In occasione della Giornata internazionale per combattere la violenza sulle donne, istituita dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1999, A35 Brebemi-Aleatica, in collaborazione con Autogrill e Chef Express, ha installato due panchine rosse, nelle aree di servizio Adda Sud e Adda Nord, lungo l’autostrada. La panchina rossa è il simbolo dell’attività di comunicazione e di sensibilizzazione, lanciata dagli Stati generali delle donne, volta a dare voce alle azioni intraprese contro la violenza di genere, in favore di una cultura di parità e contro il femminicidio.
Il progetto in collaborazione con gli Stati generali delle donne
Sulla targhetta personalizzata, affrancata sopra le panchine, è stato apposto il numero verde che ogni donna può chiamare per segnalare qualsiasi abuso, affinché anche un’area di transito, ristoro e relax, come quella lungo l’autostrada, possa essere un luogo dove, chi si sente minacciato, possa trovare un punto di riferimento concreto e un possibile immediato aiuto. Questo progetto, in collaborazione con gli Stati generali delle donne, vuole essere inoltre un mezzo tangibile per invitare la cittadinanza a riflettere, a non dimenticare e a mantenere alta l’attenzione, vigilando su tutti coloro che subiscono violenza. Attraverso questo progetto, A35 Brebemi-Aleatica, Autogrill e Chef Express intendono infatti sollecitare tutti i viaggiatori che si fermeranno lungo le aree di servizio a una presa di coscienza, a un confronto continuo, a una riflessione permanente sulla violenza. La #panchinarossa è un simbolo di solidarietà, di sostegno e di consapevolezza per la società tutta, un incitamento ad agire sull’educazione e sul rispetto della persona, per combattere il silenzio e ogni forma di abuso e discriminazione.
Milanesi: «Costruire un contesto in cui le donne si sentano sicure e rispettate»
Il direttore generale di A35 Brebemi-Aleatica Matteo Milanesi ha così commentato l’iniziativa: «A35 Brebemi e Aleatica sono impegnate a costruire un contesto organizzativo libero da qualsiasi discriminazione e molestia. La consapevolezza che la violenza contro le donne è un problema che tocca ogni aspetto della nostra società, ha fatto sì che la decisione della posa di queste panchine rappresentasse un segno visibile e tangibile del nostro impegno. L’intento è quello di costruire un’organizzazione e un contesto in cui le donne si sentano sempre sicure e rispettate».
Bestetti: «Iniziativa in linea con la nostra sensibilità e attenzione»
Gli ha fatto eco Bruno Bestetti, amministratore delegato Nuova Sidap, Divisione Oil, Franchising & No Toll di Autogrill Italia: «La valorizzazione della cultura della parità di genere è da sempre tra i valori fondanti di Autogrill, forte anche di un organico prevalentemente al femminile soprattutto nei punti vendita del territorio. Essere partner di un’iniziativa come Panchina Rossa è perfettamente in linea con la nostra sensibilità e attenzione, sia all’interno che all’esterno dell’azienda, rispetto a un tema così rilevante come il contrasto alla violenza di genere. Un simbolo concreto e tangibile come la Panchina Rossa, collocato nelle aree di sosta autostradali da sempre luogo di continuo passaggio, è uno strumento in più per mantenere alta l’attenzione».
Con circa due ore di ritardo (con buona pace di Atm, l’azienda di trasporti milanesi che fino a poco prima dell’evento non voleva prolungare il servizio delle metro), ma alla fine è arrivata. Madonna è comparsa sul palco del Mediolanum Forum di Assago – primo appuntamento giovedì 23 novembre, si replica sabato 25 – quasi alle 22.30 (secondo il biglietto l’inizio del concerto era previsto alle 20.30) con un’apertura mozzafiato per lo zoccolo duro dei fan: Nothing really matters, singolo non di punta di quel gioiello che è l’album Ray of light. Ad applaudire la tappa meneghina del The Celebration Tour, in cui la popstar festeggia i suoi 40 anni di carriera, oltre 11 mila spettatori (compresi, tra gli altri, Giorgio Armani, Elodie, Gigi Buffon e Rocco, il figlio che la cantante ha avuto con il regista Guy Ritchie) investiti da una carrellata di hit, coreografie, costumi e chi più ne ha più ne metta. A 65 anni suonati, quanto è riuscita Madame Ciccone a tenere botta al tempo che passa?
una cosa che ricorderò è il passaggio repentino dall’incazzo per le quasi due ore di ritardo al delirio per nothing really matters. dai fischi alle ovazioni in un nanosecondo. il tormento e l’estasi. #MadonnaCelebrationTourpic.twitter.com/TrAFeqFNzK
— Un cittadino al di sopra di ogni sorbetto (@Jimmuzzu) November 24, 2023
Qua e là il dubbio che la voce fosse pre registrata c’è stato
Diversamente dagli show a cui ci ha abituato negli anni, i brani sono stati riproposti nelle loro versioni originali. E l’impressione è che, rispetto al passato, ci sia stato qualche aiutino in più: qua e là il dubbio che la voce fosse pre registrata c’è stato. Ma questo poco ha importato agli scatenatissimi sostenitori della diva di origine italiana che hanno urlato e ballato per tutto il tempo. Un pubblico variegato, forse più di quello che effettivamente compra i suoi dischi. D’altronde il mercato è cambiato. Il modo di fruire la musica anche. Ma Madonna in città è sempre un evento. Che ha richiamato i fan della prima ora, anche quelli che sono un po’ più attempati dell’artista. Poi c’era la generazione che di lei si è innamorata grazie agli exploit di fine degli Anni 90 e primi Anni 2000 (Frozen, Ray of Light, Music, Hung…). Infine i giovanissimi che, probabilmente, la conoscono in quanto icona e per le canzoni che passano in discoteca, ma che fino alla sera del 23 novembre potrebbero non avere mai sentito brani come Bedtime story, Bad Girl, Rain o quella perla di Mother and Father.
Molti, a prescindere dall’età, hanno provato a omaggiare la regina del pop anche nel look. Tra chi si è comprato le terribili magliettine vendute ai banchetti fuori dal Forum, o quelle, decisamente più decenti, del merchandising ufficiale, chi si è truccato, chi si è vestito replicando gli outfit iconici di Madonna. Insomma, c’era di tutto e di più. Certo, alcuni avrebbero rischiato il linciaggio di Carla Gozzi ed Enzo Miccio. Ma, per quello che la cantante di Like a virgin ha rappresentato e vuole rappresentare, va tutto bene. «Express yourself, don’t repress yourself (Esprimiti, non reprimere te stesso)», cantava come un mantra lei in Human Nature, canzone del 1994 che porta sul palco anche nel The Celebration Tour. Mantra che è un po’ la sua ragione, se non di vita, di carriera.
