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Fausto Leali in concerto per Fratelli d’Italia: «Sono apolitico, canto per chi mi paga»

In occasione del 34esimo anniversario della notte di Berlino, con la caduta del Muro nel 1989, la ministra al Turismo Daniela Santanchè e il presidente del Senato Ignazio La Russa saranno a Milano per le celebrazioni. All’evento di Piazza Cordusio, che partirà alle 15 di sabato 11 novembre, i due esponenti di Fratelli d’Italia saranno tra i protagonisti insieme al senatore Giulio Terzi di Santagata e a Carlo Fidanza, capogruppo di FdI al Parlamento europeo. Ci sarà anche la musica. La manifestazione, che si intitola La libertà contro ogni muro, vedrà ospite Fausto Leali. Ma il cantante ha già preso le distanze a livello politico.

Fausto Leali in concerto per Fratelli d'Italia «Sono apolitico, canto per chi mi paga»
Fausto Leali sul palco di Sanremo nel 2021 (Getty Images).

Leali: «Io apolitico, canto per chi mi paga»

Contattato dal Corriere della Sera, infatti, Leali ha dichiarato: «Io canto. Sono apolitico: né di destra, né di sinistra. Io sono un professionista: se uno mi chiede di cantare per il compenso che chiedo, ci vado». Il 79enne, tra l’altro, ha trionfato al Festival di Sanremo con Ti lascerò, insieme ad Anna Oxa, proprio nel 1989, diversi mesi prima della caduta del Muro di Berlino. Recentemente, invece, Leali è stato discusso protagonista al Grande Fratello vip. Nell’edizione del 2020, prima ha pronunciato alcune frasi su Mussolini e poi è stato espulso per avere utilizzato il termine «negro» riferendosi a Mario Balotelli. 

Salvini pronto a precettare per lo sciopero dei trasporti del 17 novembre

«Non possono esserci scioperi di 24 ore». Lo ha affermato il vicepremier e ministro Matteo Salvini all’assemblea della Cna, dicendosi pronto a precettare i lavoratori dei trasporti, per lo sciopero proclamato per il 17 novembre, se i sindacati non aderiranno alla richiesta della commissione di garanzia per chiedere un contingentamento della mobilitazione. «Scioperare per quattro ore è assolutamente legittimo, per 24 no», ha detto il ministro. «Se i sindacati aderiranno alla richiesta bene, se no, come ho già fatto, interverrò» e c’è «lo strumento della precettazione».

Salari, assunzioni e stabilizzazione dei precari al centro dello sciopero

Ad annunciare lo sciopero l’Unione Sindacale di Base, che si prepara a scendere nuovamente in piazza per chiedere un aumento di 300 euro netti mensili in busta paga, oltre alla stabilizzazione dei lavoratori precari e l’assunzione di un milione di lavoratori a tempo indeterminato. In una nota, il sindacato ha precisato che i dipendenti pubblici italiani hanno «salari che sono significativamente inferiori rispetto ad altri Paesi europei».

Riccardo Molinari assolto dall’accusa di falso elettorale

Riccardo Molinari, capogruppo della Lega alla Camera dei deputati, è stato assolto dall’accusa di falso elettorale. La sentenza è stata pronunciata dal giudice Paolo Gallo, del tribunale di Torino, perché «il fatto non sussiste», e riguarda anche gli altri due imputati: l’altro parlamentare leghista Alessandro Manuel Benvenuto e il militante del Carroccio Fabrizio Bruno. La vicenda si riferisce alle elezioni comunali a Moncalieri (Torino) del 2020, quando dall’elenco dei candidati fu depennato il nome di Stefano Zacà, storico esponente locale di Forza Italia appena approdato alla Lega. La procura aveva chiesto otto mesi di reclusione.

Riccardo Molinari assolto dall'accusa di falso elettorale. La vicenda si riferiva alle Comunali di Moncalieri del 2020.
Matteo Salvini e Riccardo Molinari (Imagoeconomica).

Salvini: «Un abbraccio all’amico Molinari, assolto dall’accusa di falso elettorale perché il fatto non sussiste»

«È giusto così, è andata esattamente come doveva andare per l’onorevole Molinari, per l’onorevole Benvenuto e per il dottor Bruno», ha detto all’Adnkronos Luca Gastini, difensore di tutti e tre gli ormai ex imputati. Così Matteo Salvini, leader del Carroccio: «Un abbraccio all’amico Riccardo Molinari, assolto dall’accusa di falso elettorale perché il fatto non sussiste. Anni di fango e di veleni spazzati via senza se e senza ma, alla faccia di chi – anche nelle scorse ore – evidenziava le richieste dell’accusa sperando in una condanna».

La mancata pista da bob a Cortina è il primo grande passo falso di Luca Zaia

Il primo passo falso se l’è scelto proprio bene. E certo Luca Zaia, governatore del Veneto, era consapevole che prima o poi dovesse succedere. E che a forza di governare ininterrottamente dal 2010 la Regione, con la benedizione di un consenso elettorale da Corea del Nord, l’eccesso di fiducia in se stesso potesse fargli velo e lo portasse dritto a commettere un errore. Ma la figuraccia rimediata sulla (mancata) ristrutturazione della pista di bob a Cortina è una macchia enorme in un curriculum fin qui ricco di soddisfazioni. E le conseguenze sul versante veneto delle Olimpiadi invernali Milano-Cortina 2026 sono molto serie, con un programma che all’improvviso è diventato poverissimo e una gigantesca frustrazione per le aspettative del territorio.

Malagò ha trattato Zaia come se fosse un sottoposto del Coni

Tutto quanto avviene a causa di un puntiglio che è stato non soltanto del governatore veneto, ma anche del suo degno compare nonché presidente del Coni, Giovanni Malagò. Entrambi si sono intestarditi per far disputare a Cortina le gare di bob, skeleton e slittino. Così fermamente convinti hanno rifiutato da subito ogni ipotesi di spostare altrove le competizioni di queste discipline, quando da subito è stato evidente che realizzare in tempo l’impianto nella Regina delle Dolomiti sarebbe stato impossibile. Adesso i due litigano perché Malagò ha annunciato la definitiva rinuncia a far disputare le gare nell’impianto ampezzano, senza però avvisare preventivamente Zaia. Col governatore che si è ritrovato trattato come se fosse un sottoposto del Coni. Smacco al quadrato.

La mancata pista da bob a Cortina è il primo grande passo falso di Luca Zaia
Luca Zaia a Pontida (Imagoeconomica).

Per la pista da bob di Cortina i costi erano lievitati a 100-120 milioni

Le si potrebbe ribattezzare “Olimpiadi invernali Eugenio Monti 2026”, dato che fin qui non si è quasi parlato d’altro. La storica pista olimpica che è stata un punto di riferimento per lo sport internazionale ma poi è stata dismessa nel 2008. Il dossier della candidatura olimpica comprendeva la Eugenio Monti come una delle soluzioni principali, con promessa di avviare un’opera di ripristino sulla quale già il Comitato olimpico internazionale (Cio) manifestava perplessità. E ancor più ne manifestavano altri comitati, quelli espressi a Cortina da cittadini e ambientalisti. Anche perché il progetto non riguardava un semplice recupero, ma un nuovo tracciato con impatto molto importante in termini ecologici. Inoltre, i suoi costi preventivarti sono subito lievitati dagli 85 milioni di euro iniziali ai 100-120 milioni delle stime aggiornate a causa dell’impatto del conflitto russo-ucraino. Così come molto gravosi sarebbero stati i successivi costi di mantenimento, la famosa eredità olimpica trasformata in cambiale a strozzo.

