Daily Archives: 15 Agosto 2023

La Tunisia e il falso mito della diversità rispetto al mondo arabo

«Il governo tunisino è un insieme di fusibili, l’importante per il presidente è che nulla sia mai colpa sua». Con queste parole il saggista Hatem Nafti commenta il licenziamento del capo del governo Bouden da parte del presidente Saied. Un contributo per capire l’identità della Tunisia lo ha pubblicato la nuova rivista Comprendere quadrimestrale curato da Comin & Partners e coordinata dall’economista Giulio Sapelli. Il primo numero di Comprendere è dedicato all’Africa mediterannea. All’interno delle 120 pagine si susseguono le coordinate storiche e politiche del Marocco, dell’Algeria, della Libia e dell’Egitto. A tracciare quelle della Tunisia è stato Francesco Tamburini* professore dell’Università di Pisa. Lettera43 vi propone la sua analisi.

La Tunisia e il falso mito della diversità rispetto al mondo arabo
La copertina del primo numero di Comprendere.

Tunisia, il falso mito della “diversità”

La Tunisia è sempre stata considerata “diversa”, una sorta di “eccezione” o “anomalia” in senso positivo rispetto al resto del mondo arabo, anche nei tempi più bui delle autocrazie di Bourguiba e Ben Ali, e soprattutto durante e dopo le rivolte del 2011. Le ragioni risiedevano nell’idea di Tunisianité immaginata e creata da Habib Bourguiba, il primo presidente della Tunisia indipendente. La pacifica decolonizzazione avvenuta nel marzo del 1956, la diplomazia di stampo occidentale, la centralità della borghesia nella società tunisina, la “laicità” e, infine, l’emancipazione delle donne con il Codice di Statuto Personale rendevano la Tunisia il Paese arabo più moderno nell’immaginario collettivo dei Paesi occidentali. Questa narrazione, estremamente apologetica e semplificata ha avuto effetti anche sulla storia più recente: gli eventi del 2010-2011 che avrebbero generato una vera democrazia in Nord Africa. La Tunisia, quindi, è stata considerata (acriticamente) come l’unica “storia di successo” del mondo arabo post-2011, per avere adottato una Costituzione nel 2014, definita la più democratica del mondo arabo secondo la rivista L’Histoire, aver tenuto molteplici elezioni, e, soprattutto, per l’elezione di quattro diversi Presidenti della Repubblica e otto primi ministri, confermando la possibilità di un cambiamento pacifico del potere in un Paese arabo. Nel 2014, The Economist nominò la Tunisia “Paese dell’anno”, l’anno seguente il Quartetto per il Dialogo Nazionale fu insignito del premio Nobel per la pace «per il decisivo contributo nella costruzione di una democrazia pluralista». Tutto ciò suggellò nella comunità internazionale l’idea di una Tunisia come la più democratica all’interno del mondo arabo. Tuttavia, la realtà era ed è molto diversa.

Il bourguibismo era stato nei fatti una “monarchia presidenziale”, dato che Bourguiba riteneva che il popolo tunisino non fosse sufficientemente maturo e razionale da poter partecipare democraticamente alla vita politica. Le elezioni erano giudicate come generatrici di «germi pericolosi alla salute della nazione», pertanto le occasioni in cui la volontà popolare potesse esprimersi liberamente erano sempre state ridotte al minimo. Nel marzo del 1975, Bourguiba fu eletto presidente a vita in virtù dei «servigi resi alla Nazione nella lotta contro il colonialismo e per avere fatto della Tunisia un Paese unito, indipendente e moderno». Anche l’economia era un problema: sovrappopolato, privo di risorse economiche e tecnici specializzati, ostacolato nei suoi rapporti internazionali da una politica estera a tratti confusionaria e indecisa se restare in campo occidentale oppure panarabo, l’ex protettorato francese sin dall’inizio non ebbe vita facile. La “tunisificazione” di molte professioni, così come la nazionalizzazione delle terre agricole nel 1964 portò alla lenta ma graduale emorragia delle comunità straniere, in primis quella italiana, rendendo ancora più asfittico il panorama economico.

La Tunisia e il falso mito della diversità rispetto al mondo arabo
Habib Bourguiba nei primi Anni 60 (Getty Images).

