Truccato, rubato, un imbroglio. Tutti i giorni Donald Trump continua a definire così il voto del 2020, vinto dall’attuale presidente Joe Biden, e continuerà a farlo fino al prossimo voto presidenziale fra un anno esatto, quando spera di vincere e vendicarsi. E potrebbe farcela, perché tra il 30 e il 40 per cento degli americani, con vari livelli di certezza, continua a credergli. Rigged, truccato, è il suo termine preferito. La Corte Suprema che fino all’ultimo da presidente aveva infeudato con giudici “amici” gli ha dato torto nel dicembre 2020 in un procedimento d’urgenza avviato dai repubblicani del Texas per invalidare il voto in quattro Stati-chiave e portarli via a Biden; in dozzine di cause legali aperte dai suoi fedelissimi su presunti brogli in vari Stati ha sempre perso, con ricostruzioni fantasiose di casse di voti artefatti comparsi dal nulla smontate da giudici spesso di nomina repubblicana; e nell’aprile scorso Fox News di Rupert Murdoch, suo grande sostenitore, che aveva rilanciato la sua accusa di trafugamento di voti fatto con i computer elettorali della Dominion Voting Systems, secondo lui legata a George Soros, è stata condannata a pagare a Dominion un risarcimento di 787 milioni di dollari, perché persino le mail interne dei dirigenti di Fox esprimevano seri dubbi sulla credibilità del tutto. Ma non fa nulla, il 6 gennaio 2021, con l’attacco scomposto e violento al Congresso, è ora «una bella giornata».
The Donald parla all’America anti-sistema per la quale le sue menzogne sono la verità
Raramente l’Europa ha avuto così tanto in gioco in un’elezione americana. Finite le speranze del dopo Guerra Fredda, l’Europa ha una guerra in casa, in Ucraina, e sul problema storico dei rapporti difficili con la Russia non ci sono illusioni. Finora, e da oltre 70 anni, l’equilibrio si chiama Nato. Con Trump di nuovo a Washington, e con Putin che già apertamente lo sostiene, tutto si complicherebbe, e molto. Con Trump la politica è diventata il trionfo della menzogna perché ciò che conta è “caricare” la base ogni giorno. È questa la verità suprema. Mente su tutto, come fa da sempre anche prima della politica, e la sua credibilità è a zero, ma parla a un’America diventata anti-sistema, convinta che sia giusto rispondere con il falso alle falsità che Washington produce a getto continuo, perché il falso di Trump è il vero. È una crisi mentale e morale non solo americana, l’Europa ne ha dato di recente vari esempi, Italia compresa, ma oltre Atlantico ha raggiunto il parossismo. Ed è arrivata al cuore del sistema, con il voto del 2024 destinato a dare il giudizio finale. Se vince Trump si apre una crisi culturale di immensa portata, perché l’America è un Paese ideologico nato attorno alla Costituzione del 1789, mentre le nazioni europee, ad esempio, esistevano con forti legami storici anche ben prima delle loro prime carte costituzionali. Senza il rispetto di principio della legge suprema invece, non c’è più America. Due importanti procedimenti, uno federale a Washington e uno statale ad Atlanta, sui fatti drammatici del 6 gennaio 2021 e sulle forti pressioni per cambiare il voto in Georgia, dovrebbero imporre la forza della legge. Ma non è ancora chiaro il risultato. È chiaro invece che la decisione finale, condanna o trionfo, spetterà agli elettori fra un anno. Preoccupa il giudizio del senatore dello Utah Mitt Romney, sfidante di Barack Obama nel 2012, uno dei pochi repubblicani a non essersi mai inchinato a Trump, convinto che «una porzione notevole del partito in realtà non crede alla Costituzione». È una scelta, la fedeltà a Trump che disprezza la legge suprema viene prima. Per questo nel discorso di commiato, a fine settembre, il massimo capo militare, il generale Mike Milley, ha detto con forza: «Noi giuriamo sulla Costituzione, e non per un aspirante dittatore».
