«Da Francia e Germania verranno 120 mila munizioni per l’Ucraina nel 2023 e 2024 attraverso ordini specifici». Lo ha annunciato Josep Borrell nel corso della conferenza stampa al termine del Consiglio Difesa Ue, precisando che le cifre sono «odierne» e che possono cambiare nel tempo. «C’è la possibilità tecnica di consegnare all’Ucraina un milione di munizioni entro il 2024», ha aggiunto l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza.
L’Ucraina sperava di ricevere un milione di munizioni entro marzo 2024
Confermando l’indiscrezione di Bloomberg, il ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba aveva affermato che l’Unione europea probabilmente non sarà in grado di realizzare il suo piano di fornire all’Ucraina un milione di proiettili di artiglieria entro marzo 2024, a causa dello «stato deplorevole dell’industria della difesa» e degli ostacoli burocratici. Le parole di Borrell non sembrano rassicuranti per il Paese invaso dalla Russia: Kyiv sperava di avere la fornitura entro i primi tre mesi dell’anno, mentre Bruxelles se n’è presi (eventualmente) dodici. «L’Unione europea sta lavorando per eliminare i problemi ed è per questo che, a Berlino, ho invitato l’Ue a sviluppare una politica globale nel campo delle industrie della difesa», ha detto Kuleba.
Stoltenberg: «Non possiamo permettere a Putin di vincere questa guerra»
«La situazione sul piano di battaglia è difficile e questo ci deve spingere ancora di più ad aiutare l’Ucraina, perché non possiamo permettere a Vladimir Putin di vincere questa guerra». Lo ha detto Jens Stoltenberg, segretario generale della Nato, arrivando al Consiglio Difesa Ue. «Finora non abbiamo visto reali intenzioni da parte di Mosca di arrivare a un accordo con l’Ucraina, ecco perché bisogna sostenerla in modo che arrivi ai negoziati da una posizione di vantaggio».
La Chiesa italiana da molti anni sta cercando di scongiurare un’operazione verità sullo scandalo degli abusi sessuali su minori simile a quanto avvenuto in Francia e Spagna dove, rapporti indipendenti, nel caso francese però promossi dalla stessa conferenza episcopale, hanno portato alla luce una realtà fatta di centinaia di migliaia di violenze messe in atto in gran parte da chierici, e in un certo numero di casi da laici che lavoravano in ambito ecclesiale.
L’impegno della Chiesa italiana per fare luce sugli abusi resta perlopiù sulla carta
Certo, a parole l’impegno non manca neanche in Italia. A parole, appunto, perché i fatti non si vedono. Tuttavia, la Cei, anche quest’anno, il prossimo 18 novembre, «celebra la III Giornata nazionale di preghiera della Chiesa italiana per le vittime e i sopravvissuti agli abusi, per la tutela dei minori e delle persone vulnerabili. L’iniziativa, istituita in corrispondenza della Giornata europea per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale, coinvolge tutta la comunità cristiana nella preghiera, nella richiesta di perdono per i peccati commessi e nella sensibilizzazione riguardo questa dolorosa realtà». Le celebrazioni insomma si susseguono regolari, le strutture che dovrebbero occuparsi del problema sulla carta esistono, si pensi al Servizio nazionale per la tutela dei minori, così come formalmente sono attivi ormai in ogni diocesi i centri d’ascolto per raccogliere le denunce delle vittime (anche se resta un mistero la ragione per cui chi è stato vittima di un abuso si dovrebbe rivolgere a quella stessa istituzione che, più o meno indirettamente, è responsabile dell’aggressione sessuale). Tuttavia, ha ripetuto spesso l’arcivescovo responsabile del servizio tutela dei minori della Cei, mons. Lorenzo Ghizzoni (a capo della diocesi di Ravenna), obiettivo della conferenza episcopale è quello di guardare avanti e non al passato, di pensare cioè alla formazione dei futuri sacerdoti nei seminari e, in generale, di affrontare il tema dell’abuso sul minore in ogni ambito della vita delle comunità. Già, peccato però che senza il riconoscimento almeno di una parte delle proprie responsabilità nell’aver insabbiato e coperto vicende di abusi, ben difficilmente si arriverà a quella messa in discussione della cultura dell’omertà e del clericalismo – denunciata a più riprese dal Papa – che ha caratterizzato il modo di procedere della Chiesa italiana su tutta la questione.
Che fine hanno fatto i 613 fascicoli contenenti le denunce arrivate alla ex Congregazione per la dottrina della Fede?
Quest’anno era comunque attesa un prima timida apertura anche sul fronte dei numeri, cioè delle dimensioni e della casistica dello scandalo. Giusto un anno fa, infatti, venne annunciato dal segretario generale della Cei, mons. Giuseppe Baturi, nel corso di una conferenza stampa, un nuovo dato relativo ai 613 fascicoli contenenti denunce di abusi arrivati alla ex Congregazione per la Dottrina della Fede dalle diocesi italiane, mons. Baturi spiegava che sarebbe stata svolta «una indagine in collaborazione con il Dicastero per un esame qualitativo e quantitativo del fenomeno emerso in sede istituzionale in Italia negli ultimi 20 anni». Si trattava, in ogni caso, di un numero ben più ampio rispetto a quelli comunicati in passato dalla Cei sull’ultimo decennio. Baturi chiariva inoltre che «dalle notizie che abbiamo raccolto sono più di 600 i fascicoli ma serve un esame per comprendere quante e quali siano le vittime, in che contesto vivono, chi sono i responsabili, i loro profili, la nostra capacità di reagire alle denunce. Tutto sarà oggetto di ricerca su casi reali e ci vorrà tempo ma la Cei sarà supportata da centri indipendenti». Un anno dopo, di quella ricerca non si sa più nulla, «si stanno ancora elaborando i criteri interpretativi» dicono laconicamente dalla Cei.
Atteso anche il secondo report sugli abusi: niente conferenze stampa ma un incontro a porte chiuse
D’altro canto era atteso anche il secondo report sui casi rilevati dai centri per l’ascolto delle diocesi italiane, dati in realtà non molto significativi e relativi giusto agli ultimissimi anni. Questi ultimi dovrebbero essere, in tutto o in parte, distribuiti alla stampa, ma il report vero e proprio no, né ci sarà conferenza stampa di presentazione dei dati come avvenne un anno fa. In compenso si svolgerà un incontro a porte chiuse il 17 e 18 novembre, a due passi dal Vaticano, al centro congressi Augustinianum, fra tutti i referenti territoriali del servizio per la tutela dei minori. Nel corso dei lavori verrà presentato il II report nazionale sulle attività dei servizi territoriali. Dalla prima indagine emerse che c’erano state 89 vittime (61 minorenni), nel biennio 2020-21, si segnalavano quindi casi di abusi – metà recenti, metà del passato – compiuti da 68 presunti abusatori. Non solo sacerdoti (30) e religiosi (15), ma anche laici (23) quali insegnanti di religione, sagrestani, animatori dell’oratorio, responsabili di associazione, direttori di uffici di curia, catechisti e presidenti di Onlus. A molti di questi, si spiegava, sono stati offerti percorsi di riparazione in comunità di accoglienza e accompagnamento psicoterapeutico. Se si considera il breve lasso di tempo considerato, se si tiene inoltre presente che la rete dei centri d’ascolto non era ancora estesa su tutto il territorio, che molti centri esistevano solo formalmente ma non dal punto di vista operativo, e la difficoltà per le stesse vittime di rivolgersi alle strutture ecclesiali per denunciare un abuso, non si tratta di numeri tanto marginali, tutt’altro. Sarebbe anzi interessante sapere come si è proceduto nei vari casi sollevati, quante volte ad esempio si è cercata la collaborazione delle autorità civili e in quanti casi si è avviato un processo canonico per arrivare all’accertamento dei fatti e delle responsabilità. Da parte sua, il presidente della Cei, il card. Matteo Zuppi, aprendo ad Assisi lo scorso 13 novembre i lavori dell’assemblea generale della Cei, non aggiungeva molto al già noto: «La seconda Rilevazione sulle attività di tutela dei minori degli adulti vulnerabili nelle Diocesi italiane, che verrà consegnata in questi giorni», affermava infatti, «conferma l’impegno continuo delle nostre Chiese nel consolidare ambienti più sicuri per i minori attraverso la formazione degli operatori pastorali. Nelle équipe che affiancano i Servizi e i Centri di ascolto sono diverse centinaia gli uomini e le donne che impegnano la loro passione per la Chiesa e le loro competenze professionali in questo delicato servizio». Niente di più.
