo Meloni maestro di empowerment femminile dopo l’accordo firmato il 5 settembre con l’ufficio regionale dell’agenzia dell’Onu per la parità di genere per rinforzare la protezione e la partecipazione delle donne e delle ragazze nelle zone frontaliere fra Senegal e Mali.
Il progetto ha un valore di 2 milioni di euro
Insomma l’Italia prosegue il suo impegno nel sostenere i diritti umani in Africa occidentale, come annunciato dalla nostra ambasciata a Dakar. Del resto in quelle zone i conflitti e l’estremismo violento rappresentano una minaccia per la sicurezza delle popolazioni, rendendo particolarmente esposte le categorie più vulnerabili, e cioè proprio donne e ragazze. Tensioni esogene che rischiano di produrre effetti negativi in termini di uguaglianza di genere e autonomizzazione. Il progetto ha un valore di 2 milioni di euro e va ad aggiungersi alle altre iniziative in corso sottoscritte con il Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione (Unfpa), l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani (Ohchr), l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) e l’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil).
In Ue una donna su tre ha subìto violenze fisiche o sessuali
Un aiuto all’Africa, certo: ma anche in Europa le cose non funzionano granché sotto questo punto di vista. Secondo i dati della relazione della Commissione europea sulla strategia per la parità di genere 2020-2025, una donna su tre nell’Ue ha subìto violenze fisiche o sessuali; le laureate superano numericamente i laureati, ma guadagnano in media il 16 per cento in meno; le donne rappresentano appena l’8 per cento degli amministratori delegati nelle principali imprese europee. Finora nessuno Stato membro dell’Unione ha realizzato la parità tra uomini e donne. L’indice medio sull’uguaglianza di genere in Europa è di 68 punti. Per la Svezia è 83.9, mentre per la Grecia è 52.5. L’Italia ha totalizzato il punteggio di 63.8 su 100.
In Italia mediamente 150 casi l’anno di femminicidio
Un’inchiesta del 2018 dell’Istat sottolineava come nel nostro Paese ci sono mediamente 150 casi l’anno di femminicidio. Ogni due giorni circa viene uccisa una donna. E per circa il 75 per cento dei casi sia gli autori del crimine sia le vittime sono di nazionalità italiana. I numeri europei non si discostano così tanto da quelli africani: in Senegal il 27 per cento delle donne tra i 15 e i 49 anni ha subito violenze fisiche nella propria vita, secondo africarivista.it. In base alle statistiche riportate dall’Agenzia italiana per la Cooperazione allo Sviluppo – Dakar, nel 2019 il Senegal ha registrato 668 casi di violenza sui minori, 206 aggressioni a sfondo sessuale, 15 femminicidi e oltre 1.200 casi di stupro. Il report Istat pubblicato a febbraio 2021 relativo agli anni 2018-2019 dice che nel 2019 i femminicidi in Italia sono stati 101. Nel 2019 secondo osservatoriodiritti.it sono state 88 al giorno le vittime di violenza per maltrattamenti, stalking, violenza sessuale o percosse. Si tratta di oltre 32 mila vittime in un anno.
Estremismo pericoloso per l’uguaglianza di genere
Certo, qualcuno obietterà che i numeri sono così alti perché si denuncia di più rispetto al passato o rispetto ad altri Stati, tra cui per esempio il Senegal. Ma comunque i numeri sono troppo alti per potersi definire da Paesi “civili”. Secondo la tesi di onuitalia.com i conflitti e l’estremismo rischiano di produrre effetti negativi in termini di uguaglianza di genere. Perché le due cose sono state affiancate? In che modo combaciano in un progetto di cooperazione internazionale che punta alla tutela dei diritti umani e della giustizia sociale?