Anche il successore di Bourguiba, Zine El-Abidine Ben Ali, subentrato al potere della Tunisia con il “colpo di stato medico” del novembre del 1987 che destituì un presidente malato e inabile al governo, godette dell’appoggio occidentale, sebbene non fosse mai riuscito a far intraprendere al Paese una vera svolta democratica. Arresti arbitrari, uso sistematico della tortura, controllo della libertà di espressione, inibizione di ogni forma di opposizione politica, sperequazione regionale – le zone interne e lontana dalle più ricche zone turistiche costiere – furono i fattori che portarono il regime di Ben Ali ad essere travolto dalle proteste del dicembre 2010 e la seguente rivoluzione del gelsomino. Ma i risultati di quella che fu anche denominata rivoluzione kar?ma, dignità, sono stati meno che modesti. Una vera transizione democratica non è mai avvenuta. A una democrazia elettorale, infatti, non è mai seguita una democrazia sostanziale, coerente con gli ideali del 2011 e le aspirazioni popolari. Dalla fuga di Ben Ali si sono succeduti ben 12 governi, che non hanno mai saputo distribuire giustizia sociale e dignità alla popolazione. Un sentimento di frustrazione crescente e di speranze tradite da parte di istituzioni che la gente comune ha sentito sempre più lontane. Molti diritti espressi nella Costituzione del 2014 – come il diritto al lavoro – non si concretizzarono mai e il clientelismo e la corruzione tornarono a insinuarsi in tutti i settori della vita pubblica. Alcuni sindacati di polizia divennero uno strumento di pressione politica, che giunsero a influenzare le decisioni dei tribunali contro gli abusi della polizia. Dal 2014, il parlamento, bloccato e diviso tra la corrente degli “islamisti” e laici, non è stato in grado di eleggere la Corte costituzionale, con grave nocumento per tutto il sistema politico, impedendo a nuove norme di penetrare l’ordine giuridico. A tutto ciò si aggiunge la disastrosa situazione economica accresciuta dalla pandemia del Covid 19. Oltre l’83 per cento dei giovani ha una istruzione superiore e non riesce a trovare un impiego, l’inflazione raggiunge il 6 per cento e i governi tunisini sono stati costretti a indebitarsi per fare fronte all’emergenza accumulando un debito pubblico superiore al 70 per cento – prima della rivoluzione era del 35. Si è accresciuto inoltre il già esistente divario tra le aree costiere e quelle interne. Tuttavia anche le regioni sulla costa, una volta più prospere grazie al turismo, iniziarono a ristagnare a causa della mancanza del turismo occidentale.

La Tunisia e il falso mito della diversità rispetto al mondo arabo
Zine El Abidine Ben Ali nel 2004 (Getty Images).

Il punto di svolta è avvenuto con l’elezione alla presidenza della repubblica di Kais Saïed nell’ottobre del 2019. Saïed, eletto come indipendente da una larga maggioranza e supportato da una ampia varietà partitica, ha presto rivelato la sua figura controversa nella scena politica tunisina. La sua agenda conservatrice e anti-sistema nascondeva in realtà un sostrato demagogico, a tratti paternalista, non solo quale strategia politica per imporsi nelle elezioni presidenziali, ma anche per progettare un edificio istituzionale che privilegiasse una figura ispirata al one man leading behind. Saïed ha cercato di costruire uno Stato basato su una politica indipendente dalla distinzione laico-religiosa pre-rivoluzionaria imposta da Bourguiba e Ben Ali, e soprattutto un regime ispirato a una narrazione anti-sistema. Infatti, egli ha apertamente accusato la precedente élite politica di aver volutamente disatteso gli obiettivi della rivoluzione, rendendoli fondamentalmente incompiuti. Con il decreto presidenziale n. 117 del 22 settembre 2021 Saïed ha obliterato senza ostacolo alcuno – né formale, né procedurale – la Costituzione del 2014, assumendo di fatto tutti i poteri e varando una nuova Costituzione nell’agosto del 2022 che sancisce la sua illiberal democracy. Saïed ricorda più il classico golpe africano stabilente un regime “riformatore” o “redentore”, che si autolegittima, cioè, per difendere la democrazia e la nazione dalla corruzione. Il paradosso risiede nel fatto che questo non sia avvenuto in un regime ibrido, sfocato e autoritario, ma in una giovanissima democrazia pluralista e altresì piena di speranze. Un solo uomo è stato in grado di smantellare un intero sistema politico e costituzionale senza alcun tipo di opposizione da parte delle istituzioni e alcuna forma di controllo sui poteri e i loro equilibri. L’“eccezione tunisina” si è rivelata, di nuovo, un mito, frutto della cultura occidentale.