Trump con lo speaker Mike Johnson sfiderà le istituzioni Usa
È impossibile con un anno di anticipo azzardare pronostici sul voto del 2024. Vincere potrebbe essere per Trump più difficile che nel 2016, perché scalzare un presidente in carica non è semplice per uno sfidante molto forte con un terzo dell’elettorato, ma molto debole con il resto. Ma quanto accaduto in questi giorni alla Camera federale invita a non sottovalutare Trump. Alla Camera i repubblicani hanno una maggioranza risicatissima e poiché i deputati sono sempre sotto elezione, con un mandato solo biennale, tutti temono le primarie nei collegi e la forza della base trumpiana. In un ottobre di fuoco, la Camera ha cacciato il suo presidente, il repubblicano Kevin McCarthy, trumpiano tiepido; il gruppo repubblicano ha poi bruciato in poche ore le ambizioni del suo capogruppo Steve Scalise, anche lui tiepido; si è fatto avanti il puro e duro Jim Jordan, un puro MAGA (Make America Great Again), che nei giorni dell’assalto al Campidoglio fu il volto del trumpismo al Congresso, ma non ce l’ha fatta, perché i sempre prudenti non trumpiani doc sono comunque riusciti a bloccarlo; terzo, un altro tiepido, il vice di Scalise, Tom Emmer, bloccato con da Trump in persona in quanto troppo poco trumpiano; e alla fine è emerso Mike Johnson, avvocato della Louisiana, non meno vicino a Trump di Jordan, anche se con uno stile soft e non urlato. Ultraconservatore su tutto il fronte, contrario agli aiuti all’Ucraina, l’ignoto Johnson è ora dopo il vicepresidente Kamala Harris il terzo in linea di successione e la più alta carica dopo quella presidenziale.
Se Jordan era il volto della rivolta del gennaio 2021 alla Camera, Johnson ne fu la mente, e fu lui a raccogliere le firme di oltre il 60 per cento dei deputati repubblicani a favore del ricorso texano alla Corte Suprema per annullare il vantaggio elettorale di Biden in Georgia, Pennsylvania, Michigan e Wisconsin. Sicuramente Trump vorrà farne un emblema del futuro prossimo e una sfida istituzionale al potere della Casa Bianca democratica. La regola repubblicana da quasi mezzo secolo, dai tempi di Newton Gingrich che così voleva spezzare il dominio ininterrotto dei democratici dal ’54 al ’94, è opposizione totale a qualsiasi mossa dell’avversario. Sul seggio più alto della Camera siede quindi una bandiera della vittoria tradita e un ambiguo difensore della Costituzione. Parlando di Jordan, ma lo stesso vale per Johnson, scrive Ronald Brownstein su The Atlantic: «La sua ascesa, come l’ampia leadership di Trump nella corsa per la nomination repubblicana, dimostra che per la prima volta dalla Guerra Civile il fattore dominante in uno dei due maggiori partiti non è più legato ai principi della democrazia così come il Paese li ha conosciuti finora». Al voto trumpiano non importa nulla dell’Ucraina, dell’Europa e del resto del mondo. Il populismo americano, quello di destra in particolare, è sempre stato isolazionista, e la demagogia non ama la storia, che può sempre contraddirla.
L’Europa potrebbe dover fare i conti con il menefreghismo del tycoon
Lo studio degli archivi sovietici fatto negli Anni 90, quando furono aperti, ha documentato come il progetto di Mosca fosse il controllo dell’Europa, come zona d’influenza, fino alla Manica. Putin ricalca quelle orme. L’ambasciatore a Mosca Averell Harriman scriveva nel settembre 1944, rispondendo a una richiesta di Washington circa i progetti di Stalin sul controllo diretto di Polonia e altri: «Quello che mi spaventa, tuttavia, è che quando un Paese incomincia a estendere la sua influenza con metodi forti oltre i propri confini in nome della propria sicurezza è difficile capire dove si può tracciare una linea di demarcazione…Se si accetta la politica che l’Unione Sovietica ha il diritto di entrare per motivi di sicurezza nei Paesi immediatamente confinanti, la penetrazione in altri Paesi successivamente confinanti diventa a un certo punto ugualmente logica». Tutto questo Biden, che si è sempre occupato di Europa, lo sa. Trump non lo sa e non potrebbe importargliene di meno. L’establishment diplomatico, di intelligence e militare americano lo sa e questo pesa. I trumpiani lo ignorano e vogliono ignorarlo. E per gli europei si tratta di questioni vitali, che le menzogne di Trump non scalfiscono, perché con l’Ucraina l’ombra di che cos’era l’Europa quasi 80 anni fa ha ripreso ad agitarsi.