Tempi strettissimi, ritardi e gare d’appalto andate deserte

Di fatto, quella pista non la voleva quasi nessuno. Ma soprattutto era evidente che i tempi per completare i lavori sarebbero stati strettissimi. E i ritardi accumulati da subito hanno fatto capire che la missione sarebbe stata impossibile. Rispetto a tutte queste evidenze Zaia non ha voluto sentire ragioni. Il governatore veneto è stato il principale sponsor del rifacimento della pista e ha sempre, sdegnosamente rifiutato l’idea di spostare le gare altrove in Italia (la pista di Cesana utilizzata per le Olimpiadi invernali di Torino 2006 è anch’essa abbandonata) o all’estero (Austria, Francia, Svizzera). Zaia non se n’è voluto fare una ragione nemmeno quando ha visto andare deserte le gare d’appalto per l’affidamento dei lavori di rifacimento. Che invece sono state una doccia gelata di realismo per Giovanni Malagò: nessuna ditta si sarebbe sobbarcata quei lavori da fare in così poco tempo. Così il presidente del Coni ha annunciato la resa il 16 ottobre, in occasione della 141esima sessione del Cio a Mumbai.

La mancata pista da bob a Cortina è il primo grande passo falso di Luca Zaia
Il presidente del Coni Giovanni Malagò (Imagoeconomica).

Dopo la figuraccia della delocalizzazione Malagò dovrebbe dimettersi

Fine delle chiacchiere, la pista di Cortina non c’era e non ci sarà. Ciò che è anche premessa di una figuraccia per lo sport italiano e per un Paese intero: battersi per avere i Giochi, garantire di essere in grado di ospitarli, e poi essere costretti a delocalizzarne parte all’estero. Se davvero non si troverà una (improbabile) soluzione interna, a Malagò non resterà altra strada che le dimissioni.

Ora Zaia chiede una redistribuzione delle discipline. Già, ma quali?

Ovvio che, dal punto di vista del governatore del Veneto, queste ultime siano faccende romane. A lui interessa che d’improvviso il programma olimpico da svolgere a Cortina si sia ridotto a poverissima cosa: curling e sci alpino femminile. Una lista troppo minimal per quella che dovrebbe essere città co-ospitante. Per questo adesso Zaia chiede con forza che almeno ci sia una redistribuzione territoriale delle discipline sportive. Già, ma a chi togliere qualcosa? E come andarglielo a spiegare? Il governatore protesta e fa l’indignato, ma intimamente sa che è stato quantomeno incauto. Il pateracchio della pista Eugenio Monti rimane in capo soprattutto a lui. E ne è consapevole.

Giorgia Meloni: «Combattiamo l’evasione vera, non quella presunta»

«Senza l’artigianato e le piccole e medie imprese semplicemente non esisterebbe il Made in Italy, e l’Italia non potrebbe contare sul patrimonio di conoscenze, qualità e innovazione che ci permette di essere conosciuti sui mercati internazionali». Sono le parole della presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, intervenuta in videocollegamento all’assemblea nazionale della Cna. La premier ha aggiunto: «Noi combattiamo l’evasione fiscale, quella vera, non quella presunta».

Artigianato e Pmi “ossatura della nazione”

«Considero da sempre gli artigiani e le piccole e medie imprese l’ossatura della nazione, la spina dorsale fatta di uomini, donne e famiglie che ogni giorno consente all’Italia di produrre ricchezza e posti di lavoro», ha spiegato Meloni. «Voi non avete mai fatto mancare il vostro contributo, orgoglioso, costruttivo, realista, e noi non faremo mancare la nostra disponibilità ad ascoltare e comprendere le necessità di un mondo così importante per l’economia italiana.

«Gli italiani non si faranno sfuggire la riforma madre»

Sulla riforma del premierato, ha inoltre sottolineato Meloni, «cercheremo il consenso ampio in Parlamento, se non sarà possibile chiederemo ai cittadini cosa pensano. Confido che gli italiani non si faranno sfuggire l’occasione di approvare la madre di tutte le riforme».

Il video di Giorgia Meloni che ringrazia il Pd creato con l’intelligenza artificiale

Un’insolita Giorgia Meloni dice «grazie ai senatori e alle senatrici del Partito democratico per aver creato un ambiente favorevole allo sviluppo tecnologico nel nostro Paese». Ma è il risultato di un video creato con l‘intelligenza artificiale proiettato durante la presentazione al Senato del Digital Innovation Act del Pd.

Il video era una dimostrazione dell’uso improprio dell’IA

I dem hanno presentato un disegno di legge in tema di innovazione e sviluppo tecnologico al Senato e, tra le misure delineate, ci sono il contrasto ai contenuti illegali e la promozione di algoritmi trasparenti. Misure, hanno spiegato i senatori, volte a «evitare gli usi impropri dell’IA, come il video mostrato in conferenza stampa con una finta dichiarazione della premier Meloni». Alla presentazione nella Sala Nassirya hanno partecipato i proponenti Lorenzo Basso, vicepresidente della Commissione ottava, Antonio Nicita, vicepresidente del gruppo e Antonio Misiani, responsabile economico dei dem, con la senatrice Beatrice Lorenzin, vicepresidente dei senatori.

In cosa consiste il Digital Innovation Act

I dettagli del ddl sono stati resi noti in una nota del Partito Democratico. Il Digital Innovation Act si sviluppa attraverso tre pilastri: «Il primo riguarda la governance, con la creazione di un nuovo ministero dell’Innovazione e dello Sviluppo tecnologico, di un Consiglio nazionale dell’innovazione, di un Comitato interministeriale per le politiche industriali e di sviluppo tecnologico, oltre a un Comitato per la regolazione digitale». «Il secondo pilastro», continua la nota, «si focalizza sulle misure per la sostenibilità nell’innovazione, come la promozione dei principi di accessibilità, il contrasto ai contenuti illegali, l’accesso tutelato per i minori, algoritmi trasparenti, la contendibilità e l’equità dei servizi digitali. Infine, il terzo pilastro, «si concentra sulle misure volte a promuovere lo sviluppo di tecnologia e abilitare l’innovazione, un voucher per la digitalizzazione delle piccole e micro imprese e dei lavoratori autonomi, la creazione di un credito d’imposta per gli investimenti in beni tecnologicamente avanzati e/o green».

Falso elettorale, chiesti otto mesi di reclusione per Riccardo Molinari

Otto mesi di reclusione. È la condanna chiesta dalla procura di Torino per Riccardo Molinari, capogruppo della Lega alla Camera dei deputati, e per altre due persone processate del capoluogo piemontese per un presunto falso elettorale. Il pubblico ministero Gianfranco Colace ha specificato che si tratta del «minimo della pena». La vicenda si riferisce alle elezioni comunali a Moncalieri (provincia di Torino) del 2020, quando dall’elenco dei candidati fu depennato il nome di un ex di Forza Italia appena approdato alla Lega.

Falso elettorale, chiesti otto mesi per Riccardo Molinari, capogruppo della Lega alla Camera. Il pm: «È il minimo della pena».
Riccardo Molinari (Imagoeconomica).

Molinari è accusato di aver manomesso la lista elettorale, escludendo il candidato Stefano Zacà

Molinari è accusato di aver manomesso la lista elettorale, in concorso con un altro parlamentare leghista, Alessandro Manuel Benvenuto, e al militante del Carroccio Fabrizio Bruno, cancellando il nome sgradito di Stefano Zacà – storico esponente locale di Forza Italia che aveva deciso di candidarsi con la Lega – prima che venisse depositata, ma dopo che erano state apposte le firme degli elettori.