Le critiche sull’età? Lei le ha sempre bollate come «ageism»
Al netto del fatto che possa piacere o meno, va riconosciuto che – vuoi per provocazione, vuoi per scelte artistiche, vuoi per filosofia di vita – Madonna se ne è sempre infischiata degli haters nelle scelte che ha fatto. Si è sempre espressa, appunto, come riteneva meglio farlo. A volte anche con risultati, forse, non all’altezza. Oggi molti le contestano, per esempio, il fatto che a 65 anni voglia ancora competere con le ragazzine del pop. A livello di look, di attitudine e di stile musicale. Lei ha sempre bollato queste critiche come «ageism», discriminazione in base all’età. E in effetti è così. Per l’immaginario generale può risultare fuori luogo, per esempio, una donna adulta che in un videoclip lecca i piedi a un giovane rapper (come ha fatto lei con Maluma nella clip del brano Medellin). Ma stiamo parlando di una che a inizio Anni 90 ha fatto uscire un libro con foto esplicite intitolato Sex e che col backstage ci ha fatto il video promozionale del brano di punta dell’album che aveva in uscita (Erotica) andando incontro alla censura e a tutti i fastidi promozionali che potevano esserci in un’epoca in cui lo streaming e YouTube non esistevano.
I singoli che lancia non sono all’altezza del suo passato
Il tema vero è che Medellin non è Erotica. E che da anni la maggior parte dei singoli che lancia a livello mainstream non sono all’altezza del suo passato e non sono rappresentativi dei dischi che sa ancora fare (ascoltate per intero il sottovalutato Madame X per ritrovare, qui e là, la voglia di sperimentazione che l’ha contraddistinta per tanti anni). Come non è da sottovalutare che gli anni ci sono e si vedono. L’artista, come è normale che sia, anche a causa di qualche problema fisico, non balla più come negli show del passato in cui la differenza tra lei (che nel frattempo cantava) e i ballerini che la circondavano era impercettibile. Oggi l’unica cosa che ti fa dire chapeau alla Madonna danzante è la consapevolezza della sua età. Come anche la scelta di alcuni outfit può risultare stonata, uno su tutti la tutina e gli occhiali da sole con cui ha chiuso lo spettacolo.
Per qualcuno questo potrebbe essere l’ultimo show mastodontico di Madonna prima della virata verso qualcosa più sostenibile a livello fisico e di immagine. Una virata che, comunque, per molti fan e critici è necessaria. E che la cantante è in grado di fare senza scadere nel banale. Nel 2016 per esempio ha portato in scena in due date esclusivissime Tears of a clown, uno show intimo che lei ha descritto come una fusione di musica, arte e commedia. Vestita da pagliaccio, si è esibita sulle note di una setlist fatta di canzoni che non sempre sono state servite alle radio. Tutte rilette in chiave acustica senza cambi di costume o complicati passi di danza. E l’effetto è comunque stato il classico: «Bitch, she’s Madonna», per citare una sua hit dell’ultimo decennio.
Decine di migliaia di persone hanno preso parte, sabato 25 novembre 2023, al corteo organizzato a Roma in occasione della Giornata internazionale contro la violenza di genere. Volti segnati di rosso, striscioni contro il patriarcato ma anche cartelli e bandiere pro Palestina, la marea fucsia chiamata in piazza da Non una di meno è partita dal Circo Massimo per raggiungere piazza San Giovanni. Presenti anche la segretaria dem Elly Schlein e il sindaco della Capitale Roberto Gualtieri, insieme a tanti volti noti come Fiorella Mannoia, Paola Cortellesi, Malika Ayane, Noemi, Luisa Ranieri, Luca Zingaretti e Ferzan Ozpetec.
Schlein: «Indignazione non basta, bisogna fermare questa mattanza»
«Per Giulia Cecchettin, per tutte: un urlo di battaglia», «Giù le mani dal nostro corpo», «Siamo il grido altissimo e feroce di tutte quelle donne che più non hanno voce». Questi alcuni degli slogan pronunciati o scritti dai manifestanti scortati dalla Polizia. Concetti ribaditi dalla stessa Schlein a margine del corteo: «La repressione non basta, bisogna insistere sulla prevenzione per sradicare la cultura patriarcale. Vogliamo fermare questa mattanza. Questa è una piazza molto bella, è per Giulia, per tutte le donne uccise dalla violenza maschile e per coloro che ogni giorno subiscono altre forme di violenza. È il momento di dire basta e fare un salto in avanti perché non se ne può più». Ha poi ribadito la necessità di contrastare il sistema patriarcale dalle scuole e insistere per rendere obbligatoria l’educazione all’affettività e al rispetto delle differenze in tutti i cicli scolastici.
Di tutt’altro avviso Carlo Calenda, che si è espresso in maniera molto critica sull’evento per l’esplicito sostegno espresso alla Palestina: «Oggi ci saranno centinaia di migliaia di persone in piazza, anche a Roma. Tutta la mia famiglia doveva andare. E ci dovevano andare nel presupposto che questa fosse una grande manifestazione contro la violenza sulle donne e per i diritti delle donne. Il giorno prima della manifestazione, quando ormai pochi lo avrebbero notato, il comitato organizzatore ha fatto uscire una piattaforma odiosa, perché ha quasi più parti contro Israele, contro il governo e contro il capitalismo che contro la violenza sulle donne».
E ancora: «È una manifestazione odiosa perché settarizza un argomento su cui in Italia si sta muovendo un fronte larghissimo e trasversale, e credo che questa è una grande occasione perduta. Gli organizzatori useranno questa partecipazione per promuovere questa piattaforma, e non per promuovere una grandissima spinta verso il completamento di una rivoluzione culturale». Quindi la conclusione: «Questa è una manifestazione anti-occidentale, ma il nemico è quello sbagliato. Perché il femminismo nasce in Occidente grazie alla democrazia liberale che l’Occidente ha inaugurato. L’oppressione vera contro le donne è in molti paesi islamici radicali, a partire da Hamas a Gaza, e poi in Iran e in Arabia Saudita».
Il sostegno di Non una di meno alla Palestina
Il riferimento di Calenda è ad alcune frasi contenute nel documento di Non una di meno comparso sulla piattaforma per promuovere la manifestazione: «Lo stato Italiano deve smetterla di essere complice di genocidi in tutto il mondo e, schierandosi in aperto supporto dello stato coloniale di Israele, appoggia di fatto il genocidio in corso del popolo palestinese». Una presa di posizione ribadita anche al Circo Massimo, con cori come «Meloni fascista complice sionista» e «Israele criminale, Palestina immortale».
Dopo essere atterrato in Italia all’aeroporto Marco Polo di Venezia, Filippo Turetta è stato trasferito al carcere di Montorio Veronese. Al 22enne di Torreglia (Padova), accusato di aver ucciso l’ex fidanzata Giulia Cecchettin, è già stata notificata l’ordinanza di custodia cautelare per omicidio volontario aggravato e sequestro di persona. Il primo passaggio all’interno dell’istituto penitenziario lo farà nel reparto di infermeria, dove l’equipe psicologica e psichiatrica lo sottoporrà ad alcune visite.