Una zona di sperimentazione dell’Unione europea
Il Sahel è una delle aree africane che l’Ue ha intenzione di monitorare per evitare che i conflitti possano creare pericolose ripercussioni fino al cuore dell’Europa. L’aumento dell’estremismo religioso a matrice violenta e gli sforzi fatti per ridurne la diffusione hanno spinto, tanto i governi locali quanto i partner stranieri, a investire risorse nell’area in modo da poterla definire una zona di sperimentazione dell’Unione europea in materia di sicurezza, migrazione e sviluppo locale.
Dinamiche pericolose come nel caso dei talebani e dell’Isis
Dal 2012 il Mali è teatro di una forte crisi politica e sociale dopo che, in seguito alla caduta del colonnello Gheddafi in Libia, i ribelli Tuareg e i miliziani jihadisti hanno trovato riparo nelle regioni desertiche del Paese africano. La convergenza tra gruppi criminali e formazioni terroristiche, nonché l’attacco indiscriminato verso alcune etnie e confessioni religiose sono rivolte a “territorializzare” l’area saheliana e controllare la zona. Il modello utilizzato segue la strategia propria dei conflitti inter-etnici, secondo dinamiche analoghe sia al tentativo di statualizzazione dei talebani nelle aree remote dell’Afghanistan sia all’esperienza dell’Isis tra Siria e Iraq. Nel medio-lungo periodo, lo Stato islamico potrebbe rinascere nel teatro iracheno e condurre una più vasta espansione nel Sahel, che presenta problematiche sociali, economiche e politiche ideali per favorire il reclutamento.
Paesi fragili e poveri, ma con ricche miniere d’oro…
C’è anche da sottolineare come tutti i Paesi del Sahel siano tra i più fragili e poveri del mondo eppure, al contempo, rappresentino un’area ricca di miniere d’oro che ha vissuto un costante aumento dell’estrazione. L’Italia è impegnata nella strategia di sviluppo rurale in Senegal e la composizione dell’import-expot evidenzia bene questi interessi. I dati sui flussi commerciali mettono bene in evidenza quanto sia importante e necessario per per le aziende italiane mantenere in vita i progetti di sviluppo in Senegal.
Occhio alle ripercussioni che scatenano l’esodo delle migrazioni
Visto quanto accaduto in Afghanistan e nei territori siriani occupati dall’Isis e il conseguente intervento diretto dell’Occidente, è dunque presumibile supporre, alla luce di quanto emerso dagli accordi internazionali, che l’Unione europea e l’Italia vogliano provare un approccio preventivo di ostacolo alla radicalizzazione dell’area, lavorando su aspetti culturali e sociali che aiutino a garantire la stabilità soprattutto per evitare le ripercussioni sul Mediterraneo, scatenando l’esodo delle migrazioni. E, naturalmente, mantenendo anche invariati gli affari che se da una parte aiutano (o dovrebbero aiutare) le economie rurali locali, ma di sicuro dall’altra sostengono l’export italiano.
Tigst Assefa ha infranto il record del mondo nella maratona femminile di oltre due minuti nella gara che si è svolta nella mattina del 24 settembre a Berlino. L’etiope è arrivata al traguardo alla Porta di Brandeburgo con un sensazionale tempo di 2 ore 11 minuti e 53 secondi, migliorando di due primi e 11 secondi il precedente primato della keniana Brigid Kosgei, che aveva corso con un tempo di 2h14’04’’ a Chicago nel 2019.
Nella gara maschile per Kipchoge quinto successo a Berlino
A Berlino hanno completano il podio la keniana Sheila Chepkirui (2h17’49”) e la sorprendente tanzaniana Magdalena Shauri (2h18’41”). Nella gara maschile, il keniano Eliud Kipchoge ha vinto la sua quinta maratona a Berlino, in 2 ore 2 minuti e 42 secondi, un tempo che non gli ha permesso di migliorare il record del mondo di 2h01’09’’ stabilito nel 2022 lungo le strade della capitale tedesca. Fatto più unico che raro in una Maratona Major, entrambi i vincitori si sono ripetuti a distanza di un anno. Sul podio anche Vincent Kipkemoi (2h03’13”) e Tadese Takele (2h03’24”).