La Tunisia e il falso mito della diversità rispetto al mondo arabo
L’attuale presidente tunisino Kais Saïed (Getty Images).

 

*Francesco Tamburini insegna Storia e Istituzioni dei paesi afroasiatici presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Pisa ed Equilibri geopolitici dell’Asia e dell’Africa nell’epoca post-coloniale. È ricercatore del settore scientifico disciplinare SPS-13 – Storia e Istituzioni dell’Africa. I suoi principali temi di ricerca sono il Maghreb, le istituzioni politiche e religiose del mondo arabo e il rapporto tra religione e politica. È in corso di stampa per i tipi della Pisa University Press: Storia, istituzioni, diritto potere nel “Grande Maghreb”.

Spalletti ct dell’Italia? Per De Laurentiis «la clausola è una questione di principio»

Se la Figc vuole Luciano Spalletti come ct della Nazionale dopo le dimissioni di Roberto Mancini, deve pagare la penale di tre milioni al Napoli. Lo ha messo nero su bianco De Laurentiis in una lunga nota ufficiale. Il club pantenopeo ha accettato l’anno sabbatico dell’allenatore dopo lo scudetto, ma si è tutelato inserendo una clausola in caso di ritorno del tecnico in panchina in questa stagione. Che, secondo il presidente, è valida anche per la Nazionale.

Spalletti ct delll’Italia dopo le dimissioni di Mancini? Per De Laurentiis «la clausola è una questione di principio»
Aurelio De Laurentiis (Imagoeconomica).

«Una questione di principio, che non riguarda solo il Napoli, ma l’intero sistema del calcio italiano»

«Per il Calcio Napoli tre milioni non sono certo molti, e per Aurelio De Laurentiis sono ancora meno. Ma la questione nel caso di specie non è di “vil denaro”, bensì una questione di principio, che non riguarda solo il Calcio Napoli, ma l’intero sistema del calcio italiano, che deve spogliarsi del suo atteggiamento dilettantistico per affrontare le sfide guardando al rispetto delle regole delle imprese, delle società per azioni, del mercato», si legge nella nota. «Ma fino a quando si consentirà che la “regola” sia la “deroga” il sistema calcio non si potrà evolvere e continueranno a esserci i “casi Spalletti” come continueranno a esprimersi “autorevoli” commentatori che non conoscono come vada gestita in modo sano un’impresa».

Spalletti ct delll’Italia dopo le dimissioni di Mancini? Per De Laurentiis «la clausola è una questione di principio»
Luciano Spalletti (Getty Images).

«Non ci si può fermare di fronte all’accollo di un milione lordo per anno per liberarlo dal suo vincolo contrattuale»

Dopo aver criticato la Federcalcio per la gestione del rapporto con Mancini, su Spalletti De Laurentiis ha detto che «non ci si può fermare di fronte all’accollo (pagare per conto dell’allenatore) di un milione lordo per anno per liberarlo dal suo vincolo contrattuale (impegno non solo verso il Napoli ma nei confronti di tutti i suoi milioni di tifosi)». E poi: «Pur avendo un ultimo anno di contratto con il Napoli, dopo aver vinto lo scudetto ha manifestato la volontà di prendersi un periodo di distacco dall’attività di allenatore poiché “molto stanco”. Per riconoscenza per il lavoro fatto, non ho battuto ciglio anche se avrei potuto chiedergli il rispetto del contratto. Gli ho quindi dato la possibilità di prendersi questo lungo periodo di riposo», ma chiedendo «garanzie sul rispetto di questo periodo sabbatico, inserendo una penale nel caso in cui il suo impegno fosse venuto meno».

