Un filo rosso collega la prossima inaugurazione della stagione del Teatro alla Scala, Don Carlo, a quella che l’ha preceduta, Boris Godunov. Il dettaglio non è stato finora sottolineato come merita, ma l’elemento comune è chiaro: sia Verdi che Musorgskij in queste opere attribuiscono una decisa dimensione politica ai soggetti storici che avevano scelto di mettere in musica. Il legame fra i due lavori, del resto, è anche nella loro genesi. La prima rappresentazione di Don Carlo avvenne all’Opéra di Parigi l’11 marzo 1867 e due anni più tardi il compositore russo iniziò a scrivere il Boris. Prima di mettersi al lavoro, all’inizio di quel 1869, aveva assistito a San Pietroburgo al capolavoro verdiano. Come ha osservato lo storico della musica Michele Girardi, la comune tematica di fondo riguarda «le logiche spietate dei detentori di un potere assoluto che disintegra l’aspirazione alla felicità individuale e collettiva degli oppressi».
Il Don Carlos, titolo originale, è l’ultima incursione verdiana nella drammaturgia di Schiller
Don Carlo fu composto su commissione dell’Opéra di Parigi e rappresentato in occasione dell’Esposizione Universale del 1867. Nacque quindi come Don Carlos, su libretto in francese di François-Joseph Mery e Camille du Locle. Ultima incursione verdiana nella drammaturgia di Friedrich Schiller – e unica in età matura dopo Giovanna d’Arco, I masnadieri e Luisa Miller – l’opera costituisce di fatto anche una delle ultime e più importanti affermazioni del cosiddetto “grand-opéra” nato a Parigi ormai mezzo secolo prima, con la sua suddivisione in cinque atti, lo spazio concesso a grandi e spettacolari scene di massa, la presenza di un ampio inserto dedicato alla danza. Al suo apparire il lavoro fu salutato da un discreto ma non travolgente successo. E già iniziavano a circolare fra i critici gli addebiti di “wagnerismo” che cinque anni più tardi per Aida sarebbero diventati parere quasi generale. Tuttavia, si trattava pur sempre dell’ultima novità di uno dei massimi autori di teatro per musica, e subito se ne ebbero rappresentazioni in Italia (con il libretto tradotto da Achille de Lauzières) e in Europa.
Le modifiche apportate alla versione italiana
Con la versione in italiano (il titolo era diventato Don Carlo) cominciarono anche le modifiche da parte di Verdi: già significative quelle realizzate per l’approdo al San Carlo di Napoli nel 1872, fondamentali e radicali quelle che oltre un decennio più tardi furono approntate per le rappresentazioni alla Scala nel gennaio del 1884. Fu allora che venne tagliato il primo atto della versione iniziale dalla partitura. Si tratta del cosiddetto “atto francese”, che si svolge nella foresta di Fontainebleau e che peraltro non esiste in Schiller ma è proprio solo del libretto francese. Contiene, oltre a sofisticate pagine corali, un’aria di Don Carlo, erede al trono di Spagna e un duetto di questi con Elisabetta di Valois, sua promessa sposa di un tempo ora costretta dalla ragion di Stato a convolare con il padre di lui, il re di Spagna Filippo II. Dal taglio venne salvata solo l’Aria, inserita nel secondo atto (che diventava il primo). Verdi non era certo il tipo che si faceva imporre cambiamenti così importanti e infatti nel suo epistolario si trovano ripetute considerazioni positive sulla versione in quattro atti. Sta di fatto che appena un paio di anni più tardi, a Modena, non è chiaro con quanta diretta partecipazione del compositore, l’atto francese fu riesumato, naturalmente sempre in italiano. E l’Aria di Don Carlo tornò al suo posto originale. Se si aggiunge che una cinquantina di anni fa sono emerse dagli archivi dell’Opéra varie pagine della partitura iniziale, che il compositore stesso aveva tagliato in occasione della prima rappresentazione assoluta (almeno un quarto d’ora di musica, forse di più), si ha il quadro del complesso percorso creativo verdiano in Don Carlo.