Sarà trasferito nella sezione «protetti» per evitare contatti con altri detenuti
Il giovane potrebbe rimanervi qualche giorno prima di essere trasferito nella sezione «protetti», dedicata ai detenuti accusati di reati a «forte riprovazione sociale», come i «sex offender», che prevede che non abbiano alcun contatto, a loro tutela, con detenuti per altre tipologie di reati. Sarà anche sorvegliato a vista 24 ore su 24 in cella singola per evitare gesti autolesionistici. Parlando con i cronisti, la direttrice del carcere di Francesca Gioieni, ha descritto Filippo come «normale, tranquillo». Agli agenti che l’hanno scortato da Francoforte a Venezia, è parso silenzioso, rassegnato e dimesso. Durante il viaggio non avrebbe fatto alcun riferimento all’accaduto.
Nel carcere di Montorio si trova anche Benno Neumair, condannato per l’omicidio dei genitori
Nel carcere di Montorio che da sabato 25 novembre ospita Turetta, è rinchiuso da alcuni mesi anche Benno Neumair, protagonista di un altro caso noto alle cronache. Il ragazzo di 33 anni è stato condannato all’ergastolo dalla Corte d’Appello di Bolzano per il duplice omicidio e l’occultamento dei cadaveri dei genitori Laura Perselli e Peter Neumair. L’uomo era stato trasferito a Montorio dopo il processo di primo grado in attesa del secondo, celebrato il 30 ottobre. Dopo la conferma della condanna, è stato riportato nell’istituto veronese dove attualmente la sta scontando.
Un minuto di rumore con le chiavi, con gli applausi, con le urla, con i fischietti. Si è conclusa così la manifestazione contro la violenza sulle donne a Milano intitolata Il patriarcato uccide. Secondo gli organizzatori hanno partecipato oltre 30 mila persone, tanto che ci sono stati problemi nella piazza davanti al Castello che non riusciva a contenere tutti. «Per Giulia Cecchettin e tutte queste donne non facciamo un minuto di silenzio ma bruciamo tutto», hanno scandito più volte dal palco dopo aver letto i nomi delle oltre 100 vittime di femminicidio del 2023. C’è chi ha portato un palloncino rosso, chi si è messa un berretto, chi ha tracciato sul viso un segno rosso, chi ha messo al braccio un laccio sempre rosso.
Le poesie, la lettera di Elena Cecchettin e i nomi delle vittime di femminicidio nel 2023
La manifestazione ha preso il via con alcune letture dal palco. L’attrice Federica Fracassi ha recitato la poesia Come ero vestita di Mary Simmering, mentre un uomo ha letto un brano per parlare della responsabilità maschile. Gilberta Crispino e Donatella Massimilla, attrici dell’associazione Cetec Fuori e dentro San Vittore, hanno declamato Se domani non torno, poesia diventata nota dopo la morte di Giulia Cecchettin. Poi una ragazza, Beatrice, ha letto la lettera che Elena, la sorella di Giulia, aveva scritto al Corriere delle Sera poco dopo la sua morte. Al termine della lettura, in piazza è calato il silenzio mentre venivano pronunciati i nomi delle oltre 100 donne uccise nel 2023. Sul palco a leggere i nomi sono saliti tra gli altri l’assessore alla Cultura del Comune Tommaso Sacchi e il sindaco Beppe Sala. Quest’ultimo ha letto quello di Giulia Tramontano, la giovane uccisa a Senago dal compagno mentre era incinta del loro bambino alla cui memoria sarà assegnato un Amborgino d’oro.
Presente anche Chiara Ferragni: «È un dovere essere qui»
All’evento hanno preso parte anche volti noti, tra cui l’attore Claudio Santamaria con la moglie Francesca Barra e Chiara Ferragni. L’influencer e imprenditrice, che si è battuta contro la violenza nei confronti della donne anche dal palco di Sanremo, era presente con un cartello con la scritta We should all be feminists, dovremmo tutti essere femministi. Nonostante gli occhiali da sole si è vista la sua commozione quando dal palco sono stati letti i nomi delle donne uccise nel 2023. «È un dovere di tutti quanti essere qui», ha detto. «Sono qui da cittadina e dovremmo esserci tutti in questa piazza oggi. Sì mi sono commossa, penso tutti quanti. È stato un momento importante e sono veramente felice di essere qua. Immagino sia stato per tutti così».
Papa Francesco si è recato all’ospedale Gemelli Isola a Roma per eseguire una Tac volta a escludere il rischio di complicazioni polmonari. Lo ha reso noto la sala stampa della Santa Sede dopo aver comunicato l’annullamento delle udienze previste nella mattinata di sabato 25 novembre per via di un leggero stato influenzale del Pontefice. Il quale avrebbe dovuto ricevere, tra gli altri, il presidente della Guinea Bissau.
Papa Francesco è già tornato a Casa Santa Marta
«Nelle prime ore del pomeriggio Papa Francesco si è sottoposto a una Tac all’Ospedale Gemelli per escludere il rischio di complicazioni polmonari. L’esame ha dato esito negativo e il Papa è rientrato a Casa Santa Marta», si legge nel comunicato. Non è ancora noto se Bergoglio parteciperà agli impegni dei prossimi giorni tra cui l’Angelus di domenica 26 novembre e l’udienza generale di mercoledì 29. Settimana prossima dovrebbe anche volare a Dubai per partecipare alla Cop28.
Nashville, ottobre 1976. Dopo lo show, Zappa chiede all’autista assegnatogli dall’organizzazione di portarlo ad ascoltare un po’ di musica. L’autista lo conduce allora al Fanny’s bar, dove si esibisce il suo gruppo preferito, gli Sweetheart, una cover band che suonava brani inseriti nei Top 40. Sul palco, c’era il 27enne Adrian Belew – era nato a Covington, nel Kentucky, nel 1949 -, maestro di chitarra, ma anche batterista, percussionista, bassista, tastierista, violoncellista, cantante, cantautore (originariamente batterista al liceo, nella sua prima band, The Denems, Belew aveva imparato a suonare la chitarra a 16 anni, usandone una presa in prestito e ascoltando centinaia di dischi, con l’obiettivo di scrivere canzoni proprie). «Lo vidi arrivare dal fondo del locale e fermarsi a osservarci» ha raccontato Adrian Belew in un’intervista a Guitar (febbraio 1994) «cosa che, comprensibilmente, mi rese un po’nervoso. Nel bel mezzo di Gimme Shelter si portò su un lato del palco, si allungò e mi strinse la mano: più tardi si fece dare il mio nome e indirizzo dall’autista e non molto tempo dopo mi telefonò e mi chiese di fare un provino per lui».