Lele Adani, Antonio Cassano e Nicola Ventola hanno deciso di fare chiarezza sul caso dell’addio alla Bobo Tv. La separazione tra i tre ex calciatori e Bobo Vieri, che ha poi stretto l’accordo per portare il suo canale in onda sulla radio ufficiale della Serie A, ha tenuto banco tra i tifosi e sui social, con lo scambio di accuse di inizio novembre. Adesso i tre ex protagonisti del canale hanno scelto di dire la loro, «in nome di una chiarezza e trasparenza a cui ci siamo sempre richiamati, e che giustamente in questi giorni molti di voi hanno preteso, in forma privata o tramite social».
Adani, Cassano e Ventola: «Facciamo luce»
I tre hanno pubblicato il comunicato sui profili Instagram. «La Bobo Tv è sempre stata una famiglia allargata», si legge in premessa. «Per chi era davanti ai microfoni ma anche per chi l’ascoltava. Ed è a questo gruppo, la nostra community, che ci rivolgiamo, in nome di una chiarezza e trasparenza a cui ci siamo sempre richiamati. E che giustamente in questi giorni molti di voi hanno preteso, in forma privata o tramite social. L’esigenza di fare luce su alcune situazioni verificatesi negli ultimi tempi rimane doverosa per le tante persone che ci hanno fin qui seguito. Noi parliamo a voi».
Gli ex della Bobo Tv: «Ricevuto risposte con modi non rispettosi»
Adani, Cassano e Ventola hanno poi scritto: «Negli ultimi tempi erano, non da parte nostra, cambiati stimoli, motivazioni e visioni. E soprattutto c’era una comunicazione distaccata, con poca passione e poca voglia di condividere. Nel rispetto di quello che si era fatto negli anni precedenti Lele ha chiesto una riunione chiarificatrice. Dove, al termine, l’unica cosa chiara, che tutti hanno perfettamente percepito, era quello che stavamo vivendo, ossia la poca voglia di condividere il percorso. Nonostante tutto, abbiamo cercato di essere sempre collaborativi, sollecitando e stimolando un percorso che rendesse la Bobo Tv, per noi centro assoluto delle attività da compiere nella volontà di raccontare il calcio come piace a noi, ancora più vicino alla gente, nello spirito delle origini, con sempre più attività su tutte le piattaforme. In sostanza, noi chiedevamo informazioni e stimoli per nuovi progetti. In cambio, abbiamo avuto risposte indirette (attraverso la figura della nostra manager) e poi dirette, con modi non rispettosi, in cui è stata data dimostrazione della totale difformità d’intenti, della chiara differenza di visione».
Il messaggio finale: «Ucciso e sepolto lo spirito della Bobo Tv»
E ancora: «A questo punto per noi era impossibile proseguire, tanto che abbiamo comunicato l’intenzione di fermarci qualche giorno con l’intento di chiarire i dubbi sollevati e di farlo tutti insieme. Necessitavamo insomma di una risposta forte e rassicurante sul futuro. I passaggi successivi, in attesa di un nuovo confronto, sono invece stati dei veloci ringraziamenti “per la collaborazione” (siamo diventati improvvisamente dei collaboratori…) in diretta live, dove abbiamo anche appreso che sarebbero nati nuovi format (eppure l’ultima comunicazione tra noi era avvenuta quattro/cinque ore prima…). Abbiamo sentito che “era giusto cambiare” e, per finire, constatato un fulmineo accordo tra la radio della Lega Serie A e la Bobo Tv. Nell’attesa di quel confronto tra i quattro membri del gruppo (né uno, né cinque) è stato ucciso e sepolto lo spirito con cui è nata la Bobo Tv. Lo spogliatoio deve o dovrebbe rimanere lo spogliatoio, sacro, protetto, difeso e onorato. O almeno, avrebbe dovuto. Niente è irreversibile, ma le persone non vanno prese in giro».
A partire dal 2014 in Russia, nell’ambito del progetto Posledniy Adres (Ultimo indirizzo), sono state affisse più di 700 targhe indicanti le case dove vivevano normali cittadini poi diventati vittime delle purghe di Stalin negli Anni 30. Da maggio, però, a decine sono scomparse in diverse città della Federazione. E tante altre sono state vandalizzate. A lanciare l’allarme l’attivista Oksana Matievskaya: tra le ideatrici dell’iniziativa, ha evidenziato che la polizia non sta indagando sulla questione, aggiungendo che non si tratterebbe di una casualità, visto il contesto nazionale in cui non mancano i tentativi di riabilitare il dittatore.
Almeno 750 mila persone furono giustiziate durante il Grande Terrore
«Il ricordo del terrore sovietico mette in discussione il concetto secondo cui lo Stato ha sempre ragione ed è quindi scomodo per le autorità russe. Soprattutto dopo l’invasione dell’Ucraina», ha detto Matievskaya. Milioni le persone descritte come “nemici del popolo” finite nei campi di lavoro sovietici, i gulag, mentre almeno 750 mila furono assassinate sommariamente durante il Grande Terrore di Stalin, nella seconda metà degli Anni 30. Nel mirino non solo le targhe, ma anche altri memoriali. Almeno 18 monumenti dedicati alle vittime della repressione e ai soldati stranieri che hanno combattuto nella Seconda guerra mondiale sono stati rubati o vandalizzati. La maggior parte di essi era dedicata a cittadini polacchi, come la croce di cemento eretta nella Repubblica della Komi in memoria dei prigionieri di guerra, la cui distruzione è stata attribuita al maltempo. Le autorità sovietiche giustiziarono centinaia di migliaia di polacchi a partire dal 1939. Nel solo 1940, 1,7 milioni furono deportati nei gulag della Siberia e del Kazakistan.