È salva la speleologa ferita e bloccata in una grotta nel Salernitano

È stata recuperata dagli uomini dei vigili del fuoco e del soccorso alpino la speleologa ferita che da lunedì 14 agosto era rimasta bloccata nella grotta del Falco, nel comune di Corleto Monforte in provincia di Salerno. La 25enne si trovava a una profondità di circa 130 metri e una volta estratta è stata trasferita in ospedale. In tutto sono 15 i vigili del fuoco del team specialistico che sono giunti anche dal comando provinciale di Napoli, oltre ai vigili del fuoco di Salerno.

Le operazioni di salvataggio

Durante la caduta, la giovane si era procurata un trauma a un arto inferiore. Sul posto, oltre ai tecnici del soccorso speleologico della Campania, sono intervenute anche squadre dalla Puglia, Lazio, Abruzzo, Umbria, Marche, Emilia Romagna e Sicilia. Le operazioni sono state coordinate dai vigili del fuoco. Per la particolare morfologia della grotta, sono state attivate anche le squadre di disostruttori del soccorso speleologico. Una squadra composta da tecnici umbri e siciliani ha provveduto ad allargare i tratti più angusti della grotta per consentire l’agevole passaggio della barella.

Russia, esplode stazione di servizio in Daghestan: almeno 35 morti

È di almeno 35 morti il bilancio dell’esplosione e del seguente incendio avvenuta in una stazione di servizio a Makhachkala, città russa situata sul mar Caspio e capitale della Repubblica autonoma del Daghestan. Circa 80 i feriti, tra cui diversi bambini. L’alto numero delle vittime è dovuto al fatto che al momento dell’esplosione diversi mezzi stavano facendo rifornimento.

Sono esplosi due degli otto serbatoi della stazione di servizio

L’incendio sarebbe scoppiato in un’officina di riparazioni automobilistiche per poi diffondersi nella vicina stazione di servizio, provocando lo scoppio. L’agenzia di stampa Tass, citando il ministero degli Interni, ha riferito che sono esplosi due degli otto serbatoi della stazione di servizio. Un video postato dall’agenzia di stampa Ria Novosti mostra le fiamme che si alzano da un edificio, seguite da un’enorme esplosione. L’incendio si è poi esteso su un’area di circa 600 metri quadrati, interessando alcuni edifici residenziali situati nelle vicinanze. Il ministero delle Emergenze ha diffuso immagini in cui si vedono auto bruciate e macerie.

Ora il governo teme la rivolta della popolazione del Daghestan 

Per tentare di domare le fiamme sono al lavoro sono stati impiegati circa 260 vigili del fuoco, assieme a decine di mezzi. In via precauzionale, le autorità hanno disposto una limitazione della fornitura di gas nell’area. Come riferiscono i media locali, è stato avviato un procedimento penale per «prestazione di servizi che non soddisfano i requisiti della sicurezza della vita o della salute dei consumatori, che per negligenza ha comportato la morte di due o più persone». Adesso è forte il timore per il governo di una rivolta di massa da parte della popolazione della Daghestan: già nei giorni scorsi, esasperati dai continui e lunghi blackout, molti cittadini erano scesi in piazza bloccando le strade in segno di protesta.

Migranti, sbarchi più che raddoppiati nei primi sette mesi del 2023

Gli sbarchi dei migranti più che raddoppiati nei primi sette mesi del 2023 rispetto al periodo gennaio-luglio del 2022. Lo evidenzia il bilancio del Viminale nella giornata di Ferragosto. Gli arrivi dei migranti via mare quest’anno sono stati 89.158 rispetto ai 41.435 dell’anno passato, con una variazione percentuale del 115,18 per cento. Sul totale delle persone arrivate 10.285 sono minori non accompagnati.

Migranti, sbarchi più che raddoppiati nel 2023. Gli arrivi via mare passati da 41.435 a 89.158. In aumento richieste di asilo e rimpatri.
Migranti a bordo di un gommone nel Mediterraneo (Imagoeconomica).