La versione 1884 in quattro atti aprirà la stagione della Scala con Chailly sul podio e la regia di Lluís Pasqual
Dal punto di vista rappresentativo, oggi le opzioni restano principalmente due: la versione parigina del 1867 (in francese, cinque atti, con i ballabili) e la versione scaligera del 1884 (in italiano, quattro atti, senza ballabili); in alternativa a quest’ultima, c’è la versione modenese, in italiano ma con il recupero dell’atto francese. Negli Anni 80 sulla questione si erano divisi due fra i maggiori studiosi italiani, Massimo Mila e Fedele d’Amico, peraltro concordi nel ritenere quest’opera uno dei maggiori raggiungimenti dell’arte di Verdi. Mila era a favore della versione in cinque atti, d’Amico di quella in quattro atti. A 40 anni di distanza, pare di poter dire che il confronto sia stato vinto da quest’ultimo. Secondo l’archivio del sito specializzato Operabase.com, dai primi anni Duemila la versione francese in cinque atti è stata proposta solo una volta, nel 2004 all’Opera di Roma. Quella in italiano in quattro atti è largamente maggioritaria e anche frequente in maniera confortante: se ne contano 23 apparizioni nei teatri di 13 città, con Firenze in prima fila (quattro allestimenti) seguita da Milano con tre. Negli ultimi tempi se ne sono avute edizioni ragguardevoli alla Fenice di Venezia (2019, regia di Robert Carsen, direttore Myung-Whun Chung), a Firenze e a Napoli (meno di un anno fa). Fra l’altro, Don Carlo torna a essere l’opera del 7 dicembre scaligero a 15 anni dall’ultima volta che inaugurò la stagione milanese, nel 2008, direttore Daniele Gatti, regista Stéphane Braunschweig. L’ormai imminente nuova proposta milanese della versione 1884 in quattro atti vedrà sul podio Riccardo Chailly, mentre la regia sarà dello spagnolo Lluís Pasqual. Cast di notevole livello, con René Pape (Filippo), Luca Salsi (Posa), Francesco Meli (l’Infante), l’immancabile Anna Netrebko (Elisabetta) ed Elina Garan?a (Eboli).
Con il suo spirito cupo e violento, il Don Carlo è una sorta di annuncio del decadentismo
L’opera è dominata da uno spirito cupo e violento, che rende drammaticamente vana ogni speranza. Il cattolicissimo re Filippo II opprime i protestanti dei Paesi Bassi e li manda al rogo sobillato dalla Santa Inquisizione, e intanto si arrovella perché la moglie Elisabetta di Valois non lo ama. Lei era stata promessa al figlio di Filippo, Don Carlo, ed è lui che ama, riamata. Un rapporto platonico ma ugualmente dal peso insostenibile, che resterà sempre e solo ideale, mentre la marchesa di Eboli cerca a sua volta di conquistare l’amletico Infante di Spagna, salvo confessare – per poi essere mandata in esilio – di essere l’amante del re. Il marchese di Posa, amico fedele di Don Carlo, si oppone alle politiche assolutiste di Filippo, ma non riesce a salvare i protestanti di Fiandra e finirà ucciso dagli archibugi del Sant’Uffizio, pur essendo stimato dal monarca. Il loro duetto nel primo atto, la pagina che più è stata rielaborata da Verdi, è uno dei culmini di tutta l’opera, come lo è l’intero terz’atto, aperto dalla formidabile aria di Filippo, Ella giammai m’amò. Il clima è torbido, la tinta oscura; totale la libertà dalle forme tradizionali del canto operistico, ammaliante la sottigliezza della scrittura strumentale. Non a caso Mila vedeva in questo capolavoro una sorta di annuncio del decadentismo, in grado di fare piazza pulita dei vani tentativi di rivoluzionare il genere operistico da parte della Scapigliatura. E non c’è da stupirsi se nella versione 1884 l’Infante di Spagna, che il padre ha deciso di consegnare al boia, alla fine letteralmente svanisce mentre si trova nella cripta del nonno Carlo V, in un’atmosfera quasi esoterica.
L’attualità drammatica dell’opera e il pessimismo di Verdi sulle umane sorti
Con i suoi personaggi dalla psicologia complessa, dipinta realisticamente fra dilemmi interiori e umanissime contraddizioni; con l’impari confronto fra gli individui e una ragion di Stato che non si ferma di fronte alla ferocia e al delitto; con la sua durissima rappresentazione della guerra in nome della religione, condotta fino agli omicidi rituali degli autodafé imposti dall’Inquisizione; con l’evidenza drammatica di come l’assolutismo soffochi non solo la libertà, ma anche l’aspirazione a essa, Don Carlo appare oggi drammaticamente attuale. È davvero un’opera profondamente politica, dominata dal radicale pessimismo del compositore sulle umane sorti, che non concede soverchie speranze neanche a chi vi assiste nel XXI secolo, dopo le illusioni sulla “fine della storia”. La storia non è affatto finita, e Verdi ce lo ricorda con una musica capace come poche di parlare sia al cuore che alla mente.