Adrian Belew ha avuto modo di esibirsi dal settembre 1977 al febbraio 1978 e suonare in diversi album di Zappa e nei video Baby Snakes e Video From Hell. Nella primavera del 1978 Belew lascia Zappa (facendolo molto incazzare) per suonare con David Bowie. Ecco come la racconta lo stesso Belew: «Nel 1978 feci il mio primo tour in Europa come chitarrista e cantante “stunt” (memorabile la sua imitazione di Bob Dylan in Flakes) per la band di Frank Zappa. La sera in cui abbiamo suonato a Colonia […] Brian Eno era tra il pubblico. Brian sapeva che David Bowie stava cercando un nuovo chitarrista per il suo prossimo tour. Lo ha chiamato […] e gli ha detto che doveva venire a vedere il chitarrista della band di Frank. La sera dopo ci siamo esibiti a Berlino. Mentre Frank faceva un lungo assolo, la maggior parte dei membri della band, me compreso, ha lasciato il palco per qualche minuto. Mentre camminavo verso il retro del palco, ho guardato il mixer del monitor e ho visto David Bowie e Iggy Pop in piedi lì». Bowie propone a Belew di vedersi a cena: «Quanti ristoranti ci sono a Berlino? 25 mila?», dice Adrian. «Siamo arrivati al ristorante, siamo entrati […] e chi c’era seduto al primissimo tavolo se non Frank Zappa con il resto della band?! … Allora ci siamo seduti con loro. David, cercando di essere cordiale, mi ha fatto un cenno e ha detto: “Hai qui un chitarrista molto bravo, Frank”. E Frank: “Vaffanculo capitano Tom!” […] David insiste: “Oh andiamo Frank, possiamo di sicuro discuterne garbatamente” e Frank “Vaffanculo capitano Tom!”. A questo punto ero paralizzato. David ci riprova: “Quindi davvero non hai niente da dire?” e Frank: “Vaffanculo capitano Tom!”. David e io ci siamo alzati e siamo usciti. Salendo sulla limousine, David, col suo modo meravigliosamente britannico, ha detto: “Penso che sia andata piuttosto bene!”» (per la cronaca, il maggiore Tom, degradato da Frank a capitano, è il protagonista di Space Oddity e gira, in proposito, anche una vignetta molto carina: Bowie e Zappa si incontrano in cielo, sono seduti su due nuvolette; David chiede «Ancora arrabbiato?» e Frank: «Vaffanculo capitano Tom!»). Quella con Bowie è solo la prima di una lunga serie di prestigiose collaborazioni di Adrian con grandi nomi del rock, tra cui i King Crimson e i Talking Heads, passando per GaGa, Tom Tom Club, The Bears, Nine Inch Nails, Gizmodrome.
Otto pollici. Warren Cuccurullo
Nato a Brooklyn nel 1956, primo dei quattro figli dei signori Jerry e Ellen, come rivela il cognome Warren Cuccurullo aveva chiaramente origini italiane: il nome gli derivava proprio dal nonno paterno Guerino, originario di Nocera inferiore. A nove anni aveva iniziato a suonare la chitarra e la batteria, optando poi definitivamente per la prima. Era un super fan di Frank Zappa, e, dal 1975 al 1977, non si era perso un concerto, viaggiando in su e in giù lungo la East Coast; imparando, nello stesso tempo, a suonarne i brani alla chitarra… Il suo debutto avvenne al concerto di Halloween del 1978, al Palladium di New York, ma fu una sorta di ospitata. Verso la fine dello stesso anno, Warren riceve una telefonata da Zappa, che gli parla dell’imminente tour europeo e gli chiede se vuole fare un provino. «Il giorno dopo» ha raccontato Cuccurullo «partì per la California e senza quasi neanche rendermene conto mi trovai a suonare sul palco dell’Hammersmith Odeon di Londra. Dalla cantina direttamente alle luci della ribalta». Con il tour del 1979, insomma, Warren è diventato membro della band a pieno titolo…Nel 1981, con Terry Bozzio, costituisce il già citato gruppo dei Missing Persons e, nel 1986, inizia a collaborare con i Duran Duran, di cui diviene membro effettivo nel 1989 (e vi rimarrà fino al 2001), prima di dedicarsi ad altri progetti…Parallelamente all’ambito musicale, Warren Cuccurullo ha poi coltivato anche altri interessi, diciamo piuttosto curiosi. Da quello gastronomico a quello…dell’esibizionismo erotico e pornografico. Per quanto riguarda la gastronomia, nel 2002 Cuccurullo ha acquistato un ristorante a Santa Monica, ribattezzato “Via Veneto” in onore delle sue radici italiane. Per quanto riguarda l’altro ambito, beh, diciamo che la sua avventura è iniziata nel 2000, quando il chitarrista ha accettato di comparire nudo su una rivista gay brasiliana, G Magazine. Le foto, alcune delle quali lo mostravano col pene eretto, sono diventate, si direbbe oggi, «virali» sul web; vero e proprio oggetto di culto e di scambio…Nel 2002, Cuccurullo ha avviato anche un’attività imprenditoriale nel settore dei sex toy. Prima realizzazione il Rock Rod, un vibratore perfettamente modellato sulla forma e sulle dimensioni del suo pene: otto pollici (che, in centimetri, ve lo dico io così vi risparmio la googlata, fa poco meno di ventuno).
Il classico stronzo erudito. Kent Nagano
Kent Nagano è un’altra eccezione alla regola che ho deciso di inserire qui (non ha infatti suonato con Zappa, ma lo ha diretto), ma se avrete la pazienza di leggere le prossime righe, capirete perché non si poteva tralasciare.Nato nel 1951 a Berkeley, nippo-americano di terza generazione, Nagano ha studiato sociologia e musica presso l’Università della California di Santa Cruz, poi musica alla San Francisco State University e, dopo aver frequentato i corsi di composizione diretti da Grosvenor Cooper e Roger Nixon, ha studiato presso l’Ecole Normale de Musique di Parigi. Impossibile riassumere qui la sua straordinaria carriera di direttore d’orchestra e direttore musicale. Nei primi Anni 80, mentre dirige la Berkeley Symphony Orchestra, viene a sapere che l’altro grandissimo direttore e compositore, Pierre Boulez, si apprestava a dirigere un’opera di Zappa (la citata The Perfect Stranger) che il maestro gli aveva appositamente commissionato. Nagano rimane sorpreso e spiazzato, dato che, dirà, aveva sempre considerato Frank un musicista rock; d’altra parte, è anche molto curioso, perché, racconterà sempre il maestro, se in generale è già un grande onore per un compositore sentirsi chiedere di comporre qualcosa per un ensemble, figuriamoci se quell’ensemble è diretto da Pierre Boulez. E così, nel dicembre 1981, avendo saputo che Zappa si sarebbe esibito a San Francisco, decide di contattarlo per poter visionare alcune partiture. Zappa invita allora Nagano nel backstage del concerto e gli mostra le partiture, anzi gliele lascia portare a casa. Risultato, Kent Nagano, nel novembre 1983, dirigerà la London Symphony Orchestra eseguendo musiche di Zappa al Barbican Theatre di Londra. Ma ecco come ha raccontato la vicenda a Dan Forte lo stesso Nagano: «Ho contattato la direzione di Frank e l’ho incontrato nel backstage quando ha suonato al Berkeley Community Theater, alla fine del 1981. Mi ha mostrato una partitura e ha detto: “Questo è quello che faccio.” Così mi sono seduto lì e ho dato un’occhiata, ed è stato un colpo semplicemente fantastico.