La propaganda russa accosta l’invasione dell’Ucraina alla “Grande guerra patriottica”
Secondo l’attivista Alexandra Polivanova del gruppo per i diritti civili Memorial, dietro a tutto ciò c’è Mosca: l’obiettivo, ha spiegato, è che l’Unione Sovietica venga ricordata per la sua potenza e non come uno Stato oppressivo. A luglio, un sondaggio condotto dal Levada Center ha rilevato che il 63 per cento dei russi ha un’opinione favorevole nei confronti di Stalin: l’indice di approvazione più alto degli ultimi 13 anni. La spiegazione della crescente popolarità del dittatore non è certa, ma la propaganda russa che giustifica l’invasione dell’Ucraina certamente ha glorificato il suo passato sovietico, accostando la cosiddetta “operazione speciale militare” alla “Grande guerra patriottica”. Così viene chiamata in Russia la Seconda guerra mondiale, intrapresa sotto Stalin di cui in tutto il Paese esisterebbero 110 statue, di cui 95 erette con Vladimir Putin presidente.
YouTube ha annunciato nuove linee guida per la gestione dei contenuti che fanno ricorso all’intelligenza artificiale. Con un post sul suo blog ufficiale, la piattaforma di proprietà di Google ha infatti confermato di voler porre un freno soprattutto ai deepfake e ai filmati realistici che possono trarre in inganno l’utente. In arrivo «nei prossimi mesi», stando a quanto si legge nel comunicato ufficiale, le regole consisteranno in «aggiornamenti che informeranno gli spettatori quando il contenuto che stanno vedendo è reale o meno». Ciascun creator dovrà inoltre rivelare tramite una speciale etichetta, che sarà visibile nella descrizione sottostante o forse sulle clip stesse, se il suo file è un video originale oppure presenta modifiche realizzate con il contributo dell’IA. L’azienda ha confermato che presto fornirà ulteriori precisazioni sulle linee guida, compresa una descrizione più dettagliata su cosa si intenda per «filmato realistico».
YouTube consentirà agli utenti di segnalare eventuali violazioni
Con le nuove direttive sulla gestione dell’intelligenza artificiale, YouTube vuole porre un freno sui deepfake soprattutto in «argomenti sensibili» come elezioni e conflitti in corso, senza dimenticare questioni di salute pubblica. Gli youtuber che violeranno le linee guida potranno andare incontro a differenti ripercussioni, che andranno dalla semplice rimozione del contenuto fino alla demonetizzazione o la sospensione dei contratti con la società. «Siamo alle fasi iniziali del nostro lavoro», hanno spiegato nel comunicato Jennifer Flannery O’Connor ed Emily Moxley, i due vicepresidenti della gestione del prodotto di YouTube. «Continueremo a evolvere il nostro approccio man mano che impareremo di più sull’IA».
YouTube ha inoltre confermato che consentirà a tutti gli utenti di richiedere personalmente la rimozione di un contenuto che secondo loro viola le normative della community. Sarà possibile esortare, complicando un modulo sul sito stesso, la cancellazione immediata di un video non conforme alle regole, soprattutto i deepfake che simulano il volto o la voce di un soggetto. La piattaforma di Google procederà ad analizzare caso per caso, tra cui la presenza di una parodia o satira, il grado di popolarità di una persona e la facilità di identificazione tramite il filmato. Tali eccezioni non avranno però valore per quanto riguarda le canzoni: i brani musicali che replicheranno un artista vivente o deceduto saranno immediatamente eliminati da YouTube. «Ci sarà chi proverà ad aggirare questi guardrail», hanno detto O’Connor e Moxley. «Incorporeremo i feedback degli utenti e impareremo a migliorare le nostre protezioni per costruire un futuro vantaggioso per tutti».
Il tribunale di Barcellona ha deciso: Dani Alves andrà a processo per violenza sessuale. L’ex calciatore brasiliano è stato denunciato da una ragazza di 23 anni e da allora è scattata l’indagine in Spagna. Secondo quanto rivelato dai media locali, i racconti dei testimoni collimano con le prove raccolte e con quanto denunciato dalla giovane. Ora la decisione sul rinvio a giudizio per Dani Alves. L’ex terzino di Barcellona e Juventus è stato arrestato ed è attualmente nel carcere catalano di Brians 2 dal 20 gennaio 2023. Ora rischia fino a 12 anni di detenzione.
La violenza risalirebbe al 30 dicembre 2022
Secondo la ricostruzione della vicenda, Dani Alves avrebbe violentato la donna il 30 dicembre 2022. I due si sarebbero incontrati in un locale di Barcellona, il Sutton Club. Poi la violenza nel bagno di un privé. La ragazza ha poi denunciato l’ex calciatore, arrestato e portato in carcere, dov’è ormai da dieci mesi. Gli inquirenti hanno riscontrato anche diverse incongruenze nella versione di Dani Alves e sarebbero state queste a far decidere al tribunale di andare a processo.
Dani Alves nega
Da allora, l’ex stella della nazionale brasiliana, il calciatore con più titoli vinti nella storia del calcio, ha negato. In un’intervista ha anche sottolineato la volontà di chiedere scusa alla moglie per il tradimento. Poi ha ribadito che il rapporto sessuale con la presunta vittima era stato precedentemente concordato e di avere quindi «la coscienza pulita».
Il consiglio comunale di Troina nell’Ennese ha revocato, con 10 voti favorevoli e un astenuto, la cittadinanza onoraria a Benito Mussolini conferita al duce nel 1924. «È incompatibile con i principi di pace, uguaglianza, democrazie e libertà di cui è portatore il Comune di Troina e la sua comunità», ha affermato MartinaAmata del gruppo consiliare di maggioranza Troina Bene Comune che ha proposto la revoca della cittadinanza al dittatore.
Continuano le ricerche di Giulia Cecchettin e dell’ex fidanzato Filippo Turetta, scomparsi da Marghera da sabato 11 novembre. Le ultime tracce risalgono a lunedì notte, quando la Fiat punto sulla quale viaggiavano sabato è stata intercettata, in uscita o in entrata, da un varco elettronico targsystem in una zona dell’alta provincia di Belluno. Lo ha confermato il criminologo Edoardo Genovese che sta assistendo in queste ore le famiglie dei due ragazzi, che nel frattempo hanno lanciato a Turetta il proprio appello.
Gli appelli della madre di Turetta e della zia di Cecchettin
«Volevo fare un appello a mio figlio perché si faccia sentire, ci dia notizie di lui e Giulia, siamo preoccupati e vorremo che ci contattasse. Qualsiasi cosa sia successo noi lo aspettiamo, gli vogliamo bene e vogliamo che ritornino, vi prego tornate». Con queste parole la madre di Filippo Turetta si è rivolta al figlio. All’appello dei genitori si è aggiunto anche quello della zia materna di Cecchettin, Elisa Camerotto: «Filippo, hai una responsabilità nei confronti di Giulia, fermati, chiama i tuoi genitori o chiedi aiuto a qualcuno, non ti preoccupare. Giulia è una ragazza delicata, l’aspettiamo a casa, aspettiamo a casa Giulia e te, e anche i tuoi genitori ti aspettano».
La Cina sta mettendo in atto la più grande campagna di intimidazione e disinformazione mai vista sul web, allo scopo di mettere a tacere il fronte degli oppositori di Pechino, che si è espanso sotto Xi Jinping. Nel mirino dei troll della Repubblica Popolare, in particolare, c’è chi si è trasferito negli States. Lo scrive la Cnn, che ha visionato documenti del Dipartimento di Giustizia Usa, alla vigilia dell’atteso incontro tra il presidente americano Joe Biden e l’omologo cinese, in programma a San Francisco il 15 novembre.