Il cadavere di un uomo è stato trovato a Trieste, appeso a un guardrail lungo il raccordo autostradale. La vittima, di cui non si conosce l’identità, è legata ai piedi con un nastro e ha gli occhi bendati. Secondo i primi accertamenti il corpo ha anche evidenti segni di torture alla testa, come bruciature a forma circolare, oltre a tagli forse effetto di bastonate. Sul posto i sanitari del 118 e i carabinieri, la polizia, i vigili del fuoco. Presenti anche il medico legale e il pm Maddalena Chergia.
La scoperta in una zona semi periferica
Il cadavere è stato scoperto da alcuni tecnici dell’Anas che stavano iniziando dei lavori di manutenzione su quel tratto di strada poco dopo la galleria di Valmaura, in direzione di Muggia: si tratta di una zona semi periferica di Trieste, a una decina di minuti dal centro. L’uomo è stato trovato con il collo appeso al guardrail con un laccio, assicurato con altre fibbie e lacci sulla protezione stradale.
L’identità della vittima è ancora sconosciuta
La vittima, di età compresa tra i 40 e 50 anni, era vestito con una maglietta nera, camicia e pantaloni colore kaki. Secondo le prime indiscrezioni si tratterebbe di un cittadino straniero. A una prima valutazione sembra che l’uomo sia morto alcuni giorni fa: potrebbe essere stato appeso successivamente al decesso, probabilmente nel corso della notte.
La Russia è pronta per i negoziati sull’Ucraina, ma non prenderà in considerazione proposte di cessate il fuoco. Lo ha detto Sergei Lavrov, in una conferenza stampa dopo il suo intervento all’Assemblea generale delle Nazioni Unite: «Ci avevamo pensato una volta, ma ci avete ingannato». Il ministro degli Esteri di Mosca ha poi puntato il dito contro Washington: «Possiamo metterla come vogliamo, ma gli Stati Uniti sono direttamente in guerra con noi».
«L’Occidente sta cercando di risolvere con proprie regole conflitti in altre zone»
La ‘formula di pace’, elaborata dal presidente ucraino Volodymyr Zelensky per la risoluzione della crisi in corso, ha aggiunto Lavrov, è «assolutamente irrealizzabile e tutti lo sanno». Colpa anche degli Usa, «effettivamente impegnati nelle ostilità, usando gli ucraini», ha detto il ministro russo, affermando poi che sono molti i Paesi coinvolti nel conflitto contro la Russia, tra cui il Regno Unito. «L’Occidente sta cercando di risolvere con proprie regole conflitti in altre zone, ad esempio in Medio Oriente. I palestinesi stanno aspettando da anni ciò che gli è stato promesso, ma gli americani stanno monopolizzando processo di mediazione. Chiedo a tutti i Paesi responsabili di fare in modo che ci siano le condizioni per questo negoziato. Gli Stati della Lega Araba stanno tornando alle trattative e di questo siamo molto felici».
«Chiediamo la cessazione delle sanzioni e dell’embargo economico disumano»
«Chiediamo la cessazione delle sanzioni e dell’embargo economico disumano», ha proseguito Lavrov, allargando la richiesta anche per Cuba. Accusando l’Occidente di costruire «un impero di bugie», il ministro degli Esteri di Mosca ha poi detto che la Russia «non ruba i bambini» all’Ucraina: «I loro parenti possono venire a prenderli quando vogliono, nessuno li ferma». Così sul grano di Kyiv: «La Commissione europea potrebbe acquistare quello in eccesso dall’Ucraina e inviarlo in Africa».