Regionali Sardegna, Alessandra Todde del M5s è la candidata del campo largo

Il campo largo prova a contrastare il centrodestra nelle prossime Elezioni Regionali in Sardegna candidando Alessandra Todde, attuale deputata del MoVimento 5 Stelle di cui è anche vicepresidente dal 2021. Una scelta di primo piano dunque, visto il curriculum della pentastellata che ha ricoperto i ruoli di sottosegretaria di Stato al ministero dello Sviluppo economico nel governo Conte II e quello di viceministra dello Sviluppo economico nell’esecutivo di Mario Draghi. A sostegno di Todde c’è, naturalmente, il M5S così come il Partito democratico, mentre va registrato il mancato assenso da parte degli indipendenti di Liberu, di +Europa e dei Progressisti dell’ex sindaco di Cagliari Massimo Zedda.

Contro la candidatura di Todde Liberu, +Europa, i Progressisti di Zedda e Base Sardegna

I no alla candidatura di Alessandra Todde nelle Regionali in Sardegna sono arrivati per una mancata condivisione del metodo adottato per la sua scelta. Liberu, +Europa, i Progressisti di Massimo Zedda, ex sindaco di Cagliari,così come Base Sardegna dell’ex deputato di Centro democratico Roberto Capelli, lamentano una selezione imposta dall’alto, da Pd e M5S, con un accordo che sarebbe stato raggiunto a Roma solo da Elly Schlein e Giuseppe Conte senza il coinvolgimento di tutte le forze che, potenzialmente, potrebbero convivere nel campo largo. Questa versione è stata più volte smentita dai democratici e dai pentastellati.

Elly Schlein e Giuseppe Conte, segretari di Pd e M5S
Elly Schlein e Giuseppe Conte, segretari di Pd e M5S (Imagoeconomica).

I Progressisti potrebbero candidare Renato Soru

Fatto sta, però, che i Progressisti potrebbero scegliere di supportare un’altra candidatura, quella dell’ex presidente della Regione ed ex segretario dem sardo Renato Soru che, nei mesi scorsi, aveva chiesto delle primarie per la scelta di un candidato comune. Alle stesse avrebbe potuto prendere parte anche il sindaco di Quartu Sant’Elena, Graziano Milia del Pd. «Constatiamo il restringimento del perimetro del campo, sempre meno largo e sempre più conflittuale, esternamente ed internamente alle forze politiche che lo compongono. Non accorgersi di questo sarebbe miope e sbagliato», hanno commentato i Progressisti.

Massimo Zedda dei Progressisti
Massimo Zedda.

Todde: «Dobbiamo ricucire, le destre si battono con la massima compattezza»

Il campo è, dunque, largo solo in parte, con la solita lotta interna che potrebbe penalizzare tutte le candidature di centrosinistra. Ne è convinta anche Todde che subito dopo l’annuncio della sua candidatura ha sottolineato la necessità di unità e compattezza per battere le destre. «Sono emozionata, sono contenta, credo che oggi sia un giorno fondamentale per proseguire con questo campo progressista», ha dichiarato, «sono orgogliosa di rappresentare questa coalizione. Abbiamo necessità di costruire assieme la migliore proposta possibile per permettere ai sardi di spazzare via la peggiore giunta regionale che la Sardegna ha avuto negli ultimi anni. Non ho mai creduto nelle donne e negli uomini soli al comando e non comincerò oggi. Siamo una squadra e lavoreremo da squadra nel solco dell’unità e della condivisione». Poi l’invito agli elettori e alle altre forze del centrosinistra: «Da domani mattina saremo fuori per parlare con i sardi e convincere ogni persona, strada per strada, che noi siamo l’alternativa migliore al peggior governo che la Sardegna abbia mai avuto. Dobbiamo ricucire con tutti, dobbiamo essere aperti, inclusivi e dialoganti perché le destre si battono con la massima compattezza e la massima unità e credo potremo essere convincenti».

Geronimo La Russa al Piccolo Teatro e i due tipi di sistemazione senza scrupoli della prole

Geronimo La Russa, appena nominato dal governo nel consiglio di amministrazione del Piccolo Teatro di Milano, che per la prosa è il più prestigioso palcoscenico italiano, si difende dalle critiche sostenendo che i cognomi dei padri non devono ricadere sui figli. Nella fattispecie, se mi chiamo La Russa e papà è presidente del Senato dovrei forse astenermi da ogni attività pubblica? Certo che no, però magari dovresti astenerti dal sospetto di bulimia da poltrone e accontentarti di essere già consigliere della società che sta costruendo la nuova linea del metrò nonché presidente dell’Aci, il club degli automobilisti italiani. Il troppo stroppia, e farsi bastare quel che si ha può essere saggia cosa. Oltretutto il primogenito di Ignazio appartiene a una famiglia che non si è mai tirata indietro quando c’era qualche posto da occupare. E ora che il partito di riferimento, Fratelli d’Italia, si è preso la guida del Paese, l’attitudine si è fatta ancora più invasiva.

Geronimo La Russa al Piccolo Teatro e i due tipi di sistemazione senza scrupoli della prole
Geronimo La Russa (Imagoeconomica).

Gravina e il tentativo di arginare il vulcanico Lotito

Geronimo del resto ha buon gioco nel dire che così fan tutti, indipendentemente dal colore politico di appartenenza. È di pochi giorni fa la notizia che il presidente della Federcalcio Gabriele Gravina per coprirsi a destra ha assunto i figli di Giancarlo Giorgetti e Antonio Tajani, immaginiamo nel tentativo di arginare il vulcanico Claudio Lotito, tra le tante cose anche senatore di Forza Italia, che da tempo ne reclama lo scalpo.

Geronimo La Russa al Piccolo Teatro e i due tipi di sistemazione senza scrupoli della prole
Gabriele Gravina (Imagoeconomica).

Una sistemazione d’oro perché del doman non v’è certezza

Episodi diversi, ma che servono a spiegare le due dinamiche che presiedono alla sistemazione della prole. La prima è quella del tengo famiglia, quindi faccio di tutto per trovare una degna e remunerata sistemazione al sangue del mio sangue perché del doman non v’è certezza, il vento della politica è cangiante al punto che basta un attimo per ritrovarsi dal paradiso alla strada. E magari il pargolo di suo non manifesta doti eccelse tali da fargli presagire un radioso futuro.

Ingraziarsi i padri per assicurarsi protezione o avanzamenti di carriera

La seconda ha a che fare con quella che si potrebbe definire strategia preventiva. In questo caso a essere piazzati non sono i propri figli ma quelli degli altri, con lo scopo di ingraziarsi i padri o le madri ritenuti determinanti per assicurarti una protezione o un avanzamento di carriera. Questa seconda è la modalità più diffusa, ma anche la più cinica e deprecabile. Se nella prima infatti prevale il sentimento, perché a qualunque latitudine i figli so’ piezz’ ‘e core al punto da far cadere ogni considerazione di opportunità, la seconda è mera pratica di palazzo. Clientelare, distruttrice di ogni merito. Utilizzata quasi sempre da chi, a parole, ne fa l’esaltazione.

Renzi non perdona gli ex amici e ora vuol fare di Nardella il nuovo Calenda

Matteo Renzi non si tira mai indietro quando c’è da prendere di punta uno che l’ha fatto adontare. E adesso sono due i malcapitati. Uno sta a Firenze e fa il sindaco, si chiama Dario Nardella. L’altro sta a Roma e fa il leader di Azione, si chiama Carlo Calenda. L’ex presidente del Consiglio non tollera l’ingratitudine, non l’ha mai sopportata e punisce sempre chiunque – a suo dire – non si dimostri riconoscente per l’unzione ricevuta negli anni.