Nel mirino chiunque osi criticare l’operato del Partito Comunista Cinese
Dalle accuse di tradimento agli insulti razzisti e omofobi, i troll al soldo di Pechino non si fanno mancare niente. Di tutto pur di instillare nel “nemico” uno stato di costante paura e paranoia. Centinaia di migliaia gli account che, sparsi su tutte le principali piattaforme, prendono di mira chiunque abbia l’ardire di criticare l’operato del Partito Comunista Cinese o di contrastare gli interessi economici del Dragone: dai comuni cittadini ai politici che li rappresentano, fino a intere aziende. Senza dimenticare i giornalisti come Jiayang Fan del New Yorker, che ha raccontato di aver iniziato a subire molestie online da quando ha coperto le proteste di Hong Kong del 2019. La campagna va avanti da almeno quattro anni, solo negli ultimi mesi i procuratori federali e la società madre di Facebook, Meta, hanno avuto certezza che l’operazione Spamouflage (crasi di spam e camouflage, così è stata chiamata) sia stata orchestrata direttamente da Pechino.
I nuovi account creati ogni giorno superano quelli che vengono cancellati
Ad agosto, Meta ha annunciato di aver rimosso quasi 8 mila account nel solo secondo trimestre dell’anno. Google, che possiede YouTube, ha riferito alla Cnn di aver chiuso più di 100 mila account associati al network negli ultimi anni. E X ha dichiarato di aver bloccato centinaia di migliaia di account cinesi «sostenuti dallo Stato». Toppe che però non bastano: i nuovi account creati ogni giorno superano infatti quelli che vengono cancellati. E questo nonostante il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti non sia stato a guardare, puntando il dito contro 44 funzionari del ministero della Pubblica sicurezza di Pechino che, nelle vesti di troll, a più riprese hanno messo i bastoni tra le ruote ai dissidenti cinesi trasferiti negli Stati Uniti. Tra questi l’attivista Chen Pokong, che in patria ha trascorso quasi cinque anni in prigione: durante un suo evento su Zoom dedicato all’anticomunismo, i troll hanno preso in giro e minacciato di morte i partecipanti. Secondo il Dipartimento di Giustizia la campagna, che ha il proprio quartier generale a Pechino, coinvolgerebbe centinaia di agenti.
Così la strategia di Pechino è diventata sempre più imprevedibile
Il rapporto visionato dalla Cnn descrive anche come la campagna abbia promosso contenuti negativi sugli sforzi dell’amministrazione Biden per accelerare la produzione mineraria, cosa che avrebbe alleviato la dipendenza degli Stati Uniti dalla Cina. Ma se in passato la rete Spamouflage si concentrava principalmente su questioni rilevanti a livello nazionale per il Dragone, in tempi più recenti si è allargata anche a questioni prettamente statunitensi. Tramite, ad esempio, post che esaltavano le gesta dello “sciamano” di QAnon, eroico nel ribellarsi direttamente in Campidoglio alla «democrazia in stile occidentale». In occasione del secondo anniversario della morte di George Floyd, invece, è stata l’occasione per mettere in risalto la brutalità delle forze dell’ordine a stelle e strisce. A proposito di cambio di strategia, la campagna è arrivata anche su Pinterest, piattaforma generalmente non associata alla disinformazione, e ha adottato tecniche controintuitive, come quella di promuovere durante le Olimpiadi invernali di Pechino l’hashtag #GenocideGames (riferimento agli uiguri detenuti nei campi di internamento) in tweet che non avevano nulla a che fare con il problema in sé, allo scopo di ridurre le visualizzazioni dei messaggi che invece ne parlavano. Che dietro ci sia la mano del Partito Comunista Cinese è assodato. Tra l’altro, un rapporto pubblicato da Meta illustra l’allineamento dei post con l’orario lavorativo in Cina: «Esplosioni di attività a metà mattina e nel primo pomeriggio, ora di Pechino, con pause per il pranzo e la cena, e poi un’ultima esplosione di attività la sera». L’ambasciata cinese a Washington ha negato ogni legame tra la cosiddetta campagna Spamouflage e il ministero della Pubblica sicurezza. Ora, nel caso, Biden potrà chiedere lumi a Xi.
Secondo i nuovi sondaggi elaborati da Swg, tra l’8 e il 13 novembre nessuno dei partiti maggiori in Italia ha guadagnato consensi a esclusione di Forza Italia. Anzi, tanto Fratelli d’Italia e Lega quanto Pd e Movimento 5 stelle hanno perso il sostegno degli italiani, favorendo i gruppi minori. Il partito di Giorgia Meloni ha registrato un calo dello 0,1 per cento, fermandosi a quota 29,1, sempre saldamente al comando dei sondaggi. Restano dietro i dem guidati da EllySchlein, distanti quasi dieci punti dalla vetta al 19,7 per cento dopo una flessione dello 0,3.
Male anche Lega e M5s
Come detto, non è andata meglio alla Lega. Il partito di Matteo Salvini ha fatto registrare un calo dello 0,4 per cento, il secondo consecutivo. Ora il Carroccio è a quota 9,4 per cento, distante dal Movimento 5 stelle. Il gruppo di Giuseppe Conte, resta terzo ma scende al 16,2 per cento, dopo aver perso lo 0,2 nel periodo di riferimento. Un dietrofront per i pentastellati, dopo il rialzo di 0,3 punti percentuali nei sondaggi della settimana precedente. Bene, invece, Forza Italia, che ha mantenuto un trend positivo guadagnando lo 0,3 per cento e salendo al 6,7.
Cresce Italia Viva di Matteo Renzi
Il partito che ha guadagnato di più insieme a Forza Italia è L’Italia con Paragone. La lista dell’ex giornalista è cresciuta dello 0,3 per cento fermandosi all’1,9. Ha guadagnato lo 0,2 per cento, invece, Italia Viva. Il partito dell’ex premier Matteo Renzi ora è a quota 3 per cento, davanti a +Europa, salita al 2,5 per cento con un incremento dello 0,1. Stabile, invece Avs. Verdi e Sinistra italiana restano al 3,6 per cento, appena dietro Azione. Il partito di Carlo Calenda ha perso lo 0,1 per cento ma resiste al 3,9, primo tra i partiti più piccoli. Noi Moderati sale all’1,1 per cento con un +0,1.
Il 6 novembre 2023, all’ospedale di Reggio Emilia, è nato Axel. Il piccolo è già diventato famoso perché è il primo bambino che nasce dopo 30 anni a Tizzola di Villa Minozzo, un borgo sull’Appennino reggiano. Appena usciti dall’ospedale, mamma Simona e papà Thomas l’hanno portato a casa, tra le montagne. Ora gli abitanti del piccolo paese sono saliti da 25 a 26, anche se per la maggior parte anziani.
Axel e l’omaggio ai Guns N’ Roses
Il nome è stato fortemente voluto dalla mamma, la quale è una grande fan dei Guns N’ Roses e ha voluto fare un omaggio al leader della band Axl Rose. Tuttavia, è stato papà Thomas a condividere la gioia della sua nascita sui social aggiungendo una frase a nome del piccolo: «Da oggi sono qui tra voi!». Appresa la notizia della sua nascita dal nastro azzurro appeso all’angolo della piazza, gli abitanti del paesino si sono messi in fila davanti alla casa dei genitori, aspettando a turno per fare la conoscenza del nuovo arrivato nella valle silenziosa dell’Appennino reggiano.