Certo, non era una cosa che potevo facilmente guardare standomene lì seduto. Era roba molto sofisticata; non riuscivo nemmeno a sentirla in testa – dovevo portarla a casa e provarla al pianoforte. Così me l’ha prestata per studiare, e me ne ha date un paio di altre. Mi ci è voluto molto tempo solo per digerire la cosa. Tieni presente che io sono il classico stronzo erudito, troppo istruito, con un pesantissimo background teorico. Ma ero anche molto eccitato. Per uno come me, che visionava, senza esagerare, forse 50 o 60 partiture nuove di zecca all’anno, è stato davvero piacevole leggere dei fraseggi così raffinati. Perciò ho chiamato Frank e gli ho spiegato che mi sarebbe piaciuto eseguire i pezzi… Il risultato lo potete ascoltare in London Simphony Orchestra, Voll. I & II (1995)… «Frank è un genio» dirà Nagano.«Questa è una parola che non uso spesso… Ma nel suo caso, non è eccessiva… È estremamente istruito musicalmente. Non sono sicuro che il grande pubblico lo sappia. Non è proprio pop, ma è una pop star, non ha fatto proprio rock, ma è pur sempre una rock star, non è nemmeno proprio jazz, ma si è comunque circondato di musicisti jazz. Alla fine non era proprio un “compositore serio”, ma ha studiato le opere di Nicolas Slonimsky, Edgard Varèse, ecc. Non si può proprio inserire in nessuna categoria».
«I nostri occhi sono aperti per monitorare e cercare costantemente qualsiasi nave israeliana nel Mar Rosso». Lo ha detto Abdul Malik al-Houthi, leader degli Houthi, il partito-milizia sciita che dal 2014 controlla con la forza gran parte dello Yemen ed è considerato membro di quell’asse della resistenza tanto invocato dall’Iran per fronteggiare «il nemico sionista» insieme con Hezbollah in Libano. Dopo diversi missili e droni armati lanciati dagli Houthi verso Israele in seguito all’inizio della nuova guerra con Hamas, una nave commerciale che solcava il Mar Rosso, la Galaxy Leader, è stata assaltata da un commando del gruppo che l’ha dirottata in un porto yemenita con tutto il suo equipaggio.
Sebbene l’imbarcazione si sia poi rivelata solo parzialmente legata a un imprenditore israeliano, l’accaduto ha reso credibili le minacce del gruppo ribelle filo-iraniano a Israele – nonostante gli oltre 2 mila chilometri di distanza – e aumentato le domande intorno alle sue strategie e ai suoi obiettivi. Le frasi «morte all’America e morte a Israele» fanno parte da tempo degli slogan del gruppo e campeggiano anche sugli stendardi esposti durante grandi manifestazioni e parate militari in Yemen, ma chi sono e cosa vogliono gli Houthi, impegnati dal 2014 in un conflitto civile e regionale?
Da dove vengono gli Houthi: movimento fondato nel 1992
Il vero nome della milizia armata è Ansar Allah, i partigiani di Allah, mentre l’appellativo Houthi, utilizzato solo in un secondo momento, si deve alla famiglia che fondò il movimento nel 1992: Hussein al-Houthi, primo leader del gruppo, e suo padre, Badreddine al-Houthi, considerato il capo spirituale gruppo. Gli Houthi appartengono al ramo dell’islam sciita degli Zayditi, movimento che prende il nome da Zayd, figlio del quarto imam sciita Zayn al-Abidin e autore della rivolta di Kufa del 740 dopo Cristo contro il potere omayyade. Si tratta di una corrente moderata dal punto di vista giurisprudenziale, e per alcuni versi anche vicina ai sunniti, ma estremista a livello politico, visto che prevede la messa in discussione dell’autorità anche con la forza, se necessario. Il gruppo yemenita è poi caratterizzato dalla mancanza di una struttura verticistica.
Le Primavere arabe che nel 2011 e lo scontro che sale di tono
Guidato da Hussein al-Houthi negli Anni 90, Ansar Allah acquisì seguaci soprattutto tra i giovani nel Nord-Ovest dello Yemen e diventò in breve tempo un’importante forza nel Paese. Nonostante inizialmente abbia avuto il tacito sostegno del presidente Ali Abdullah Saleh, dopo la riunificazione dello Yemen Ansar Allah fu protagonista di diverse e violente rivolte antigovernative tra il 2004, anno dell’uccisione di Hussein, e il 2010. Sulla scorta delle Primavere arabe che nel 2011 infiammarono il Medio Oriente e il Nord Africa, attecchendo anche in Yemen, Saleh si convinse a lasciare il potere dopo 33 anni in favore del suo vice Abd Rabbo Mansour Hadi. Il cambio al vertice e i successivi negoziati per una nuova costituzione e una transizione politica non accontentarono però gli Houthi che continuarono a riempire le piazze alzando i toni dello scontro.
L’intervento dell’Arabia Saudita assieme a una coalizione sunnita
A partire dal 2014, dalla propria roccaforte di Saada, il gruppo prese con la forza il controllo di gran parte del Nord e di altri grandi centri abitati, come la capitale Sana’a, costringendo nel 2015 il governo riconosciuto a livello internazionale a scappare e a stabilirsi ad Aden, nel Sud del Paese. L’avanzata del gruppo sciita, nel mezzo di forti tensioni tra Riad e Teheran, spinse nel marzo dello stesso anno l’Arabia Saudita a intervenire a fianco di Hadi insieme a una coalizione formata da altri Paesi sunniti dell’area, come Emirati Arabi, Sudan e Bahrain. L’intervento servì a evitare che l’avanzata Houthi proseguisse e a contendere il controllo del porto di Hodeidah sul Mar Rosso, ma non provocò una rapida sconfitta dei ribelli, come sperato. Anzi, finì per impantanare Riad e i suoi alleati in un conflitto che da oltre otto anni sembra senza via di uscita.