Renzi non perdona gli ex amici e ora vuol fare di Nardella il nuovo Calenda
Carlo Calenda (Imagoeconomica).

Il divorzio tra Italia viva e Azione: Renzi e la resa dei conti con Calenda al Senato 

Per lui d’altronde un renziano è per sempre, come i diamanti. Ora, Calenda non è mai stato un matteolebano, ma per il leader di Italia Viva poco cambia: a fare il “Rappresentante Permanente d’Italia presso l’Unione Europea” ce l’ha mandato lui, ma a rompere il fu Terzo Polo – è sempre il pensiero di Renzi, eh – è stato quello sfascista di Azione. E via così. Questa settimana, il senatore semplice di Firenze – perfido come pochi – ha servito all’ex amico libdem una lezione in punta di tattica sul regolamento parlamentare. Il divorzio più lungo della storia, quello fra Azione e Italia Viva, aveva infatti bisogno di un ulteriore aggiustamento, visto che al Senato i partiti dei due gran galli del pollaio erano nello stesso gruppo e Calenda non ne poteva più di respirare la stessa aria di Renzi. Sicché, dopo giorni di discussioni senatoriali e carte con i bollini di Palazzo Madama, la Giunta per il regolamento del Senato ha premiato l’ex presidente del Consiglio: il gruppo resterà a Italia viva, con sette senatori, e potrà in seguito cambiare anche nome. I quattro senatori di Azione, invece, passeranno al gruppo Misto, dove potranno creare una propria componente. Gli azionisti si troveranno insieme all’Alleanza di Verdi e Sinistra, cioè, fra gli altri, Peppe De Cristofaro e Ilaria Cucchi. Calenda non l’ha presa bene. I suoi dicono che senza l’aiuto del presidente del Senato Ignazio La Russa Renzi non ce l’avrebbe mai fatta a tenersi per sé il gruppo e spedire Azione nel Misto. I renziani invece amano ricordare, casualmente in questi giorni, che un mese fa Calenda era a Firenze, ospite del Pd (il Pd che a Firenze è alleato di Italia Viva, per la cronaca), e che ha burbanzosamente infilzato Renzi guadagnandosi gli applausi scroscianti degli astanti alla casa del popolo di San Bartolo a Cintoia. Ecco, la cosa non è affatto piaciuta all’ex presidente del Consiglio, che ha per l’appunto scatenato i suoi luogotenenti regionali e cittadini, come l’europarlamentare Nicola Danti, per gridare allo scandalo.

Renzi non perdona gli ex amici e ora vuol fare di Nardella il nuovo Calenda
Matteo Renzi e alle sue spalle Carlo Calenda (Imagoeconomica).

Il piano per affossare Nardella e i suoi progetti per Firenze

Ma per Renzi il nemico in casa pare essere una costante. Prendiamo il sindaco di Firenze, Nardella, futuro candidato alle Europee. Il principale desiderio di Renzi a Firenze è che perda lui, non il Pd. Ma non deve perdere solo elettoralmente – alle Europee c’è un gigantesco collegio dell’Italia Centrale da affrontare -, sarebbe troppo semplice. Anzitutto, non deve poter indicare lui il suo successore. Nardella ha già scelto: vorrebbe una sua assessora, Sara Funaro, senza passare dal via, cioè dalle primarie. Renzi non gli vuole concedere questo lusso e quindi medita per Nardella una sconfitta che sia anzitutto esistenziale, ma in tempi di vacche magre – Italia Viva non è esattamente il Pd del 40,8 per cento – può soprattutto sfruttare la sua capacità di interdizione, che a Firenze comunque un certo peso ce l’ha. Perché, nonostante l’antipatia generalizzata che riesce a suscitare oggi Renzi, la pars destruens è ancora quella che gli viene meglio. Dunque, non c’è giorno che i renziani in Toscana non avviino una polemica. A Firenze, poi, non ne parliamo. Renzi ha individuato alcune battaglie campali con cui intende attaccare Nardella, tra cui c’è il caso dello stadio di Firenze, l’unico argomento che interessa davvero ai fiorentini, avendo la città un legame fortemente identitario con la sua squadra di calcio. L’Artemio Franchi è da rifare, Nardella avrebbe voluto usare i quattrini del Pnrr, ma il governo Meloni ha detto di no (Renzi naturalmente concorda con il rifiuto) e quindi ora Palazzo Vecchio deve inventarsi nuove soluzioni. Solo che le prossime elezioni amministrative incombono, e la città non sembra essere pronta: le cronache locali dei giornali sono piene di episodi di microcriminalità, di cantieri, di lavori, di polemiche decennali sullo stadio (e l’aeroporto di Peretola, che necessiterebbe di una nuova pista, epperò osteggiata dai Comuni limitrofi di Firenze; vecchia storia, pure quella). Renzi sa insomma dove colpire e vuole fare di Nardella un nuovo Calenda.

La Lega presenta il ddl: «Stipendi in base al costo della vita»

La Lega ha presentato un disegno di legge «per dare la possibilità alla contrattazione di secondo livello, territoriale e aziendale, di utilizzare il parametro del costo della vita, oltre a quelli già previsti per legge, nell’attribuzione dei trattamenti economici accessori ai dipendenti pubblici e privati». Ad annunciarlo il senatore Massimiliano Romeo, capogruppo del Carroccio a Palazzo Madama.

Previsto nel ddl anche un credito di imposta per i datori di lavoro privati

«Chiaramente, il principio della parità retributiva non viene meno. Parliamo infatti di trattamenti economici accessori, che possono essere così riconosciuti ai dipendenti valutando anche il diverso impatto che l’incremento dei costi dei beni essenziali ha sui cittadini, così come si evince dagli indici Istat», spiega Romeo. «Si pensi alle grandi città», dice ancora il senatore della Lega, «dove l’inflazione ha degli effetti differenti rispetto ad altre zone del nostro Paese. Introduciamo con questa norma un elemento nuovo, attribuendo ai lavoratori una somma differenziata in base al luogo in cui ha sede l’azienda, prevedendo per i datori di lavoro privati un credito d’imposta per coprire le spese sostenute. Riteniamo sia una proposta di buonsenso».

Caso Orlandi, anche il Senato approva la commissione parlamentare d’inchiesta

Via libera alla commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Orlandi-Gregori. Dopo tanti rinvii, il Senato ha approvato in via definitiva e a larga maggioranza il disegno di legge per l’istituzione della bicamerale. L’unanimità del 23 marzo 2023 alla Camera si è quasi ripetuta, con un solo astenuto (Pierferdinando Casini) e un voto contrario (Roberto Menia di Fratelli d’Italia). Presto, quindi, sarà il Parlamento a occuparsi di uno dei misteri che da anni riguardano l’Italia, ovvero la scomparsa della 15enne Emanuela Orlandi, avvenuta il 22 giugno 1983, e quella della coetanea Mirella Gregori, figlia di un barista romano sparita un mese prima.

La discussione in Aula

L’ex presidente della Camera Pierferdinando Casini, eletto nel Pd ma in disaccordo sulla questione, ha comunicato la sua decisione di astenersi, poiché contrario all’idea del Parlamento di assumersi «competenze che non gli spettano, quando ci sono indagini giudiziarie in corso». Maurizio Gasparri, di Forza Italia, non ha votato contro ma ha espresso delle perplessità: «La nuova commissione non deve diventare un teatrino mediatico, un’aggressione ai santi. Questo non lo tollereremo».