La scelta di vivere in montagna: «Non ci muoveremo mai più da qui»
Simona Albertini, 41 anni, è originaria dell’Appennino reggiano, mentre Thomas Richeldi proviene dalla provincia di Modena. Nonostante abbiano vissuto e lavorato a Reggio Emilia, sentivano una profonda connessione con l’Appennino, motivo per cui sette anni fa, cedendo al richiamo irresistibile della montagna, hanno deciso di abbandonare la città e trasferirsi definitivamente a Tizzola, il paese d’origine di Simona. Quest’ultima ha detto: «Sono nata e cresciuta a Tizzola, ho lavorato per 14 anni a Reggio Emilia e sette anni fa con mio marito abbiamo deciso di lasciare la città e tornare a vivere sull’Appennino. Adesso poi con l’arrivo di Axel non ci muoveremo mai più da qui».
All’asta il guardaroba di Prince, genio di Minneapolis e uno dei massimi chitarristi nella storia del rock. RR Auction venderà online il 16 novembre abiti di scena, accessori e gioielli appartenuti un tempo alla star di Purple Rain, Kiss e When Doves Cry. La collezione, che comprende circa 200 oggetti, apparteneva all’uomo d’affari parigino Bertrand Billois, che ha raccolto in circa 20 anni i cimeli più importanti dell’intera carriera dell’artista statunitense, scomparso nel 2016 per overdose di farmaci oppiacei. La casa d’aste ha specificato infatti che non c’è alcun coinvolgimento degli eredi di Prince, ma si tratta esclusivamente di regali e doni che il cantante ha fatto negli anni ad amici e fan al suo Paisley Park di Minneapolis. Billois voleva farne un museo, ma dopo varie riflessioni ha pensato di diffonderlo tra gli appassionati di tutto il mondo.
Giacche e gioielli, all’asta look leggendari di Prince
Influencer ante litteram, per citare il New York Times, Prince ha legato la sua carriera non soltanto a brani di fama mondiale, ma anche a look che hanno segnato la storia del rock. Eclettico e stravagante, l’artista negli anni ha creato uno stile che i fan hanno presto cercato di imitare. Fra i 200 oggetti, spicca senza dubbio una camicia bianca con le ruche che indossò durante gli American Music Awards di Los Angeles nel 1985. Sulle note di Purple Rain, tenne una delle sue migliori performance in carriera, tanto da guadagnarsi l’appellativo di His Purpleness. Il prezzo è stimato intorno ai 15 mila dollari, ma non si esclude che al termine dell’asta possa raggiungere cifre ben più elevate. In vendita anche una spilla da bavero per il suo completo verde, oro e blu che indossò nel corso dell’esibizione, che dovrebbe essere battuta per circa 7 mila dollari.
Fra i cimeli all’asta The Fashion of Prince di RR Auction anche una chitarra elettrica interamente blu, per cui si devono spendere almeno 12 mila dollari. All’asta inoltre il cappotto in cachemire che l’artista indossò nella commedia Under the Cherry Moon di cui fu anche regista. Dal set del film arrivano anche i tacchi neri di Kristin Scott Thomas, che interpretò la ricca ereditiera di cui si innamora il protagonista. Il prezzo stimato dei due capi è rispettivamente 25 mila e mille dollari. I fan potranno acquistare, per cifre non inferiori a 500 dollari, gli storyboard originali del videoclip di Kiss e oggetti di scena di Purple Rain, film premio Oscar per la miglior colonna sonora. E ancora, spazio a occhiali da sole, pass per il backstage, fotografie inedite e scalette autografe dei concerti in Europa, tra cui una descrizione del guardaroba per il live di Dortmund del 1990.
Chitarre e pullman per i tour, le altre aste famose sull’artista
RR Auction non sarà però la prima casa d’aste a organizzare una vendita dei cimeli di Prince. Nel 2016, pochi mesi dopo la sua morte, a Beverly Hills un fan del genio di Minneapolis infatti acquistò per 700 mila dollari, a fronte di una stima di circa 80 mila, la celebre Yellow Cloud, la chitarra gialla realizzata nel 1995 esclusivamente per l’artista da un liutaio della sua città. Parallelamente, un altro appassionato si aggiudicò un’altra camicia con le rouche per 96 mila dollari, ben oltre il prezzo di partenza da 6 mila dollari. Quattro anni dopo invece venne battuto per una cifra non dichiarata un Eagle 10 del 1983, pullman interamente viola che Prince utilizzò per 100 date del Purple Rain Tour negli States dal novembre 1984 all’aprile dell’anno successivo.
La tragica morte di Indi Gregory, neonata inglese di otto mesi a cui sono stati staccati i supporti vitali perché ritenuta incurabile dai medici che la seguivano, ha scatenato riflessioni e discussioni sulla decisione dei giudici di seguire l’indicazione dei sanitari in contrasto con la volontà dei genitori, i quali a oggi non si danno pace. Nonostante l’intervento del governo italiano, non si è potuto fare nulla per lei. Questo ha sollevato interrogativi su cosa avrebbero potuto fare i medici italiani rispetto ai colleghi di Nottingham. La cittadinanza italiana ottenuta e l’offerta di assistenza da parte dell’ospedale Bambino Gesù di Roma hanno sollevato domande e dubbi sulle possibilità alternative, ma le regole italiane sul consenso informato e sul fine vita sono simili a quelle del Regno Unito, sebbene con delle sfumature considerevoli.
Come funziona la legge sul «fine vita» per i neonati
In Italia, non esiste l’eutanasia diretta (punibile ex art. 579 c.p. omicidio del consenziente), ma è possibile sospendere le terapie di supporto vitale seguendo la legge 219 del 2017. Quest’ultima sottolinea il diritto di rifiutare trattamenti sanitari e accertamenti diagnostici, ma la decisione finale spetta ai genitori o ai tutori nel caso dei minori. La questione diventa più complessa quando si tratta di neonati o bambini senza capacità cognitiva sviluppata, poiché la legge prevede che i genitori, insieme ai medici, prendano decisioni nell’interesse esclusivo del bambino, considerando il suo benessere. A differenza del Regno Unito, in Italia si pone grande enfasi sulla comunicazione e sulla costruzione di un rapporto di fiducia tra medici e genitori fin dall’inizio della cura del bambino. In caso di conflitto, tuttavia, la legge prevede l’intervento dei giudici, che devono valutare attentamente i benefici terapeutici e le conseguenze sulla qualità della vita del bambino, tenendo anche conto dell’opinione dei genitori, sebbene non sia vincolante.
Le autorità iraniane hanno lanciato un allarme rosso a causa degli altissimi livelli di inquinamento atmosferico nella capitale Teheran e anche in altre città del Paese, come Isfahan. Per questo motivo, le scuole elementari nella maggior parte dei distretti della provincia della capitale resteranno chiuse mercoledì 15 novembre 2023 e gli studenti potranno seguire le lezioni on-line. Secondo quanto riporta Isna, anche un terzo del personale di tutti gli enti potrà stare a casa e lavorare on-line mentre è stato consigliato a tutti di restare a casa e chi vorrà uscire sarà obbligato a portare una mascherina.
Si è chiusa mercoledì 14 novembre 2023 la quarta edizione di 4 Weeks 4 Inclusion, la maratona interaziendale sulla diversità e l’inclusione ideata e promossa da TIM che nel 2023 ha coinvolto più di 400 partner in quattro settimane consecutive di eventi digitali tramessi live e on demand. Complessivamente sono state prodotte più di 600 ore di diretta, che hanno avuto come ospiti oltre 1.000 tra manager delle principali aziende italiane, artisti, giornalisti, rappresentanti del mondo della cultura e influencer, generando circa 25 mila interazioni social e più di 4 milioni di visualizzazioni.