Il principale Paese di partenza verso l’Italia è la Tunisia

In particolare 64.764 migranti sono stati soccorsi a seguito di eventi Sar, 3.777 sono stati soccorsi da ong (lo scorso anno i salvataggi erano stati 6.224) mentre sono 24.394 (+27,36 per cento) quelli arrivati con gli sbarchi autonomi. Il principale Paese di partenza verso l’Italia è la Tunisia, mentre nel 2022 era stata la Libia. Su le richieste di asilo (+70,59 per cento ), così come i rimpatri (+28,05 per cento). Nell’ambito dell’ampliamento del sistema nazionale di accoglienza dopo la dichiarazione dello Stato di emergenza sono aumentati del 12,68 per cento i posti per migranti disponibili.

Lieve diminuzione dei femminicidi, stabili gli omicidi 

Nel rapporto del Viminale anche l’analisi dei delitti nel Paese, in leggero calo: -5,4 per cento. Stabile il numero degli omicidi (195), ma quelli attribuibili alla criminalità organizzata sono in calo del 36,36 per cento. Lieve diminuzione dei femminicidi: dall’inizio del 2023 fino al 31 luglio sono stati 71 (-7,79 per cento), di cui 57 in ambito familiare affettivo (35 dal partner o dall’ex). In lieve aumento le rapine (15.486) e i furti (554.975). Aumento poi delle segnalazioni per il contrasto ai crimini d’odio e dei disordini in occasione delle partite di calcio.

Addio alla Nazionale, Mancini punta il dito contro Gravina

Roberto Mancini, fresco di addio all’Italia e prossimo ad accettare la corte dell’Arabia Saudita, che gli avrebbe proposto un contratto da 40 milioni annui per sedersi sulla panchina della Nazionale, ha parlato con Repubblica delle sue dimissioni, puntando il dito contro il presidente della Figc Gabriele Gravina: «Se avesse voluto, mi avrebbe trattenuto. Non l’ha fatto».

LEGGI ANCHE: La fuga di Mancini dalla Nazionale e l’imbarazzo degli sponsor

Addio alla Nazionale, Mancini punta il dito contro Gravina: dietro alle dimissioni le forti tensioni con il presidente della Figc.
Roberto Mancini e Gabriele Gravina (Getty Images).

«Mi doveva dare tranquillità, lui non l’ha fatto e io mi sono dimesso»

«Ho cercato più volte di parlare con Gravina ed esporgli le mie ragioni. Gli ho spiegato che in questi mesi mi doveva dare tranquillità, lui non l’ha fatto e io mi sono dimesso», ha spiegato il Mancio, mettendo in chiaro il motivo per cui se n’è andato – solo apparentemente all’improvviso: «Si è mai visto un presidente federale che cambia lo staff di un ct? Gravina è da un anno che voleva rivoluzionarlo, io gli ho fatto capire che non poteva, che al massimo poteva inserire un paio di figure in più, ma che non poteva privarmi di due persone di un gruppo di lavoro che funzionava, che funziona e che ha vinto l’Europeo. Semmai sono io che potevo sostituire un membro dello staff […] Io potevo essere più duro, certo, ma pensavo lo capisse da solo».

Addio alla Nazionale, Mancini punta il dito contro Gravina: dietro alle dimissioni le forti tensioni con il presidente della Figc.
Roberto Mancini (Getty Images).

«Ho lasciato la Nazionale a 25 giorni dalla prossima partita, non tre»

Al di là delle ragioni, l’ormai ex allenatore ha lasciato in un momento delicato, a meno di un mese dai prossimi impegni dell’Italia. «Dovevo farlo prima? Può darsi. Ma io ho lasciato la Nazionale a 25 giorni dalla prossima partita, non tre. E penso di essere sempre stato corretto in questi anni», ha detto Mancini, precisando che l’addio all’Italia non c’entra niente con il probabile approdo in Arabia Saudita: «Quello che sto dicendo è indipendente da quello che potrà succedere in futuro e da dove andrò. Ora non voglio pensare a niente».

La fuga di Mancini dalla Nazionale e l’imbarazzo degli sponsor

È bastata una pec a Roberto Mancini per passare da simbolo dell’italianità a traditore della patria. La stampa calcistica si muove per iperboli e così lo facciamo anche noi, ben consapevoli – come disse una volta il suo predecessore Arrigo Sacchi – che il calcio è la cosa più importante delle cose meno importanti. I cinque anni del Mancio sulla panchina azzurra, terminati con le dimissioni, sono stati caratterizzati da un punto altissimo, la vittoria dell’Europeo 2020, a cui ha fatto seguito il tonfo della mancata qualificazione al Mondiale di Qatar 2022. Sarà che forse ci avevamo fatto l’abitudine, ma grazie al successo colto nelle “notti magiche” dell’estate 2021, Mancini conservava ancora un certo appeal. Che, adesso, è stato spazzato via. Ed è qualcosa con cui dovranno fare i conti anche gli sponsor.