Ai ribelli gli armamenti contrabbandati dall’Iran
Lo Yemen divenne il maggior teatro dello scontro tra l’Arabia Saudita e Iran, a causa al sostegno diplomatico di Teheran alla «rivoluzione popolare» Houthi contro il governo appoggiato da Riad. L’Arabia in questa guerra ha potuto contare sugli armamenti forniti dagli Stati Uniti mentre gli Houthi su quelli contrabbandati dall’Iran, nonostante i ribelli abbiano sempre negato il sostegno diretto da parte della Repubblica islamica. In ogni caso, gli Houthi hanno spesso dimostrato le loro capacità militari, in particolare quelle del loro programma missilistico, colpendo l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti con droni e razzi. Gli attacchi hanno preso di mira infrastrutture petrolifere e civili con l’obiettivo di rendere sempre più impopolare il conflitto tra i sauditi e gli emiratini.
La coalizione nel tempo ha perso qualche pezzo con i ritiri di Egitto e Qatar, mentre le conquiste di tutte le parti in campo si sono cristallizzate. Il Nord e l’Ovest sono tuttora sotto il dominio degli Houthi, con le regioni centrali, dell’Est e del Sud controllate dalla coalizione a guida saudita e dal governo; a Sud è forte anche la presenza dei separatisti del Consiglio di transizione meridionale (Stc) appoggiati dagli Emirati Arabi, mentre in alcune zone dell’Est rimangono sacche di jihadisti di al Qaeda nella Penisola arabica (Aqap), che sono attivi nel Paese almeno dal 2011 e hanno prosperato nel caos del conflitto.
La peggiore crisi umanitaria provocata dall’uomo al mondo
Dal 2015 la guerra ha causato quella che è stata definita la peggiore crisi umanitaria provocata dall’uomo al mondo. Centinaia di migliaia di yemeniti sono stati uccisi e circa quattro milioni di persone hanno lasciato le loro case. Secondo le Nazioni Unite, 21,6 milioni di persone nel Paese necessitano di assistenza umanitaria e l’80 per cento della popolazione fatica a mettere il cibo in tavola. Per risolvere il conflitto da qualche anno sono state tentate diverse iniziative diplomatiche. La più importante ha portato a una tregua mediata dalle Nazioni Unite nell’aprile 2022 che è rimasta in gran parte rispettata anche dopo essere formalmente scaduta in ottobre. In seguito all’accordo di disgelo tra Iran e Arabia Saudita siglato ad aprile grazie alla mediazione cinese, i combattimenti sono diminuiti ancora di intensità e la guerra è sembrata vicina a una fine. L’incontro avvenuto lo stesso mese a Sana’a tra leader sauditi e Houthi è stato il simbolo di questa possibile svolta che però non si è ancora concretizzata.
Se l’Arabia Saudita sembra voler uscire in maniera dignitosa dal conflitto ed è più disponibile a trattare, gli Houthi, dopo due decenni di guerra e guerriglia, non appaiono allo stesso modo disposti a fare accordi senza ottenere grandi concessioni. La nuova instabilità in Medio Oriente, dicono diversi analisti, potrebbe essere cavalcata dai ribelli yemeniti proprio per fare pressione su Riad e trattare da una posizione di forza, rischiando però di complicare una volta di più la pace.
È un weekend caratterizzato dal freddo quello del 24-25 novembre 2023, con vento di Foehn forte verso la Pianura Padana, tempeste e raffiche al Centro-Sud con mareggiate sulle coste esposte. E ancora, neve fino a 400-700 metri sull’Appennino centro-meridionale e crollo delle temperature anche di 10-12 gradi con notti sotto zero a Firenze e Roma. Tutte caratteristiche di un inverno anticipato secondo l’analisi di Mattia Gussoni, meteorologo del sito www.iLMeteo.it, che conferma l’arrivo di «una delle più importanti e veloci irruzioni di aria artica degli ultimi tempi in Italia». Il freddo dovrebbe restare imprigionato al Nord per una settimana.
Raffiche di vento a oltre 800-100 km/h
Non si escludono deboli fioccate anche in Pianura Padana e gelate estese, in una prima fase, anche alle pianure del Centro. Al Sud avremo neve sulle montagne fino ai 700-1.000 metri e tanto maltempo con piogge a tratti anche persistenti tra Calabria e Puglia. Il freddo sarà accentuato dal forte vento e dall’effetto wind-chill, il raffreddamento causato appunto dal vento. Le temperature percepite, ha spiegato Gussoni, scenderanno a causa delle raffiche a oltre 80-100 km/h attese sui crinali ma localmente anche in pianura, soprattutto nelle zone raggiunte dal Foehn e dalla Tramontana più sostenuta.
Settimana ancora sotto zero al Nord
Domenica 26 novembre il maltempo abbandonerà il Sud dove il tempo tornerà asciutto, ma il risveglio sarà gelido ovunque. La nuova settimana sarà ancora sotto zero al Nord, mentre al Centro-Sud aria molto umida proveniente da Ovest porterà piogge e un graduale rialzo termico. Da lunedì 27 gradualmente leggero rialzo delle temperature al Centro-Sud e nella giornata di martedì 28 potrebbero presentarsi piogge torrenziali sul Centro-Basso Tirreno, ma neve solo sulle cime più alte dell’Appennino. Pressione in calo e tempo instabile anche all’inizio di dicembre.
Tragedia in via di Donna Olimpia, a Roma, dove una donna di 81 anni è morta dopo essere stata travolta da un albero caduto sul marciapiede su cui stava camminando. Con lei anche il figlio, illeso ma sotto shock. I fatti si sono verificati intorno alle 10.30 di sabato 24 novembre 2023 all’altezza del civico 60.
Tra le possibili cause del crollo il forte vento che si è abbattuto sulla città
Secondo quanto ricostruito, l’anziana sarebbe rimasta schiacciata dalla pianta, caduta all’improvviso, con ferite gravissime soprattutto alle gambe. I soccorsi sono intervenuti con due ambulanze subito dopo l’allarme, ma purtroppo non hanno potuto far altro che constatare il suo decesso. Sul posto sono giunti anche polizia, vigili urbani, pompieri e il sindaco della città Roberto Gualtieri. La strada è stata chiusa al traffico per consentire l’intervento delle forze dell’ordine. Al momento non si conoscono le cause che hanno provocato la caduta dell’albero, ma potrebbero essere legate al forte vento che si è abbattuto sulla Capitale o a infiltrazioni d’acqua causate dalla pioggia caduta nei giorni precedenti.
