Tom Hanks, la storia del sorriso d’America

Negli Anni 90 è stato il simbolo dell’America clintoniana, progressista e fiduciosa nel futuro, felice per la vittoria sul comunismo e sicura del suo ruolo egemone nel mondo. È stato lo Spencer Tracy della globalizzazione felice, il suo sorriso ha girato il mondo con quella bontà rassicurante e placida. Proprio quel sorriso è stato qualche settimana fa utilizzato per uno spot di uno studio dentistico, ma Tom Hanks ha avvertito i suoi quasi 10 milioni di follower su Instagram che quell’immagine, riprodotta con l’Intelligenza artificiale, era stata utilizzata senza il suo consenso, dunque di non fidarsi. Tutto questo proprio nel mezzo della vertenza dei sindacati degli attori a stelle e strisce contro le grandi major, per chiedere di tutelare l’unicità di uno sguardo, di un’espressione, di un’emozione, non replicabili solo perché, come si dice in gergo, “funziona” e dunque porta soldi.

Nascita di un capolavoro del cinema ovvero come si pensa a Hollywood

A 69 anni, con un diabete in fase 2 diagnosticato da poco, Hanks mostra di non aver perso la voglia di reagire, di dire la sua, con eleganza e fermezza certo, ma senza indietreggiare di fronte a nessuno. E dopo essere stato diretto da Wes Anderson in Asteroid City (ultima di oltre 50 pellicole da lui interpretate) a suffragare la tesi che certe cose non sono replicabili dall’IA, arriva ora nelle librerie il suo primo romanzo, intitolato Nascita di un capolavoro del cinema (Bompiani). Ovvero il racconto di come nasce un grande film, dalla scrittura della storia fino all’uscita nelle sale. Ma non c’è da spaventarsi: non si tratta di un manuale, bensì di un romanzo pieno di ironia e ritmo che riesce anche a istruirci su come la pensano oggi a Hollywood. Dopo un breve antefatto, la vicenda inizia con un bambino, appassionato di fumetti, che passa un pomeriggio indimenticabile con lo zio, reduce dalla Seconda Guerra mondiale appena conclusa. Una manciata di ore che bastano a rapirne per sempre l’immaginazione e non importa se poi questo zio abbandona il piccolo Robby per andarsi a sbronzare con i suoi ex commilitoni, diventati una banda di motociclisti dedita alle risse, per non tornare mai più. Anni dopo, il piccolo Robbie è diventato uno scrittore di fumetti. Zio Bob, il beatnick con i jeans rivoltati e la motocicletta Indian Four, si trasforma nell’Incendiario, il soldato americano che con il lanciafiamme uccide i cattivi sulla spiaggia di Okinawa. Una sorta di supereroe con la divisa dell’esercito americano, perfetto secondo i produttori per inserirsi in quel filone che sembra non esaurirsi mai, tra un Batman e uno Spiderman. Il romanzo prosegue, sempre con tono brioso, a raccontare come questo plot diventi un film a grande budget, destinato a invadere gli schermi di tutto il mondo. Ci sono le immancabili discussioni fra regista e produttore, le bizze dei divi, ma l’attenzione di Hanks si sofferma piuttosto sui protagonisti invisibili al pubblico, quella pletora di maestranze, tecnici, segretarie, quelle persone comuni che per gran parte della carriera ha incarnato in modo impareggiabile.

Tom Hanks, la storia del sorriso d'America
La copertina di Nascita di un capolavoro del cinema, primo romanzo di Tom Hanks.

Il primo ruolo da protagonista grazie a Ron Howard in Splash

Figlio di un cuoco e di una cameriera, dopo la separazione fra i due Hanks inizia a viaggiare lungo gli Stati Uniti al seguito del padre. Inizia prestissimo a recitare, perlopiù in piccoli ruoli e soprattutto in serie televisive dei primi Anni 80 come Love Boat, Casa Keaton e Happy Days. Ed è proprio l’ex Richie Cunningham compagno di Fonzie della serie cult, ovvero Ron Howard, gli offre la prima opportunità da protagonista. È il 1984, Hanks ha 28 anni e si trova a recitare accanto a Daryl Hannah, la replicante di cui si innamora il cacciatore di taglie Harrison Ford in Blade Runner. Splash. Una sirena a Manhattan raccoglie un buon successo, lanciando la carriera di Hanks.

Tom Hanks, la storia del sorriso d'America
Una scena di Splash. Una sirena a Manhattan.

Dall’Oscar con Philadelphia a Forrest Gump

Siamo nell’America reaganiana, impazzano gli eroi muscolari di Stallone e Schwarzenegger, Hanks si ritaglia una posizione in ruoli brillanti, ma il momento di svolta nella carriera  arriva alcuni anni dopo, in tutt’altra temperie. Nel ’93 è il protagonista di Philadelphia in cui interpreta il ruolo di Andrew Beckett, l’avvocato yuppie e omossessuale che, scoperto di aver contratto l’Aids, inizia un travagliato percorso di cambiamento interiore. Film di Jonathan Demme, con quella memorabile canzone di Bruce Springsteen, Streets of Philadelphia, a farne il ritratto di una generazione. Hanks vince un Oscar. Ma è solo l’inizio perché l’anno successivo interpreta il suo personaggio più importante, Forrest Gump, l’ingenuo antieroe che attraversa 30 anni di storia americana, trovando ovunque del buono, perfino nella sporca guerra del Vietnam, dove salva i suoi commilitoni e trova una via di salvezza per l’arrabbiato tenente Dan, facendolo uscire dal cliché del reduce senza speranze. È un personaggio che lo plasma e che si porterà dietro per sempre, volentieri o suo malgrado non importa, sulle dune della Normandia di Salvate il soldato Ryan o su quelle di Okinawa. Due battaglie tremende, due carneficine, attraversate con il passo sicuro di chi sente di essere in missione per qualcosa di superiore, forse il diritto alla felicità, forse il buon vecchio sogno americano non importa.

 

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