L'addio di Roberto Mancini alla Nazionale italiana e l'imbarazzo degli sponsor dopo le dimissioni a sorpresa.
Roberto Mancini (Getty Images).

Dietro all’addio le tensioni con Gravina (e forse i soldi arabi)

Su Instagram, un Mancini fresco di addio aveva scritto di «scelta personale». Il che vuol dire tutto e niente. Finita la magia di Euro 2020, torneo vinto meritatamente ma in maniera un po’ estemporanea e non figlia di una crescita di tutto il movimento, l’ormai ex ct ha fallito l’appuntamento con Qatar 2022 e sono venute alla luce tutte le magagne del nostro calcio. Alle difficoltà del ricambio generazionale, giurano i ben informati, si era aggiunto il “mal di pancia” per lo stravolgimento dello staff, concordato non si sa fino a che punto con la Figc: via gli storici collaboratori Alberico Evani, Giulio Nuciari e Attilio Lombardo, dentro Alberto Bollini, Andrea Barzagli e Antonio Gagliardi, col solo Fausto Salsano rimasto al fianco del ct. Èd è stato proprio questo, in effetti, a spingere il Mancio all’addio. Nella prima intervista dopo le dimissioni, concessa a Repubblica,  ha infatti detto di aver lasciato a causa del pessimo rapporto con Gabriele Gravina, lamentandosi per la recente decisione da parte del presidente della Federcalcio di nominare un nuovo staff, mandando via una parte dei suoi collaboratori storici: «Se avesse voluto, mi avrebbe trattenuto. Non l’ha fatto».

Certo, nonostante le smentite di circostanza il fattore economico potrebbe aver influito. Mancini da ct azzurro guadagnava 3 milioni, mentre da selezionatore dell’Arabia Saudita si vocifera potrebbe prenderne 40. Tredici volte tanto, e pure qualcosa in più. Comprensibile dunque la decisione di salutare l’Italia per volare a Riad, ma a far storcere il naso sono le tempistiche. Pochi giorni fa, la Figc aveva consegnato a Mancini il ruolo di coordinatore delle Nazionali fino all’Under 20. Inoltre manca pochissimo agli impegni contro Macedonia del Nord e Ucraina le qualificazioni a Euro 2024: c’è sempre un modo e un tempo per fare le cose e il Mancio ha toppato entrambi.

L'addio di Roberto Mancini alla Nazionale italiana e l'imbarazzo degli sponsor dopo le dimissioni a sorpresa.
Roberto Mancini durante un allenamento della Nazionale (Getty Images).

Il Mancio, un uomo fatto per le campagne pubblicitarie

E adesso, sorgono due domande. La prima: chi al suo posto? Antonio Conte-bis o Luciano Spalletti, che ha appena iniziato il suo anno sabbatico? Il secondo sembra a un passo, clausola col Napoli permettendo. La Figc è pronta a comunicare a breve il prescelto, forse già il 16 agosto. E dunque, seconda questione: che ne sarà delle pubblicità e delle campagne di cui il Mancio è stato testimonial? Certamente telegenico e con quel ciuffo un po’ così, che fa molto charme, l’ex tecnico azzurro continuava a essere una figura rassicurante, appena scalfita della mancata qualificazione al Mondiale. Adesso però potrebbe essere condannato alla damnatio memoriae.