Chi avesse visto Fiorella Mannoia ai Tim Music Awards, lì a duettare seduta su una sedia con Alessandra Amoroso e Annalisa sulle note di Combattente, si sarà posto delle domande. Certo, da una parte l’urgenza di sapere perché, a parte per la promozione del concerto benefico Una nessuna centomila, Fiorella Mannoia abbia deciso di incrociare la propria voce con quella di Alessandra Amoroso, per altro al suo ritorno davanti a un pubblico dopo la bagarre del cuscino non firmato a una fan e del video virale «mi sveglio ancora cacata». Che Annalisa sia artista di spessore prestata ai tormentoni è cosa nota a chiunque segua il pop, ma la vera domanda è come la cantante romana, da sempre indicata come portatrice assoluta della musica d’autore al femminile, 69 anni, abbia deciso di stare di fianco alle più giovani colleghe appoggiata a uno sgabello, come a sottolineare l’incedere del tempo.
Arrivano quelli muniti di elmetto riparare le menti dalle scie chimiche
In realtà, lo avremmo scoperto nella sua gravità solo qualche ora dopo la registrazione, era il principio di una ernia al disco che la sta assillando da un po’ di tempo, per altro causa di un blocco della sua attività live che ha comportato, questo sì inspiegabilmente, la soppressione dell’evento beneficio di cui sopra, rimandato a data da destinarsi, comunque al 2024. Ora, Fiorella Mannoia soffre di ernia al disco. La cosa non è ovviamente passata inosservata ai tanti che, muniti di elmetto di carta stagnola per riparare le menti dalle scie chimiche e dalle radiazioni di George Soros e Bill Gates, hanno deciso di aggiornare il post evergreen che sciorina uno dopo l’altro gli artisti che, «misteriosamente», sarebbero stati colpiti da strani malori, dovendo quindi rinunciare all’attività canora live.
Si aggiorna la lista dei concerti annullati per motivi di salute
Un file che di volta in volta parte da Celine Dion, che ha rinunciato proprio per sempre al fare concerti, e passa per Piero Pelù, Bruce Springsteen, Justin Bieber, Francesca Michielin, Loredana Bertè, Salmo: un elenco bislacco, che neanche Amadeus sarebbe in caso di tenere insieme pensando a un prossimo evento alla Sanremo, e non certo perché ci sono anche artisti stranieri, tutti accomunati dall’aver annullatotour, causa motivi di salute. Una lista cui, buona ultima, si è aggiunta appunto Fiorella Mannoia. Apriti cielo.
Ribelli che se la prendono pure con la diavoleria dell’ItAlert
Chiunque sia pratico dei social, o anche solo li frequenti ogni tanto, non potrà non ricordare come, quando l’emergenza della pandemia da Covid19 stava cominciando a rientrare – lo so, lo so che al momento si parla di nuova emergenza, ma parlo di pandemia, non di epidemia – grazie all’arrivo dei vaccini, i tanti no vax di cui sopra, gente con l’elmetto di carta stagnola in testa, di quelli che in questi giorni avranno resettato i propri smartphone per non permettere all’ordine di dominio mondiale delle menti di controllarci attraverso quella diavoleria dell’ItAlert, hanno iniziato a far circolare post simili, dove invece si raccoglievano cinicamente notizie di giovani sportivi affetti da pericarditi.
Esaltazione della vittoria di Djokovic, noto non vaccinato
Ne circolano ancora, di quei post, dove però alle pericarditi si sono sostituiti anche infortuni di gioco, tipo qualcuno che si rompe una caviglia per una entrata scomposta di un difensore – immagino un killer al soldo di Mark Zuckerberg -, ma ai tempi della campagna vaccinale era un continuo, una sorta di grido d’allarme lanciato da chi sapeva cose che noi, poveri beoti, ignoriamo. Del resto quanti hanno imputato la vittoria recente al Grande Slam di Novak Djokovic proprio al non essersi vaccinato – giuro – alla faccia di Roberto Burioni e di Selvaggia Lucarelli, che ne avevano sancito la fine quando gli era stato impedito di mettere piede in Australia?