I dati raccolti sulla diversità e l’inclusione
L’evento conclusivo, trasmesso dalle 17 alle 20 del 14 novembre, sarà l’occasione per fare il punto sulla sempre maggior consapevolezza sulle tematiche di diversità e inclusione, ma anche su una crescente attenzione al merito evidenziate dalle indagini Quanto ne sai di D&I, realizzata da Work wide women, e Meritorg Check, presentata dal Forum della meritocrazia. Dalla ricerca di Work wide women, che ha registrato più di 15 mila interazioni durante la durata della manifestazione, è emerso che il 63 per cento delle persone coinvolte è a conoscenza di quali sono le difficoltà lavorative post-maternità (child penalty gap), mentre il 97,9 per cento conosce le definizioni di cultura, interculturalità e multiculturalità e il 59 per cento delle persone adotta correttamente un linguaggio inclusivo nei confronti di persone con disabilità. Negli ambiti legati alle tematiche Lgbtqia+ e generazionali si è registrata, invece, una leggera confusione sui termini più appropriati da utilizzare. Sul fronte del merito, le organizzazioni che hanno partecipato al sondaggio hanno ottenuto un punteggio complessivo di 69/100, dimostrando un livello di meritocrazia soddisfacente. Analizzando i risultati in dettaglio, i pilastri con le performance più elevate sono stati quelli delle pari opportunità (84/100), seguito da qualità e sviluppo del capitale umano (77/100), performance e carriera (65/100), attrattività per i talenti (64/100) e regole e trasparenza (57/100).
Dalla parte delle donne, per combattere il #gendergap e dare supporto alle vittime della violenza di genere. Oggi non perdere dalle 16:00 su #4W4I l'evento "TIM si tinge di viola" e scopri la nostra collaborazione con @DonnexStrada.#LaParitàNonPuòAspettare Segui lo streaming
L’evento di chiusura, disponibile in streaming sul sito 4w4i.it, sarà l’occasione per fare un bilancio della manifestazione, con il racconto dei partner, la presentazione delle ricerche e la consegna dei premi della 4W4I. Dopo i saluti di Paolo Chiriotti, responsabile Human resources & organization di TIM e di Andrea Laudadio, responsabile di TIM Academy & development, fra i protagonisti della serata ci saranno i The Pills, gruppo comico di content creator che animerà due live podcast dialogando con tre ospiti di eccezione: la modella Oxana Likpa, il giornalista crossdresser Stefano Ferri, la comica e presentatrice Michela Giraud ed Enrico Galletti, giornalista di Rtl 102.5, che manterrà un filo conduttore con il pubblico in sala e con quello collegato in streaming attraverso WhatsApp. L’edizione 2023 si concluderà definitivamente con lo spettacolo Up&Down messo in scena da Paolo Ruffini, assieme alla compagnia teatrale Mayor Von Frinzius composta da attori neurodivergenti.
Aurelio De Laurentiis ha scelto Walter Mazzarri come nuovoallenatore del Napoli. In attesa dell’esonero ufficiale di Rudi Garcia, il presidente dei partenopei ha deciso di tornare al passato, riportando sulla panchina azzurra il tecnico salutato dieci anni fa. Mazzarri ha allenato il Napoli per quattro stagioni fino all’annata 2012/2013. Ora il ritorno, con un contratto da traghettatore di appena sette mesi, in cui sarà inserita un’opzione di rinnovo per l’anno successivo.
Mazzarri supera la concorrenza di Tudor
Walter Mazzarri ha superato in extremis la concorrenza di Igor Tudor, favorito per la panchina del Napoli fino a poche ore fa. L’ex difensore della Juventus, che in Italia ha già allenato Udinese e Verona, non ha convinto fino in fondo De Laurentiis. E lo stesso Tudor non ha accettato il contratto proposto da sette mesi, chiedendone invece uno da 18. Mazzarri, invece, ha detto sì al presidente e bisognerà limare soltanto qualche dettaglio prima dell’atteso annuncio ufficiale. Alla ripresa degli allenamenti a Castel Volturno, però, sarà lui a sostituire Rudi Garcia.
Walter Mazzarri, new Napoli head coach. Agreement sealed — valid until June 2024.
Former Inter and Watford manager has signed the contract — set to be unveiled as new coach today. Mazzarri replaces Rudi Garcia. pic.twitter.com/R21tk0CoVS
L’esonero di Garcia: buonuscita da quasi 3 milioni
Archiviato l’accordo con il nuovo allenatore, Aurelio De Laurentiis dovrà risolvere il rapporto con l’attuale tecnico Rudi Garcia. Tra i due non è mai sbocciato davvero alcun amore e la sconfitta contro l’Empoli allo stadio Maradona è stata la goccia finale. L’allenatore francese, che ha già lasciato Napoli, dovrebbe andar via con 2,8 milioni di euro, cioè la cifra prevista dal contratto da qui a fine stagione.
I tifosi del Napoli, intanto, sono pronti a riaccogliere l’allenatore sbarcato per la prima volta in città il 6 ottobre del 2009. Anche in quel caso Mazzarri è arrivato in panchina a causa di un cambio di guida tecnica. A essere esonerato, in quel caso, è stato Roberto Donadoni. Da lì il sodalizio con il club ha portato alla vittoria della Coppa Italia nel 2012 e al ritorno in Champions League dopo 21 anni. Mazzarri ha allenato alcuni campioni rimasti nel cuore della tifoseria, come gli attaccanti Cavani e Lavezzi e capitano Hamsik. L’addio nell’estate 2013 con il passaggio del tecnico all’Inter.
Dopo otto anni di restauro l’attesa è finita: il Cinema Modernissimo, uno degli storici cinematografi di Bologna, è pronto per riaprire al pubblico. Il regista Wes Anderson sarà in città per l’inaugurazione della sala.
10 giorni di inaugurazione per celebrare il Modernissimo
La sala, nata nel 1915 nel cuore della città, in Piazza Maggiore, è uno scrigno sotterraneo, un viaggio nel tempo per tutti i cinefili sotto uno dei palazzi simbolo della modernità novecentesca bolognese, Palazzo Ronzani, che si erge all’angolo tra via Rizzoli e Piazza Re Enzo. Per l’occasione la Cineteca di Bologna, sotto la direzione di Gian Luca Farinelli, ha organizzato 10 giorni di inaugurazione per festeggiare la rinascita del Modernissimo: dal 21 al 30 novembre, con un parterre di ospiti che va da Anderson (protagonista di diversi appuntamenti dal 25 al 27 novembre) all’attore protagonista del film La mosca, Jeff Goldblum, insieme a registe, registi, attrici, attori come Paola Cortellesi, Alice Rohrwacher, Marco Bellocchio, Giuseppe Tornatore, Mario Martone e tanti altri. Tutti per presentare film non realizzati da loro stessi, bensì scelti dal cilindro della storia del cinema, esattamente nello spirito di una sala come sarà il Modernissimo, dedicata a tutto il cinema, dalle origini ai giorni nostri. «È un momento così a lungo desiderato che non potevamo fermarci a una sola proiezione d’inaugurazione, abbiamo quindi pensato che fossero necessari 10 giorni», ha commentato Farinetti.