L’organismo avrà il pieno potere investigativo

La commissione bicamerale dovrà affrontare un caso, quello delle due ragazze scomparse, che va oltre la cronaca nera e assume i connotati di un enigma geopolitico. Il mistero di Emanuela e Mirella, infatti, ha coinvolto servizi segreti, ambienti religiosi e criminalità nel corso di 40 anni. L’insediamento dei 40 commissari (20 deputati e 20 senatori) è previsto entro la fine dell’anno. I prossimi passi includono la nomina dei 40 membri, la costituzione del comitato di presidenza e l’elezione del presidente, che la maggioranza di centrodestra desidera mantenere per sé. Questo organismo avrà il pieno potere investigativo, con un budget annuale di 50 mila euro. I lavori dovranno concludersi entro circa quattro anni. Per la prima volta, dunque toccherà alla politica provare a chiarire quanto accaduto e perché.

L’idea delle sorelle Meloni in lista alle Europee, Schlein da Vespa e gli altri spifferi

Alla fine una Meloni ci sarà, nelle liste dei candidati europei di Fratelli d’Italia. Anzi, almeno una, perché la tentazione di portare entrambe le sorelle all’europarlamento sta piacendo ai vertici (ovvero, Giorgia) del partito di destra che guida il governo. Il ragionamento è semplice: il “brand” Meloni, affermano gli studiosi del marketing politico, “tira” (che poi l’argomento gira anche nel partito di Forza Italia, dove se non metti il cognome Berlusconi nelle schede il rischio di fallimento è matematico). Quindi, una Meloni nelle liste ci deve essere, anche per “contare” nelle urne elettorali quanto è amata (o non amata) il premier. Certo, al Quirinale vedere il nome del presidente del Consiglio sulle schede farà andare di traverso il caffè mattutino, ma Giorgia ormai sembra aver intrapreso la sua strada che conduce a Strasburgo e Bruxelles. Nelle intenzioni c’è pure la voglia di raddoppiare, mettendo la coppia delle sorelle: dopo di lei, nella lista arriverebbe Arianna, nel nome dell’unità della famiglia. Tanto Giorgia abbandonerebbe subito, dopo essere stata eletta, lasciando il suo seggio alla “sister”: e nessuno potrà dire di aver votato Meloni senza vedere quel cognome sui banchi dell’europarlamento. A proposito di liste, ma Gianfranco Fini dove lo mettiamo? Per lui si parla addirittura di un incarico da commissario europeo. Ma c’è tempo, tanto tempo davanti…

L'idea delle sorelle Meloni in lista alle Europee, Schlein da Vespa e gli altri spifferi
Arianna e Giorgia Meloni (Imagoeconomica).

Formula Indi

Anche la politica si mette a litigare sulla povera bimba britannica Indi Gregory, l’ennesimo caso di “invasione di campo” nella sanità, stavolta su scala mondiale. I maligni dicono che è stata una “trovata” per avere a fianco il Vaticano, sensibile sui temi della vita a oltranza, ideata dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano. E per di più nel giorno dell’insediamento a Westminster di Carlo III, che oltre a essere un re è anche il capo della chiesa anglicana. Intanto in mezzo c’è una povera piccola che alla fine morirà. Tutto questo mentre il console italiano di Manchester Matteo Corradini ha emesso un provvedimento d’urgenza, dichiarando la competenza del giudice italiano e autorizzando l’adozione del piano terapeutico proposto dall’ospedale Bambino Gesù di Roma e il trasferimento della minore nella Capitale. Cosa si fa per far finta di essere vicino a Santa romana chiesa…

Schlein punta da Vespa

Alla faccia di Sandro Ruotolo, già braccio destro di Michele Santoro in Rai e ora responsabile della cultura nel Partito democratico, uno che della linea “dura e pura” contro Bruno Vespa ne ha fatto una bandiera e un programma di governo (d’opposizione), alla fine Elly Schlein si è vistosamente piegata, facendosi pungere dalle domande del più longevo conduttore di RaiUno. La segretaria del Pd, che a Porta a porta non ci voleva andare nemmeno morta (almeno così diceva, per far notare la sua differenza con gli altri politici), ci ha messo un bel po’ di mesi prima di abbassare il capino e varcare gli studi vesponici, sbianchettando tutte le sue idiosincrasie per il giornalista abruzzese. E non solo per la trasmissione notturna, Schlein è apparsa pure nei Cinque minuti che vanno in onda dopo il Tg1. Oltre che nel libro che ogni anno viene prodotto da Vespa, per i regali di Natale di chi vuole donare un volume senza impegnarsi intellettualmente. Praticamente, quello di Vespa è stato un sequestro di persona. Prossima tappa per Schlein, andare negli studi televisivi di Nicola Porro, a Mediaset. E pure da Mario Giordano, già che ci siamo.

L'idea delle sorelle Meloni in lista alle Europee, Schlein da Vespa e gli altri spifferi
Elly Schlein e Bruno Vespa (Imagoeconomica).

Alluvione, Bonaccini: «Danni per 9 miliardi ma il governo ne ha stanziati 4»

Ospite di Restart su Rai 3, il presidente della Regione Emilia-Romagna Stefano Bonaccini ha dichiarato, parlando dei rimborsi per le alluvioni di maggio 2023: «Io non governo il Paese, ognuno si prenda le sue responsabilità. Io darò sempre una mano al governo, perché è anche il mio governo, ma sappiano che noi, fino a che non avremo visto per gli imprenditori, per le famiglie e per i sindaci il 100 per cento dei rimborsi, non ci sposteremo di un millimetro, esattamente come abbiamo fatto con il terremoto».

«I danni ammontano a 9 miliardi»

«Con il terremoto tutti hanno potuto ricostruire con il 100 per cento dei rimborsi dei danni dallo Stato attraverso il commissario straordinario alla ricostruzione che si chiamava e si chiama Stefano Bonaccini», ha ricordato. «Questo non sta accadendo con l’alluvione perché ci sono meno di 4 miliardi di euro in tre anni stanziati dal governo ma i danni sono per 9 miliardi di euro, quindi nemmeno la metà di quello che servirà. Non è la Regione che tira fuori le risorse, è lo Stato che deve garantirle. Ho visto e ho apprezzato che dopo cinque mesi di parlare a vuoto il governo ha accettato di introdurre il credito di imposta come con il terremoto, ma anche il credito di imposta ha bisogno di un accordo con le banche». Per Bonaccini, infine, il governo non ha «previsto il rimborso dei beni mobili».

Extraprofitti delle banche, una tassa mai nata e buona solo per la demagogia populista di Meloni

Breve storia di una tassa mai nata. Ad agosto Giorgia Meloni, di sua iniziativa e senza avvisare nessuno (come spesso le capita di fare), annunciava l’introduzione di una tassa sui cosiddetti extraprofitti delle banche che avrebbe portato oltre 3 miliardi nelle casse dello Stato. Mossa improvvida nei modi e nella sostanza. Non si possono intavolare tavoli su tavoli con tassisti e balneari lasciandoli poi liberi di farla franca, e invece sorprendere alle spalle un settore decisivo nel sostenere il debito pubblico e quei pochi pezzi ancora importanti del nostro sistema industriale. Non contenta, per giustificare la mossa la premier, Robin Hood che prende ai ricchi per dare ai poveri, si spinse arditamente a teorizzare il concetto di profitto ingiusto, lasciando però nella più totale indeterminatezza i criteri che definiscono quello giusto.