La Lega: «Una tragedia annunciata»
Sulla vicenda sono intervenuti diversi esponenti politici locali che hanno denunciato una mala gestione del patrimonio arboreo capitolino. Così Fabrizio Santori, capogruppo della Lega in Campidoglio: «Ci stringiamo intorno alla famiglia della signora scomparsa. Al sindaco Roberto Gualtieri chiediamo di aprire un serio e continuativo confronto con le associazioni di tutela del verde che denunciano una gestione del patrimonio arboreo capitolino poco chiara e molto costosa che merita di essere approfondita per evitare tragedie come questa e allo stesso che non permetta il taglio indiscriminato di alberi sani». Gli hanno fatto eco Giovanni Picone, capogruppo della Lega nel XII Municipio e Valeria Campana, coordinatrice del XII municipio: «Sono mesi purtroppo che alberi di primaria grandezza si schiantano su persone, automobili e ciclomotori attentando la vita di numerose persone. E questo purtroppo è stato fatale. Con l’ondata di maltempo viene per l’ennesima volta messa in crisi la città e la vita dei residenti. Questo è il definitivo fallimento della gestione e monitoraggio delle alberature soprattutto su questo territorio che conta, in pochi mesi, solo oggi almeno quattro crolli di alberi ad alto fusto. È preoccupante il ritardo nell’affidamento dei bandi, le risorse assolutamente esigue e una gestione disorganizzata del monitoraggio e delle potature».
Le autorità israeliane hanno annunciato che sabato 24 novembre 2023 libereranno 42 detenuti palestinesi mentre Hamas rilascerà 14 ostaggi tenuti a Gaza. I termini dell’accordo raggiunto prevedono la scarcerazione di tre palestinesi per ogni israeliano liberato, insieme a una tregua di quattro giorni entrata in vigore venerdì 23. Secondo quanto riportato dal portale Ynet, alcuni funzionari dello Stato ebraico hanno reso noto che tra i cittadini israeliani che verranno rilasciati ci sono otto bambini.
Venerdì 23 novembre erano stati liberati 24 israeliani
Il giorno prima Hamas aveva liberato 24 sequestrati, tra cui 13 israeliani, 10 thailandesi e un filippino. La tv pubblica israeliana Kan ha diffuso la lista ufficiale dei nomi: Doron Katz Asher, 34 anni; Aviv Asher, due anni; Raz Asher, quattro anni; Daneil Alloni, 45 anni; Emilia Alloni, sei anni; Keren Monder, 54 anni; Ohad Monder, nove anni; Ruthi Monder, 78 anni; Yaffa Aadar, 85 anni; Margalit Mozes, 77 anni; Hanna Katzir, 77 anni; Adina Moshe, 72 anni; Hanna Perri, 79 anni. Si tratta di tre bambine, un bambino e nove donne.
Biden ringrazia i leader di Qatar, Egitto e Israele
Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha commentato così l’inizio della tregua tra le parti: «La liberazione degli ostaggi a Gaza è solo l’inizio. Ci aspettiamo che altri siano rilasciati domani e dopodomani. Siamo grati per le famiglie che oggi si sono potute riunire con la liberazione degli ostaggi a Gaza dopo quasi 50 giorni». L’inquilino della Casa Bianca ha dunque ringraziato i leader di Qatar, Egitto e Israele per l’accordo che ha consentito la loro liberazione e ribadito che «la soluzione a due Stati in Medio Oriente è ora più importante che mai».
In occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha espresso la necessità di un contributo delle istituzioni e delle associazioni del mondo produttivo, della scuola e della cultura a «sradicare un fenomeno che tradisce il patto su cui si fonda la nostra stessa idea di comunità». Una società umana ispirata a criteri di civiltà non può infatti «accettare né sopportare lo stillicidio di aggressioni alle donne, quando non il loro assassinio».
Mattarella: «Violenza contro le donne piaga che non si riesce a guarire»
«Drammatici fatti di cronaca scuotono le coscienze del Paese. La pena e il dolore insanabili di famiglie e di comunità ferite sono lo strazio di tutti». Inizia così il messaggio del capo dello Stato in occasione del 25 novembre, una giornata che «richiama tutti a un rinnovato, personale, impegno». Perché «quando ci troviamo di fronte a una donna uccisa, alla vita spezzata di una giovane, a una persona umiliata verbalmente o nei gesti della vita di ogni giorno, in famiglia, nei luoghi di lavoro, a scuola, avvertiamo che dietro queste violenze c’è il fallimento di una società che non riesce a promuovere reali rapporti paritari tra donne e uomini». «Non soccorrono improvvisate analisi di psicologia sociale a giustificare la persistenza di una piaga che non si riesce a guarire nonostante gli sforzi. Il numero di donne vittime di aggressioni e sopraffazioni è denuncia stessa dell’esistenza di un fenomeno non legato soltanto a situazioni anomale. A esso non possiamo limitarci a contrapporre indignazioni a intermittenza», ha continuato.
«Non c’è amore senza rispetto e senza l’accettazione dell’altrui libertà»
E ancora: «Siamo lontani dal radicamento di quel profondo cambiamento culturale che la nostra Carta costituzionale indica. Un percorso in cui le donne e gli uomini si incontrano per costruire insieme un’umanità migliore, nella differenza e nella solidarietà, consapevoli che non può esserci amore senza rispetto, senza l’accettazione dell’altrui libertà. Una via in cui le donne conquistano l’eguaglianza perché libere di crescere, libere di sapere, libere di essere libere, nello spirito della Convenzione di Istanbul, alla quale ha aderito l’Unione Europea, segno importante di una visione universale di autodeterminazione e dell’eguaglianza dei diritti delle donne e passaggio decisivo nel delineare il quadro degli interventi contro la violenza di genere».
I sindacati di base hanno deciso di annullare lo sciopero del trasporto pubblico locale di lunedì 27 novembre e spostarlo al 15 dicembre. Lo hanno comunicato in una nota dopo che, come già fatto per l’agitazione del 17 novembre, il ministro dei Trasporti Matteo Salvini aveva firmato la precettazione riducendo l’astensione dal lavoro da 24 a quattro ore. Una mossa, hanno lamentato Adl Cobas – Cobas Lavoro Privato – SGB – CUB Trasporti – Usb Lavoro Privato, «tutt’altro che inaspettata e grave da parte del vicepremier, interprete da padrone delle ferriere dell’art. 8 della L.146/90».
I sindacati: «Da Salvini motivazioni ridicole per giustificare la precettazione dello sciopero»
Le sigle hanno evidenziato che «le motivazioni addotte da Salvini per giustificare la precettazione, un potere del ministro che la legge prevede solo per situazioni eccezionali, sono invece ridicole e suonano come un vero e proprio oltraggio all’esercizio di un diritto costituzionale». E ancora: «Va sottolineato come questo sciopero sia stato indetto più di un mese fa, prima persino di quello di Cigl e Uil, nel pieno rispetto delle più restrittive norme in Europa per l’effettuazione di uno sciopero. Significativo a tale proposito il fatto che la Commissione di garanzia non ha mosso il benché minimo rilievo alla proclamazione dello sciopero».
«Il problema è diventato politico»
Dunque la rinuncia e la sfida: «È ormai evidente che il problema è diventato politico. Accettare la riduzione imposta nell’ordinanza sarebbe a nostro avviso come fare propria l’idea che un ministro consideri il diritto di sciopero alla stregua di una propria concessione ai sindacati, tanto da considerarne eccessiva la durata di 24 ore. Per questo motivo, abbiamo deciso di rifiutare la riduzione e spostare lo sciopero nazionale di 24 ore di tutto il trasporto pubblico locale al 15 dicembre, sfidando il ministro Salvini sul terreno dei diritti costituzionali».