La sala proietterà sia la pellicola che i formati digitali in 4K
In controtendenza rispetto alla logica del multiplex, la città di Bologna, una delle capitali europee del cinema, sposa la nuova sensibilità internazionale per il recupero dei cinematografi di inizio secolo, ed è pronta ad affrontare una sfida culturalmente e imprenditorialmente così importante come quella di ridare vita al Cinema Modernissimo. La sala, alla quale si accederà da Piazza Re Enzo 1, presenta la massima qualità degli standard tecnologici attuali, sia in termini di restituzione dell’immagine (la cabina di proiezione sarà dotata di proiettori sia per la pellicola sia per i formati digitali fino al 4K) sia in termini di qualità del suono. Inoltre, sono stati restaurati gli interni nel loro originario stile Liberty, per poter creare un’esperienza di visione immersa tra presente e passato.
Recentemente i giornalisti di Repubblica hanno pubblicato il documento Informazione e pubblicità: la carta dei doveri, elencando in 10 punti le difficoltà dei loro rapporti con la concessionaria di pubblicità, in un periodo in cui «gli investitori hanno pochissimo interesse a utilizzare la carta stampata» per promuovere le loro aziende e i loro prodotti. Nel documento si impegnano «a tenere distinta l’informazione dalla pubblicità in tutte le piattaforme: giornale, allegati, sito, social network, podcast, eventi», stigmatizzando le pressioni della pubblicità e richiamando doveri deontologici e trasparenza.
Nell’era di Internet i mercati sono diventati luoghi di incontro e conversazione
È un’occasione interessante per tentare un aggiornamento su giornalismo e pubblicità nell’era di Internet. A leggere il documento della redazione di Repubblica sembrerebbe che niente sia cambiato in questo primo ventennio del nuovo secolo: le regole che dovrebbe seguire un professionista nel suo delicato compito di informare sarebbero sempre le stesse dall’origine della stampa: i fatti separati dalle opinioni (come diceva lo slogan di un settimanale 40 anni fa), l’informazione separata dalla pubblicità. Ma, nell’era di Internet, «i mercati sono conversazioni», secondo una delle 95 tesi del Cluetrain Manifesto, il libro degli economisti del web Rick Levine, Christopher Locke, Doc Searls e David Weinberger che, nel 2000 e poi nel 2016 (con un aggiornamento), ha raccontato come Internet penetri profondamente nella società modificandone i tradizionali equilibri. I mercati sono diventati luoghi d’incontro e di conversazione, le potenzialità informative, gratuite e alla portata di tutti, hanno creato un nuovo tipo di consumatore, competente, esigente, certamente non più assoggettato a una comunicazione unidirezionale. Internet non ha un fine specifico: è stato progettato per informare, fare pubblicità, comprare, vendere, regalare; per diffondere messaggi religiosi e video pornografici; immagini drammatiche e frivole; proclami politici e opinioni personali. È stato inventato per attrarre gli opposti e restituirli senza mediazioni: è questa la vera rivoluzione di un mezzo che tiene insieme il buono e il cattivo, il virtuoso e il corrotto, l’abominevole e il sublime.
Toscani usando la foto dello sbarco dall’Albania dimostrò che nessuno poteva arrogarsi la prerogativa di informare in modo neutro
Nel 1991, Tim Berners-Lee usò la rete per regalarci il World Wide Web, insegnandoci a scrivere una pagina che può collegarsi a decine, centinaia di altre pagine senza chiedere il permesso a nessuno. Le interconnessioni a cui ci hanno abituato 30 anni di web ci hanno fatto assimilare il concetto che ognuno di noi può usare questo “luogo”, chiunque può esprimere un’opinione con la certezza che qualcuno lo ascolterà. Sempre nel 1991, mentre nasceva il web, c’era stato un marchio italiano, United Colors of Benetton che, sotto la guida creativa di Oliviero Toscani, aveva gettato le basi per questa “confusione”: in quell’anno, il primo sbarco di immigrati albanesi sulle coste italiane, in un’immagine acquistata da Benetton dall’agenzia americana Magnum, veniva usato sia per pubblicizzare il brand, con il logo ben visibile a destra della foto (su grandi poster stradali e su pagine di quotidiani e riviste) sia come copertina della rivista Colors, un vero e proprio “prodotto giornalistico”, con direttore responsabile (Tibor Kalman) e redazione di giovani giornalisti.
Un’altra immagine, della fotografa Therese Frare, quella del malato di Aids David Kirby ripreso sul suo letto di morte circondato dai familiari, era stata pubblicata dalla rivista americana Life: Toscani la scelse per pubblicizzare la Benetton, mettendoci sopra il logo aziendale e comprando spazi a pagamento su vari mezzi, affissioni, riviste di moda, quotidiani, spot in tv. Un esperimento che fece capire, già allora, che nessuno poteva più arrogarsi la prerogativa di “informare” in modo neutro; che informazione e profitto convivevano; che anche la pubblicità poteva essere un mezzo molto potente per comunicare qualsiasi cosa, non solo fustini di detersivo. Si accusò, allora, la Benetton di «sfruttare le immagini del dolore per vendere maglioni». Ma anche due altre aziende, prima della Benetton, l’agenzia fotografica Magnum e la Time Warner, proprietaria della rivista Life, avevano sfruttato due immagini per fare profitti. La Magnum vendendo la foto dello sbarco degli albanesi a Benetton. Time Warner usando quella di Therese Frare per vendere la sua rivista, avendola piazzata in copertina: proprio come stava facendo la Benetton che usava queste due immagini per diffondere messaggi positivi di inclusione ma, certamente, senza dimenticare il fine principale di vendere i propri prodotti. La domanda che allora i media di tutto il mondo si posero fu: perché Magnum e Time Warner possono fare profitti e Benetton no, usando le stesse foto, comprandole da loro, e pubblicandole in affissione, su riviste e giornali? La foto di un malato di Aids messa in copertina di una rivista – si presume per attirare il pubblico a comprarla – andava bene, determinando un guadagno per il gruppo editoriale che ne era proprietario, ma era sconveniente se la usava un’azienda di abbigliamento per farsi pubblicità? Andava bene per vendere un giornale ma non per vendere un maglione?
La presunta verità rivelata dei giornalisti oscurata in pochi secondi da un video su TikTok
Il mondo è profondamente cambiato, di questo sembrano non accorgersi i giornalisti che hanno redatto la Carta dei Doveri di Repubblica: i branded content che spaventano la redazione sono soltanto un altro dei mille modi di informare. «Se volete che i vostri clienti continuino a parlare di voi e a comprarvi, raccontategli qualcosa: possibilmente qualcosa di interessante»: il Cluetrain Manifesto aveva capito che nell’era di Internet le imprese – qualsiasi impresa: anche quella della famiglia Elkann proprietaria di un quotidiano come la Repubblica – se vuole continuare a fare profitti deve «raccontare qualcosa di interessante» ai suoi stakeholder, che siano lettori o clienti finali di qualsiasi cosa, più che rinchiudersi nella fortezza di un rigore deontologico che non basta più. È sorpassato come imperativo morale – se resta solo quello – perché, paradossalmente, l’informazione veicolata dagli uffici stampa delle imprese è forse l’unica veritiera in un proliferare di interpretazioni e di fake news. Del resto le imprese sono sempre di più soggetti sociali: l’azienda “cittadina” (l’industrie citoyenne la chiamano i francesi), proprio come una persona interessata alla società di cui è espressione e motore dei suoi cambiamenti, non solo economici, verso stili di vita cooperativi e associativi, legittimata a intervenire sui temi che coinvolgono le comunità, con modalità di governance più partecipative e egualitarie. Aziende sempre più orientate alla trasparenza, verso l’abbattimento delle differenze di genere e di culture, verso modelli virtuosi di economia circolare. Non sono esenti da questi cambiamenti le imprese editoriali private che pubblicano quotidiani come la Repubblica. Anche loro, in quanto aziende private, sono chiamate a misurarsi con i nuovi mercati interconnessi, pena l’impietosa esclusione dagli stessi. I giornalisti non sono più la categoria di lavoratori che mantiene per statuto il privilegio della deontologia professionale, come se fossero l’ultimo baluardo delle verità rivelate, nella mitizzazione del vecchio reportage, mentre il video di un tiktoker ha il potere in pochi secondi di oscurarli, raggiungendo milioni di contatti.