La legge è stata svuotata dai suoi obiettivi originari

Ma pazienza, inutile andare per il sottile. Anche perché, di fronte alla levata di scudi dei suoi alleati, lo sconcerto a Francoforte e i dubbi del suo ministro dell’Economia, a distanza di nemmeno quattro mesi la legge è stata svuotata dai suoi obiettivi originari. La possibilità data alle banche di destinare al rafforzamento patrimoniale la somma che avrebbero dovuto pagare finora non ha portato all’erario un euro dei 3 miliardi attesi, anche perché, ma non era difficile prevederlo, tutti gli istituti hanno preferito tenersi in casa i soldi piuttosto che farli uscire come imposte sottraendoli all’utile.

Extraprofitti delle banche, una tassa mai nata e buona solo per la demagogia populista di Meloni
Giancarlo Giorgetti, Giorgia Meloni e Matteo Salvini (Imagoeconomica).

Una finta notizia vale più della sua plateale smentita

Amorale di una favola ennesimo compendio della demagogia populista a cui questo governo, ma anche molti che l’hanno preceduto, sembra fortemente ispirarsi: tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare dell’oblio. Solamente che l’effetto del dire sul momento gode di una cassa di risonanza infinitamente maggiore rispetto alla successiva disillusione del fare. Insomma, la finta notizia vale molto di più della sua plateale smentita. Una regola che la politica ormai ha eletto a suo modus operandi: si annunciano montagne per poi partorire topolini, e spesso nemmeno quelli. Con l’opinione pubblica distratta da nuove mirabolanti trovate e che dimentica di chiedere conto delle precedenti.

Salvini in fatto di propaganda è più accorto di Meloni

Nessuno ora interpella Meloni sul perché profitti da lei definiti ingiusti siano dopo pochi mesi ridiventati giusti. In fatto di propaganda, persino Matteo Salvini si è fatto più accorto: il suo escamotage consiste nel fare l’annuncio eclatante e poi spostarne il compimento più avanti nel tempo. Tanto, ed è l’unica incrollabile certezza tra tanta aleatorietà degli uomini e delle situazioni, ne passerà prima di acqua sotto i ponti (anche quello sullo Stretto) a far dimenticare tutto.

L’attivismo del fasciniano Sorte agita Forza Italia e avvicina Ronzulli e Tajani

Non c’è pace per Antonio Tajani. Non bastava l’arduo compito di dover in qualche modo mediare tra la premier Giorgia Meloni e la famiglia Berlusconi, dopo il caso Giambruno. Né tantomeno il boccone amaro da digerire dopo la gestione della telefonata-truffa ai danni della presidente del Consiglio sui cui riscontri la Farnesina è rimasta tagliata fuori, come del resto sull’accordo Italia-Albania per la gestione del flusso migranti. Anche Forza Italia, il partito che il ministro degli Esteri ora guida e che con fatica ha tentato di tenere unito, rischia di sfuggirgli di mano. Paradossalmente, però, non sono i ronzulliani a scalpitare stavolta.

Il super attivismo di Sorte agita una parte di Forza Italia

L’attivismo maggiore, infatti, si registra dalle parti di Marta Fascina, peraltro appena rientrata in parlamento dopo gli ultimi mesi accanto a Berlusconi e il successivo periodo di lutto. In particolare, è il protagonismo di Alessandro Sorte, deputato e coordinatore azzurro in Lombardia, che con la sua campagna acquisti sta cominciando a destare qualche preoccupazione nel partito e, dicono a Lettera43 fonti interne, «anche un certo nervosismo del segretario». Voce che invece tajaniani di stretta osservanza tendono a minimizzare. C’è chi nega addirittura «che possa esserci una qualche divaricazione tra l’operato di Sorte in Lombardia e Tajani. Se ci sono stati degli arrivi», spiegano, «sono stati condivisi. Il resto è destituito di ogni fondamento». Sarà, ma intanto, Europee a parte, che pure sono un test decisivo per misurare la tenuta e l’incisività di Fi nel Ppe a Bruxelles ma anche nella coalizione di centrodestra, nel calendario azzurro a essere cerchiata in rosso è la data del congresso che si terrà il prossimo febbraio. La prima assise che celebra Forza Italia, diventata in qualche modo scalabile. Ed è questo il punto, almeno a sentire alcuni forzisti: «Sorte vuole contare al congresso. Lavora per questo e così da un lato mostra fedeltà a Tajani e dall’altro si muove da sobillatore».

L'attivismo del fasciniano Sorte agita Forza Italia e avvicina Ronzulli e Tajani
Il ritorno di Marta Fascina in Aula (Imagoeconomica).

Marta Fascina rientrata in Aula anche per controllare i suoi

Fatta eccezione per Letizia Moratti, il cui rientro in Fi è stato voluto dalla famiglia Berlusconi, infatti, dietro il ritorno di ex big ci sarebbe proprio la firma di Sorte. Dall’ex sindaco di Milano Gabriele Albertini a Roberto Formigoni. Senza contare altri fuoriusciti come Paolo Romani, che tra l’altro con Sorte ha condiviso l’esperienza al centro con Toti, Brugnaro e Quagliariello, dato come prossimo al rientro tra le fila azzurre. E che dire di personalità come Mariastella Gelmini, oggi in Azione e fresca di destituzione da parte dei renziani dalla commissione Affari costituzionali, o dell’ex “badante”, per dirla con i suoi detrattori, del Cav Maria Rosaria Rossi? Due nomi, questi ultimi, tra l’altro invisi alla capogruppo di Fi al Senato Licia Ronzulli e, nel caso della Rossi, anche alla stessa Marta Fascina (come non ricordare il «consiglio non richiesto» recapitato alla vedova del Cav attraverso l’Adnkronos più di un mese fa e cioè di «fare un passo indietro se pensa che il dolore non le consenta di poter essere in Aula»). Tanto che qualcuno, sfogandosi con Lettera43, è arrivato ad associare «il ritorno di gran carriera della compagna di Silvio a Roma» anche con la «necessità di rimettersi alla testa dei suoi, per non lasciarli troppo a briglia sciolta».

L'attivismo del fasciniano Sorte agita Forza Italia e avvicina Ronzulli e Tajani
Letizia Moratti e Alessandro Sorte (Imagoeconomica).

L’asse tra Ronzulli e Tajani per arginare l’autonomia del coordinatore lombardo

Una cosa è certa: questo tipo di scouting non va giù a molti azzurri perché, spiegano, «un conto è attrarre persone di valore e un altro pescare così nel mucchio, rischiando di annacquare visione e progetto. Passare da Moratti all’ex leghista con amicizie nell’estrema destra di Lealtà e Azione Max Bastoni, del resto, dà proprio l’idea che gli vada bene tutto e che non ci siano scelte ragionate». Ma soprattutto è una campagna acquisti che non sta passando inosservata sia dalle parti dei ronzulliani che da quelle dei tajaniani che in questa fase sembrano aver in qualche modo deposto le armi in nome della tenuta del partito. E in effetti i segnali di distensione non sono mancati, a cominciare dalla nomina del deputato Alessandro Cattaneo a responsabile nazionale dei dipartimenti di Fi alla stessa libertà con cui in generale gli esponenti vicini a Ronzulli e Ronzulli stessa si muovano sul piano mediatico. Ora, le due principali correnti potrebbero addirittura trovarsi dalla stessa parte della barricata per arginare lo straripante Sorte che nasce fasciniano, ma adesso sembra muoversi con una certa, spregiudicata autonomia. Il caso del consigliere regionale lombardo Jacopo Dezio che nei giorni scorsi ha abbandonato la civica collegata al governatore Attilio Fontana per approdare in Fi ne è una prova. Non priva, tra l’altro, di conseguenze vista la reazione non proprio di fair play del presidente leghista di Regione Lombardia: «Se i voti non si pigliano, bisogna pigliare i consiglieri. Noi preferiamo prendere voti». L’ipotesi di una candidatura alle Europee del redivivo Formigoni invece è una delle idee del coordinatore lombardo degli azzurri che sta provocando più mal di pancia nel partito. Ma c’è anche chi lo difende: «Non escludo che si muova in autonomia», spiega un forzista a taccuino chiuso. «È giovane e suscita invidia. Ma dall’altra parte i numeri del tesseramento gli danno ragione. E poi, comunque», getta acqua sul fuoco, «sui nuovi arrivi Tajani ha sempre l’ultima parola. E, al momento, soprattutto sui nomi di alcuni ex azzurri passati al centro non è arrivato nessun via libera».

