Fine vita per i neonati: come funziona la legge in Italia

La tragica morte di Indi Gregory, neonata inglese di otto mesi a cui sono stati staccati i supporti vitali perché ritenuta incurabile dai medici che la seguivano, ha scatenato riflessioni e discussioni sulla decisione dei giudici di seguire l’indicazione dei sanitari in contrasto con la volontà dei genitori, i quali a oggi non si danno pace. Nonostante l’intervento del governo italiano, non si è potuto fare nulla per lei. Questo ha sollevato interrogativi su cosa avrebbero potuto fare i medici italiani rispetto ai colleghi di Nottingham. La cittadinanza italiana ottenuta e l’offerta di assistenza da parte dell’ospedale Bambino Gesù di Roma hanno sollevato domande e dubbi sulle possibilità alternative, ma le regole italiane sul consenso informato e sul fine vita sono simili a quelle del Regno Unito, sebbene con delle sfumature considerevoli.

Come funziona la legge sul «fine vita» per i neonati

In Italia, non esiste l’eutanasia diretta (punibile ex art. 579 c.p. omicidio del consenziente), ma è possibile sospendere le terapie di supporto vitale seguendo la legge 219 del 2017. Quest’ultima sottolinea il diritto di rifiutare trattamenti sanitari e accertamenti diagnostici, ma la decisione finale spetta ai genitori o ai tutori nel caso dei minori. La questione diventa più complessa quando si tratta di neonati o bambini senza capacità cognitiva sviluppata, poiché la legge prevede che i genitori, insieme ai medici, prendano decisioni nell’interesse esclusivo del bambino, considerando il suo benessere. A differenza del Regno Unito, in Italia si pone grande enfasi sulla comunicazione e sulla costruzione di un rapporto di fiducia tra medici e genitori fin dall’inizio della cura del bambino. In caso di conflitto, tuttavia, la legge prevede l’intervento dei giudici, che devono valutare attentamente i benefici terapeutici e le conseguenze sulla qualità della vita del bambino, tenendo anche conto dell’opinione dei genitori, sebbene non sia vincolante.

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