Sarebbe stato più interessante leggere un decalogo sulle sfide poste dall’Intelligenza artificiale
Certo, è più facile denunciare le “pressioni” delle concessionarie di pubblicità, riconoscibili, al contrario di quelle occulte che vanificano il lavoro del giornalista tradizionale, costretto sempre più spesso a spettacolarizzare le sue corrispondenze, per adeguarsi alla obsoleta regola dell‘infotainment (in Italia prendiamo ancora sul serio reperti di vecchia tv generalista come Striscia la notizia e Le iene). Non è la «purezza dell’informazione indipendente» rivendicata dagli estensori del Decalogo di Repubblica ad appassionarci. I giornali non sono mezzi efficaci più di quanto lo siano le nostre conversazioni in Rete. Siamo umani e comunicare è una delle nostre principali attività: qualunque link postato da uno sconosciuto che ha qualcosa da dire è un atto di generosità, che invita i lettori ad abbandonare le loro pagine rassicuranti per buttare uno sguardo al mondo com’è visto dagli occhi di un’altro. Sarebbe stato interessante leggere un decalogo di questo tipo, un Cluetrain Manifesto del giornalismo 4.0 alle prese con le sfide dell’Intelligenza artificiale, invece delle lamentele già sentite sullo strapotere della pubblicità.
*Paolo Landi è advisor di comunicazione per imprese, autore di Instagram al tramonto (La Nave di Teseo, 2019) e dell’imminente La lotta di classe degli algoritmi (Krill Books).
I genitori della piccola Aurora, morta due mesi fa nella sua culla a Santa Maria a Vico, in provincia di Caserta, sono stati arrestati con l’accusa di omicidio e maltrattamenti. A riferirlo è Repubblica Napoli, che ha ripercorso la vicenda spiegando che la bambina, di quasi due mesi, è deceduta il 2 settembre scorso. A fare scattare l’inchiesta sono stati i primi rilievi sul corpo della vittima, su cui sono state riscontrate ustioni ed ecchimosi. Da lì l’avvio dell’inchiesta.
L’arresto dopo alcune conversazioni tra i due
Dopo aver disposto l’autopsia sulla salma, i carabinieri hanno sequestrato i cellulari dei due coniugi. Da alcune conversazioni emerse tra i due si è arrivati all’arresto. Il padre, 26 anni, è stato portato al carcere di Santa Maria Capua Vetere. La madre, 19enne, è invece a Pozzuoli. A dare l’allarme il 2 settembre è stata la donna, che stava accudendo gli altri due bambini insieme all’uomo, prima di trovare il corpo senza vita di Aurora nella culla. Gli altri due figli, di due e quattro anni, sono stati affidati a una comunità già da settimane, su decisione della procura dei minori.
I Latin Grammy Awards 2023 parlano italiano. La 24esima edizione dei grandi premi per la musica latina ha infatti scelto Laura Pausini come Person of the Year, una delle massime onorificenze possibili. L’artista di Faenza è la prima a vincerlo pur non essendo di lingua madre spagnola ed è solamente la terza donna a ottenere il riconoscimento dopo Gloria Estefan nel 2008 e Shakira nel 2011. «Sono davvero onorata di ricevere questo premio dalla Latin Recording Academy», ha dichiarato la cantante sul sito dei Grammy. «Essere nominata in occasione dei 30 anni di carriera è qualcosa che non riesco a descrivere». In programma una serata di gala per mercoledì 15 novembre, quando si terrà un concerto tributo in suo onore con la partecipazione di altri esponenti della musica mondiale. Il giorno seguente ci sarà la consegna dei premi a Siviglia, che ospita eccezionalmente per il 2023 l’evento americano.
Laura Pausini premiata per la carriera e il suo impegno nel sociale
L’Academia Latina de la Grabación ha deciso di premiare Laura Pausini non soltanto per la sua carriera di successo. Come si legge sul sito ufficiale, il riconoscimento si riferisce anche al suo «continuo impegno nel sostenere le cause di giustizia sociale che le stanno più a cuore, tra cui la fame nel mondo, la violenza sulle donne e i diritti Lgbtq+». Prima di lei, erano state Person of the Year anche star come Carlos Santana, Ricky Martin, Placido Domingo e Julio Iglesias. «Laura è una delle artiste più talentuose e care della generazione», ha spiegato Manuel Abud, Ceo dei Latin Grammy Awards. «A 30 anni dal debutto, la sua voce straordinaria continua a rompere le barriere attraverso lingue e generi, affascinando il pubblico di tutto il mondo».
Entusiasta anche la stessa artista italiana, che il 10 novembre ha suonato proprio a Siviglia durante la prima tappa del suo tour in Spagna. «La lingua iberica mi ha aperto le porte sin da giovane», ha spiegato Pausini. «Mi ha fatto sentire a casa e mi ha ispirato ad andare avanti, esplorando e vivendo la musica senza confini. Posso solo dire grazie, di cuore, sono molto emozionata». La cantante ha poi festeggiato condividendo la notizia anche sul suo canale Instagram ufficiale. Vincitrice del Festival di Sanremo nel 1993 con il brano La solitudine, Laura Pausini vanta numerosi premi anche in campo internazionale. Spicca il Grammy Awards nel 2006 per Resta in ascolto, che accompagna ben quattro successi proprio ai Latin Grammy. L’artista si è infatti imposta nel 2005 come Miglior artista pop femminile, che si aggiunse al premio dei fan per la solista dell’anno. La versione spagnola di Io canto nel 2007 le garantì un nuovo successo, cui ne seguirono altri due nel 2009 e nel 2018 per Primavera in anticipo e Fatti sentire.
Latin Grammy Awards, le nomination della 24esima edizione
Durante la cerimonia del 16 novembre, che avrà in programma anche un’esibizione di Andrea Bocelli, si conosceranno i vincitori dei 24esimi Latin Grammy Awards. Per la canzone dell’anno sono in lizza, fra gli altri, Christina Aguilera con No Es Que Te Extrañe, Shakira con la virale Bzrp Music Sessions, Karol G e la sua Mientras Me Curo Del Cora, Maluma & Marc Anthony con La Fórmula e Rosalia con Despechá. Quanto al reggaeton spiccano i nomi di Ozuna & Feid, Tego Caldero e ancora una volta Karol G. Non mancheranno poi riconoscimenti per brani in portoghese, canzoni tejane e messicane, ma anche per le tracce di salsa, bachata e mariachi.