Riforma premierato, contro le attese l’iter partirà dal Senato: protestano le opposizioni

Secondo alcune fonti parlamentari, l’iter del ddl di riforma costituzionale sul premierato, approvato lo scorso 3 novembre dal Consiglio dei ministri, partirà dal Senato. Una decisione inusuale perché negli ultimi giorni veniva data per certa la titolarità alla Camera, e perché al Senato è ancora in discussione l’autonomia differenziata.

Le opposizioni protestano in aula alla Camera

Per questo motivo Pd, Alleanza verdisinistra e il M5s sono intervenuti duramente in aula alla Camera per chiedere delucidazioni e la convocazione urgente di una capigruppo. La prima a parlare è stata Simona Bonafè del Pd, dicendo: «La motivazione di questa decisione sarebbe dovuta all’appartenenza politica del presidente della Camera e di quello della prima commissione che non darebbero sufficienti garanzie sull’iter del provvedimento. Se così fosse sarebbe di una gravità inaudita e per questo chiediamo che venga convocata con urgenza una capigruppo». Il presidente della Camera, infatti, è Lorenzo Fontana, in quota Lega, mentre il presidente della Commissione affari costituzionali di Montecitorio è Nazario Pagano, di Forza Italia. Diversa la situazione al Senato, dove il presidente è Ignazio La Russa, fedelissimo di Giorgia Meloni, e la Commissione è presieduta da Italo Balboni, anche lui in quota Fratelli d’Italia.

Elly Schlein, Simona Bonafè e Giuseppe Provenzano (Imagoeconomica).

Pd: «La maggioranza baratta il premierato con l’autonomia differenziata»

In aula è intervenuto anche Francesco Boccia, Pd, che ha accusato la maggioranza di stare barattando il premierato con l’autonomia differenziata: «La notizia che la riforma costituzionale annunciata dal governo partirà dal Senato, se confermata, ci dice che i nostri timori erano fondati e che Palazzo Madama sarà il luogo dove Fdi e Lega si controlleranno a vicenda. Questa mattina in commissione bicamerale per le questioni regionali si è proceduto con un altro strappo da parte della maggioranza, che ha impedito che fossero fatte le necessarie audizioni sulla proposta di autonomia differenziata, e si è deciso di votare lo stesso il parere. È quanto chiede la Lega come condizione per votare il premierato caro a Giorgia Meloni».

Riforma premierato, contro le attese l'iter partirà dal Senato. Protestano le opposizioni
Il ministro e vicepremier Matteo Salvini e la premier Giorgia Meloni (Imagoeconomica).

Alleanza verdi-sinistra: «Ormai è un monocameralismo»

Alle denunce dei due colleghi si è aggiunta anche quella di Marco Grimaldi di Alleanza verdi-sinistra, il quale sostiene che ci sia ormai un «monocameralismo di fatto» dove la gran parte dei provvedimenti passano prima per Palazzo Madama. Per questo anche lui ha chiesto «una conferenza dei presidenti urgente perché inizia a esserci qualcosa di sospetto nel rapporto con la Camera dei deputati».

La replica di Casellati

«Ma perché se va in una Camera non è che poi non vada nell’altra quindi è indifferente» dove comincia l’iter, ha detto la ministra per le Riforme Elisabetta Casellati a chi le chiede un commento alle proteste delle opposizioni. «È finita l’autonomia in commissione, ormai è stata esitata quindi c’è lo spazio, non capisco perché anche questo debba dar luogo a polemiche. Se vogliamo andare a cercare sempre il pelo nell’uovo cerchiamolo, però proprio non vedo il problema».

Senato, il Terzo Polo si divide: Azione nel misto, Italia Viva gruppo a sé

Dopo trattative durate settimane, all’interno dell’ex Terzo Polo è stata trovata l’intesa per la scissione dei gruppi parlamentari. I quattro senatori di Azione migreranno nel gruppo misto, mentre Italia Viva, che in Senato conta sette elementi, resterà autonomo. Ad annunciarlo è stato il presidente del Senato, Ignazio La Russa, dopo la riunione della Giunta per il regolamento: «È stata trovata un’intesa tra i gruppi. Noi l’abbiamo sollecitata all’unanimità, invitando il gruppo minoritario del gruppo presieduto da Borghi ad apprezzare le circostanze ed emigrare nel gruppo misto. Tutte le condizioni che di solito accompagnano questi passaggi saranno esaminate nella riunione del Consiglio di presidenza, forse già domani».

Calenda: «Habemu Papam»

Il leader di Azione, Carlo Calenda, ha commentato: «Se Dio vuole, habemus Papam». E ha aggiunto: «Sono contento perché noi avevamo dato l’ok già alla prima proposta di La Russa, ora a questa seconda, prima si conclude e meglio è». L’ok arriverà domani durante il Consiglio di presidenza e stando al nuovo regolamento Azione non perderà alcuna risorsa. Alla domanda su chi avesse vinto e chi perso, però, Calenda ha risposto: «Non mi interessa proprio questo argomento». Non ha ancora commentato, invece, il leader di Italia viva, Matteo Renzi.

Senato, il Terzo Polo si divide Azione nel misto, Italia Viva gruppo a sé
Carlo Calenda (Imagoeconomica).

La Russa: «Iv resta nel gruppo di inizio legislatura»

Il presidente del Senato Ignazio La Russa, dopo l’annuncio, ha anche spiegato: «La giunta del regolamento non ha più deciso sul quesito principale: cioè a chi spetta decidere sui regolamenti interni dei gruppi. Ma avendo rilevato che c’è un accordo all’interno del gruppo che si divide, per facilitare questa decisione, ha insistito con il gruppo minore perché accettasse di emigrare nel gruppo misto. Quanto ai sette senatori di Italia viva, non nasce un gruppo nuovo, ma resta in campo quello istituito ad inizio legislatura».

Crosetto annuncia la partenza dall’Italia della prima nave-ospedale verso Gaza

«Sono rimasto colpito ed emozionato perché seguo gli avamposti dell’Arma nei quartieri più difficili d’Italia e lì il valore dei carabinieri è quello che è stato rappresentato dal calendario presentato questa mattina», ha dichiarato il ministro della Difesa, Guido Crosetto, durante la presentazione del calendario storico 2024 dell’Arma dei carabinieri, svoltasi presso l’Auditorium Parco della Musica di Roma nella mattinata di mercoledì 8 novembre. «Migliaia di persone» – ha spiegato – «di cui non si conosce il nome e che con la loro divisa rappresentano lo Stato dove non esiste. Non c’è niente che dia più sicurezza della divisa di un carabiniere».