Paul & Shark, Poste Italiane, Lidl, Telepass…

Già volto del rilancio turistico delle Marche, sua Regione d’origine, Mancini prima di Euro 2020 era stato scelto come testimonial della campagna (targata Mise) The Washing Machine Italia contro la contraffazione del merchandising ufficiale del torneo Uefa. Sempre stilosissimo, l’ex fantasista era inoltre diventato ambassador e testimonial di marchi della moda e del lusso come Paul & Shark, marchio di menswear per il quale aveva firmato una collezione ispirata «dall’amore per il mare». Ancora prima era stato protagonista di una campagna per Poste Italiane e di uno spot di Lidl, fornitore ufficiale di frutta e verdura per giocatori e staff durante i ritiri della selezione italiana. Ma questa è storia. Da inizio giugno 2023, invece, era protagonista della campagna pubblicitaria “Un’estate italiana” di Telepass, dispositivo lanciato nel 1990, anno dell’ultimo Mondiale giocato in Italia. E in cui, vabbè, Mancini non giocò nemmeno un minuto.

Una campagna adesso da rivedere, probabilmente da buttare. E che dire dello spot che il Dipartimento per le politiche antidroga e il Dipartimento per l’informazione e l’editoria hanno realizzato per sensibilizzare i giovani, in cui il ct sottolineava che tutte le droghe fanno male, esortando i ragazzi a vivere «le emozioni quelle vere»? A scanso di equivoci, questa campagna ha ricevuto forti critiche già dal suo lancio, sia per il messaggio sia per il livello della recitazione.

Marchigiano doc, Mancini ha da poco concesso il bis come testimonial dello spot che promuove il turismo nella sua Regione: “Let’s Marche! In Italy of course”. Ma intanto se n’è scappato in Arabia, potranno dire adesso i suoi detrattori. Da inizio 2023, l’ormai ex ct affiancava poi Paola Marella nella pubblicità dell’azienda Facile Ristrutturare. Sì, una casa. Provate a farlo con la Nazionale.

È morto Francesco Alberoni, il “sociologo dell’amore”

Addio al sociologo Francesco Alberoni, morto all’età di 93 anni a Milano. Da alcuni giorni era ricoverato all’Ospedale Maggiore per una complicazione sopraggiunta durante una terapia alla quale era sottoposto per problemi renali. Nella sua lunga carriera ha indagato i movimenti collettivi e le comunicazioni di massa, i fenomeni migratori e la partecipazione politica, ma soprattutto i processi amorosi.

È morto Francesco Alberoni, il “sociologo dell’amore”. Nel 1979 aveva pubblicato il bestseller Innamoramento e amore, tradotto in 25 lingue.
Francesco Alberoni, scomparso a 93 anni (Imagoeconomica).

Il successo di Innamoramento e amore, uscito nel 1979

Nato in provincia di Piacenza il 31 dicembre del 1929, fin dall’inizio della carriera aveva volto lo sguardo ai fenomeni sociali e di costume, studiando i cambiamenti del Paese.  Nel 1958 aveva pubblicato L’integrazione dell’immigrato nella società industriale e nel 1964, anno in cui diventò docente di sociologia all’università di Milano, Consumi e società. Nel 1979 aveva dato alle stampe il saggio Innamoramento e amore, bestseller da un milione di copie tradotto in 25 lingue, in cui analizzava l’innamoramento come un processo in cui due individui si ribellano ai loro legami precedenti dando origine a una nuova comunità. Tra le sue opere più celebri ci sono poi L’erotismo; L’arte del comando; Sesso e amore; Leader e masse; Lezioni d’amore; L’arte di amare. Il grande amore erotico che dura. Ma anche Movimento e istituzione; L’élite senza potere: ricerca sociologica sul divismo: L’Italia in trasformazione.

È morto Francesco Alberoni, il “sociologo dell’amore”. Nel 1979 aveva pubblicato il bestseller Innamoramento e amore, tradotto in 25 lingue.
Francesco Alberoni e Giorgia Meloni (Imagoeconomica).

Dal 1982 al 2011 ha avuto un rubrica sul Corriere della Sera

Membro del consiglio di amministrazione e consigliere anziano facente veci di presidente della Rai nel 2005, Albertoni è stato anche editorialista del Corriere della Sera, che dal 1982 al 2011 ogni lunedì ha ospitato in prima pagina una sua rubrica intitolata Pubblico e privato. Come accademico, Alberoni è stato – oltre che docente – anche rettore dell’Università di Trento dal 1968 al 1970 e della Iulm dal 1997 al 2001. Nel 2019, si era candidato alle Europee con Fratelli d’Italia: ottenne 5.220 voti e non fu eletto.

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