Complotti orditi ai nostri danni dai rettiliani o dagli Illuminati
La realtà, ovviamente, è un’altra. Più complessa forse dei meri problemi di salute, ma sicuramente distante da complotti orditi ai nostri danni dai rettiliani o dagli Illuminati di wilsoniana memoria. Che si tratti dell’ulcera del Boss o dell’acufene di Pelù, c’è stato un normalissimo iter di tour annullati, come ce ne sono sempre stati: mettere insieme i puntini, se non si è Steve Jobs, si rischia di tirare fuori mostri inesistenti e anche piuttosto irriconoscibili a occhio nudo. Indubbiamente la pandemia ha influito sul tutto, non perché abbia minato i fisici dei cantanti coi vaccini – figuriamoci -, ma in quanto dopo un tappo di circa due anni, con i concerti, specie quelli di massa, fermi al palo, si è scatenata una sorta di corsa al live pazzo, con conseguenti sovrapposizioni di eventi su eventi che ha portato, in alcuni casi, a nascondersi dietro certificati medici per non dover o poter dire che i tour erano saltati perché sarebbero altrimenti stati un bagno di sangue – ripeto, non entro nello specifico non per mancanza di informazioni, ma per quel senso di pietà che mi spinge a provare empatia con chi cade, più che con chi sta in piedi.
Un buon 20 per cento dei biglietti venduti finisce per non essere usato
La corsa al live pazzo, del resto, ha colpito anche il pubblico, che spesso si è trovato a avere biglietti, pregressi, per più concerti nello stesso momento, e a volte a comprare smaniosamente biglietti per concerti che poi, al dunque, non gli interessavano più di tanto, col risultato che un buon 20 per cento dei biglietti venduti finisce per non essere usato: un dato allarmante che ovviamente nasconde anche l’annoso problema del Secondary Ticketing, denunciato a suo tempo da Claudio Trotta della Barley Arts e saltato notoriamente fuori per la questione legata ai concerti dei Coldplay.
Dagli stadi ai club: la presa di coscienza che i numeri si erodono
Quindi da una parte acciacchi veri – Salmo si è quasi staccato un braccio in un incidente, le cicatrici parlano chiaro, Fiorella Mannoia è immobilizzata per un’ernia al disco, non per una qualche misteriosa malattia, Piero Pelù, e poi la smetto coi bollettini medici, soffre di acufene da anni, ce ne ha sempre messo a conoscenza, non a caso sta recuperando le date annullate, nei tempi e modi che questo impedimento gli consente – da un’altra quelli un po’ meno verificabili, cioè gente che annulla concerti per questione di salute ma poi lavora altrove: in fin dei conti quanti di noi hanno sorriso nel leggere, per dire, l’annuncio di un tour “più intimo” nei club da parte di una artista che tutti pensavano volesse provare l’arrembaggio agli stadi, figlio della presa di coscienza di numeri che si erodono, non certo di voglia di stare stretta stretta col suo fan club. Lo storytelling – nonostante non si possa più chiamare così per lo stesso motivo per cui nessuno parla più di resilienza, cioè per l’abuso che se ne è fatto in passato – è pur sempre centrale nella contemporaneità.
I non cielo dicono che abboccano a tutte le bufale
Niente di legato ai vaccini, quindi, con buona pace dei compilatori compulsivi di post complottistici che non aspettano altro che una nuova notizia di malattia per alzare la voce con un sorriso stampato in faccia. Se pensiamo che qualcuno ha infilato in questo elenco anche Jovanotti, che settimane fa si è rotto femore e clavicola a Santo Domingo cadendo dalla bicicletta, beh, direi che ce ne sarebbe abbastanza per l’interdizione dai pubblici uffici, o quantomeno per la messa al bando dai social. Tanto ci hanno pensato da soli, quando seguendo pedissequamente le indicazioni del post su come impedire che il proprio smartphone tuonasse a mezzogiorno per il test di ItAlert hanno resettato il proprio apparecchio, perdendo tutto quel che c’era dentro, account social compresi. Non cielo dicono, direbbero loro, anche se il problema è più che altro che cielo dicono e abbocchiamo a tutte le bufale che ci passano sotto il naso.