«Il Libano ha chiesto aiuto all’Italia»

Nella parte finale del suo intervento, il ministro ha poi aggiunto: «Sono tempi difficili ma in Libano, la più potente nazione del mondo, ora che ha bisogno di parlare coi palestinesi e trovare un interlocutore ha chiesto aiuto all’Italia, ai carabinieri che hanno formato in questi anni i palestinesi». E ancora: «Un ruolo fondamentale», ha aggiunto Crosetto, «riconosciuto al nostro Paese attraverso il lavoro di persone che nessuno di voi conosce e neanche io conosco, e che in questi anni hanno lavorato servendo lo Stato».

La partenza della nave Vulcano

Al termine dell’evento dell’Arma, durante la conferenza stampa, il ministro ha poi annunciato la partenza della nave Vulcano «attrezzata con un ospedale che vogliamo mandare vicino le zone di guerra. Vogliamo dare segnali concreti di vicinanza al popolo palestinese». Sono ben «170 le persone a bordo, di cui 30 della Marina formati per l’emergenza sanitaria ai quali si aggiungeranno altrettanti di altre forze armate che saranno potati con un aereo. Oltre all’ospedale imbarcato, alle sale operatorie, alle attrezzature diagnostiche, saranno portati medicinali e soccorsi». Crosetto ha così dichiarato: «Smd sta coordinando l’invio di un ospedale campo su terra che è nostra intenzione portare direttamente sul terreno di Gaza, vicino a dove c’è l’esigenza reale. Mi aspetto molte risposte da altri Paesi a sostegno della nostra nave e dell’ospedale campo; vorrei scoppiasse una gara tra tutti i paesi per fornire aiuto».

I dettagli del protocollo d’intesa tra Italia e Albania sui migranti

Nove pagine, 14 articoli in tutto, una durata di cinque anni rinnovabile per un altro lustro, «salvo che una delle parti avvisi entro sei mesi dalla scadenza». Il protocollo Italia-Albania sulla gestione dei migranti siglato da Giorgia Meloni e dall’omologo albanese Edi Rama sta facendo discutere parecchio. L’Unione europea, informata in extremis ma molto vagamente, ha chiesto lumi. Il Partito democratico ha depositato un’interrogazione alla Commissione europea, le Ong e le associazioni per i diritti umani sono sul piede di guerra, mentre il ministro degli Esteri Antonio Tajani assicura che il patto con Tirana «rispetta tutte le norme comunitarie». L’intesa Italia-Albania, ha detto Meloni, potrà diventare «un modello di collaborazione tra Paesi Ue e Paesi extra-Ue sul fronte della gestione dei flussi migratori». Sarà. Intanto, ecco cosa prevede l’accordo, secondo i dettagli pubblicati dall’Agenzia media per l’informazione, ente dipendente dal governo.
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Due centri, uno sull’Adriatico e l’altro nell’entroterra. Dove verranno ospitati al massimo 3 mila migranti. Ogni spesa (già 16,5 milioni di euro nel primo anno) a carico dell’Italia. Cosa prevede l'accordo sui migranti firmato da Meloni e Rama.
La prima pagina del protocollo d’intesa tra Italia e Albania sui centri per migranti.

Per il primo anno l’Italia verserà 16,5 milioni di euro «quale anticipo forfettario dei rimborsi dovuti»

Dalla primavera 2024, una parte dei migranti messi in salvo nel Mediterraneo dalle navi italiane sarà trasferita in Albania, che fornirà gratuitamente gli spazi in cui verranno costruite due strutture: una nel porto di Shengjin per le procedure di sbarco e identificazione, e un’altra destinata all’accoglienza temporanea dei migranti a Gjader, una ventina di chilometri nell’entroterra. Non si tratterà di Cpr, ma di centri «come quello di Pozzallo-Modica, dove si trattengono persone, con provvedimento convalidato del giudice, per il tempo necessario per svolgere le procedure accelerate di identificazione e gestione della domanda di asilo di persone provenienti da Paesi sicuri», ha spiegato il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. L’Italia realizzerà interamente a proprie spese i due centri e si farà carico di tutti i costi legati a trasporto, sistemazione e assistenza medica dei migranti. Per il primo anno, l’Italia verserà all’Albania 16,5 milioni di euro «quale anticipo forfettario dei rimborsi dovuti». E ci sarà anche un fondo di garanzia, da circa 100 milioni di euro, congelati su un apposito conto bancario.

Il testo del protocollo d’intesa tra Italia e Albania sui centri per migranti firmato il 6 novembre da Meloni e Rama.
Giorgia Meloni (Getty Images).

Nei centri non potranno essere presenti contemporaneamente più di 3 mila migranti

«Una volta a regime, ci potrà essere un flusso annuale di 36-39 mila persone», ha spiegato Meloni. Ma nei centri, precisa il protocollo, non potranno essere presenti contemporaneamente più di 3 mila migranti. Che vi resteranno non oltre il periodo massimo di trattenimento consentito dalla vigente normativa italiana (ed europea) in materia di asilo e protezione. Al termine delle procedure, sarà la parte italiana a effettuare a proprie spese la partenza dei migranti dall’Albania. In caso di nascita o morte, precisa il protocollo, i migranti sono sottoposti alla legge italiana. In caso di decesso, l’Albania mette a disposizione dell’Italia l’obitorio per la salma, da trasferire entro 15 giorni dalla morte.

Il testo del protocollo d’intesa tra Italia e Albania sui centri per migranti firmato il 6 novembre da Meloni e Rama.
Le spese per il trasporto dei migranti saranno a carico dell’Italia (Getty Images).

Le strutture di Shengjin e Gjader saranno sotto la giurisdizione italiana

Nei centri di Shengjin e Gjader il diritto di difesa verrà assicurato consentendo l’accesso alle strutture di avvocati e ausiliari, organizzazioni internazionali e agenzie Ue che prestano consulenza e assistenza ai richiedenti protezione internazionale, nei limiti della legislazione italiana, europea e albanese. Le strutture, si legge, saranno sotto la giurisdizione italiana, mentre le autorità albanesi dovranno garantire la sicurezza all’esterno dei centri e durante il trasferimento dei migranti: potranno entrare nei centri solo «in caso di incendio o di altro grave e imminente pericolo che richiede un immediato intervento». L’Italia invierà in Albania alcuni funzionari, che non avranno bisogno del permesso di soggiorno o di visto di lavoro: i dipendenti italiani non saranno soggetti alla legislazione albanese mentre sono in servizio, ma – com’è logico – potranno essere processati secondo le leggi locali in caso di reati commessi al di fuori delle due strutture.

L’opposizione di centrodestra albanese: «Non dobbiamo sostituire i nostri con gli africani» 

A pagare sarà l’Italia, ma l’accordo appena annunciato non è piaciuto all’opposizione albanese di centrodestra, fortemente critica nei confronti di Rama. «Nonostante la gratitudine verso l’Italia per quanto fatto negli ultimi 33 anni a nostro sostegno, non siamo ancora pronti a intraprendere un simile passo», ha scritto su Facebook il vicepresidente del parlamento, Agron Gjekmarkaj, esponente del Partito democratico. «Dobbiamo creare le condizioni per far tornare gli abitanti della zona di Alessio (il Comune di cui è frazione Shengjin, ndr) a lavorare e costruire la loro vita, non sostituirli con africani». A Lampedusa e in altre parti del Sud Italia, «si è verificato un drastico calo del turismo dovuto alla presenza di profughi e alla crescente criminalità», ha continuato Gjekmarkaj, puntando il dito contro Rama che «non dovrebbe trasferire in Albania questa crisi».

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