Questa è la storia di due ragazzi, due compagni di banco di un liceo di Pavia, che negli Anni 90 sono riusciti a realizzare il loro sogno e, partendo dalla provincia, sono diventate due autentiche rockstar. Hanno scalato le classifiche, venduto migliaia di dischi poi, a un certo punto, all’apice del successo, un giorno uno dei due, all’improvviso, ha guardato l’altro negli occhi e gli ha detto: «Vado a Miami e non so se torno».
La versione di Repetto
Parliamo di Max Pezzali e Mauro Repetto, meglio conosciuti come gli 883, una delle band che ha fatto la storia della musica italiana e di cui presto Sky trasmetterà una serie tv intitolata Hanno ucciso l’uomo ragno, girata da Sydney Sibilia. Non è tutto. È appena uscito un libro, pubblicato da Mondadori, che racconta dall’interno questa storia: si intitola Non ho ucciso l’Uomo Ragno e ad averlo scritto, a quattro mani con il giornalista Massimo Cotto, è proprio Repetto, il biondino del duo, quello che inaspettatamente nel 1994 mollò il gruppo e scappò negli Stati Uniti a inseguire altri sogni. I suoi.
La follia di lasciare gli 883 all’apice del successo
Era stato appena pubblicato Nord sud ovest est, il secondo album della band, che per intenderci aveva venduto un milione e 300 mila copie, e gli 883 erano in Italia il fenomeno pop del momento. Max Pezzali cantava. Repetto, di fianco a lui, a tre metri di distanza, ballava e si dimenava sul palco. «Cercavo un ruolo e, ingenuamente, ho pensato che quello potesse essere adatto a me», racconta oggi, spiegando che fu esattamente quello fu il motivo che lo spinse a lasciare il progetto 883 per cercare altro, in un momento in cui tutti guardandolo si ripetevano: «Questo è pazzo. Chi gliel’ha fatto fare di buttare tutto alle ortiche?». «Devo fuggire», scrive Repetto. «Via da tutto. Devo spegnere la televisione, non riesco più a sopportare quella persona che mi assomiglia e che balla tre metri dietro al mio amico. Non voglio fingere di essere felice, perché non lo sono e a nessuno serve un artista triste, soprattutto se sei parte di un duo che vende milioni di copie a disco. Me ne devo andare. In fretta».
Le leggende metropolitane sull’addio a Max Pezzali
Sul suo conto, dopo la sparizione, circolarono per molto tempo svariate leggende metropolitane: «Molti pensano che io non esista, che sia una leggenda metropolitana. Qualcuno mi ha avvistato come un ufo in luoghi improbabili. Qualcuno giura di avermi visto con Jim Morrison vagare la notte al cimitero di Parigi tra le tombe. Qualcuno mi ha visto vestito come Pippo all’entrata di Disneyland per dare il benvenuto a quelli che arrivano. Qualcuno ha detto che ero diventato povero in canna e non avevo più i soldi per mangiare. Qualcuno ha detto che ero impazzito perché avevo lasciato gli 883, e che avevo buttato tutti i vestiti per strada, dal decimo piano», scrive all’inizio del libro. In realtà la molla scattò per una ragazza, una modella di nome Brandi, conosciuta a una sfilata di Christian Dior, di cui si innamorò follemente e che decise di seguire in capo al mondo. «Avevo tre obiettivi: trasferirmi a Los Angeles, fidanzarmi con Brandi e girare un film con lei. Prima, però, dovevo trovarla e farla innamorare di me». Non ho ucciso l’Uomo Ragno è la sua storia, la sua versione dei fatti, un’autobiografia che si legge come un romanzo d’avventura che da Pavia passa per Milano e arriva a Miami, Los Angeles, New York, per chiudersi a Parigi. Una storia che parla di amicizia, passioni e sfide impossibili. «Io sono, molto semplicemente, uno che ha sognato e non vuole smettere di farlo. Uno che ha cantato e ballato sui suoi sogni. Uno che ha vissuto, sbagliato, riso, pianto, amato. Un visionario. Uno che è cresciuto in fretta e non è cresciuto mai».