Dopo essere stato arrestato in Germania domenica 19 novembre 2023, all’indomani del ritrovamento del corpo senza vita di Giulia Cecchettin, Filippo Turetta arriverà in Italia intorno alle 12 di sabato 24. Partito intorno alle 6 dal carcere di Halle, dopo 384 chilometri di viabilità ordinaria e autostradale dovrebbe arrivare intorno alle 10 a Francoforte. Qui lo attendono le forze dell’ordine italiane, che lo porteranno nel nostro paese dove dovrà rispondere dell’omicidio dell’ex fidanzata.
L’arrivo a Venezia e il trasferimento a Montorio Veronese
Alle ore 10.45, con un volo speciale italiano, Filippo partirà infatti dal settore sicurezza dell’aeroporto in direzione Venezia. L’atterraggio del Falcon 900 dell’Aeronautica al Marco Polo di Tessera è stimato per le 12. Dopo la notifica dell’ordinanza di custodia cautelare negli uffici della polizia di frontiera, intorno alle 12.30 lo Scip affiderà il ragazzo ai carabinieri di Venezia, che lo porteranno nel carcere di Montorio Veronese. La scelta dell’istituto (in un primo momento si era ipotizzata la detenzione al Santa Maria Maggiore) è stata fatta «per vigilare su possibili rischi autolesivi». La casa circondariale veronese dispone infatti di una sezione per i cosiddetti “protetti”. Il Due Palazzi di Padova potrebbe invece diventare la sede successiva a questa fase cautelare.
Sessant’anni fa esatti, la mattina del 22 novembre 1963, John Fitzgerald Kennedy veniva assassinato a Dallas davanti a 150 mila persone. Due colpi di arma da fuoco colpirono mortalmente il presidente degli Stati Uniti mentre, a bordo della sua limousine, percorreva il centro della città texana alla testa di un corteo di automobili. Ci sono immagini che restano scolpite nella memoria della gente, immagini che segnano un’epoca. Quella di JFK, con il cervello esploso, accasciato sui sedili dell’auto presidenziale tra le braccia di sua moglie Jacqueline, che lo stringeva a sé nell’istintivo gesto di metterlo al riparo e tamponare il sangue che scorreva, è sicuramente una di quelle.
Per quanto mi riguarda i ricordi legati alla famiglia Kennedy sono sempre stati orientati però verso due altre immagini altrettanto iconiche che riguardano entrambe John Kennedy Junior, per tutti semplicemente John John. Una lo ritrae all’età di due anni mentre gioca, nascosto sotto la scrivania del padre, nello studio ovale della Casa Bianca; l’altra è quella di lui in piedi, ancora bambino, che fa il saluto militare al funerale di suo papà, pochi giorni dopo i tragici fatti di Dallas. Sarà per il contrasto tra le due fotografie, rappresentanti simbolicamente il prima e il dopo, sarà per la mia istintiva empatia nei confronti degli orfani, ma queste due immagini questa settimana mi sono tornate spesso in mente mentre tv e giornali celebravano il sessantennale della scomparsa di JFK. Lo stesso John John, con la moglie Carolyn Bessette, in una notte di luglio dell’estate 1999 precipitò con il suo aereo, inabissandosi nelle acque dell’oceano al largo delle coste di Martha’s Vineyard vicino alla villa di famiglia di Cape Cod, perdendo la vita a soli 38 anni e alimentando a sua volta quella che da sempre i media hanno chiamato “la maledizione dei Kennedy”.
«Piangiamo», disse Edward, sul feretro del fratello Robert (morto anche lui in seguito a un attentato, nella famosa sparatoria nella hall dell’Hotel Ambassador di Los Angeles), «per ciò che sarebbe potuto essere e invece non è stato». Frase che mi perseguita giorno e notte da quando ho età per ricordare, costretto a fare i conti fin da cucciolo con l’ombra di una sciagura sempre in agguato. Lo diceva spesso anche mio zio Nando che le tragedie della nostra famiglia somigliavano in qualche modo a quelle dei Kennedy, o degli Agnelli, e negli ultimi anni di vita aveva iniziato a ripeterlo anche mio padre, asserragliato nella sua solitudine in compagnia di un nutrito numero di demoni, nella palazzina a due piani in via Visconti a Macherio. L’elenco dei drammi in cui siamo stati coinvolti in effetti è abbastanza sterminato e probabilmente è questo uno dei motivi per cui ultimamente ho deciso di raccontare tutto in un romanzo che però al momento non mi riesce in nessun modo di scrivere.
«Piangiamo», disse Edward sul feretro del fratello Robert, morto anche lui in seguito a un attentato, «per ciò che sarebbe potuto essere e invece non è stato». Frase che mi perseguita giorno e notte da quando ho età per ricordare, costretto a fare i conti fin da cucciolo con l’ombra di una sciagura sempre in agguato
E così, cercando di tornare in contatto con il me ragazzo inseguendo una specie di strampalata autoterapia, mi ritrovo a spendere un sacco di soldi in vinili dei Daft Punk, di Fatboy Sim, dei Chemical Brothers, oppure in Nike Air Jordan in edizione limitata, in romanzi di Ellroy o di Don De Lillo comprati alla Rizzoli in galleria, in mocassini college e a osservarmi dall’esterno il pomeriggio, seduto davanti allo schermo nero del computer in salotto, con i dischi di Bob Dylan in sottofondo (io che non l’ho mai ascoltato in vita mia) e i romanzi di Lawrence Osborne da recensire per i quotidiani, appoggiati sulla scrivania a prendere polvere, facendo il possibile per evitare tutti gli appuntamenti e rifiutare gli inviti alle feste di compleanno degli amici domandandomi: «Che si va a fare ai party se non si può scopare?». «Un libro, un romanzo, è un sogno che chiede di essere scritto nello stesso modo in cui ci s’innamora di qualcuno: il sogno diventa irresistibile, non c’è niente che tu possa fare, e infine cedi e soccombi anche se il tuo istinto ti dice di battertela a gambe perché potrebbe trattarsi, dopotutto, di un gioco pericoloso in cui qualcuno probabilmente si farà male», scrive in apertura di Le scheggeBret Easton Ellis, l’autore dell’ultimo romanzo che ho letto. Da quando l’ho finito non penso altro, sopraffatto dalla voglia di scrivere, circondato da drammi, tragedie, incidenti, morti premature, arresti, fughe, bancarotte e lunghe agonie. «Chi scrive oggi, a parte Ellis, le storie di queste famiglie?», mi ha chiesto un tizio l’altra sera mentre dietro al banco del bar gli servivo un bicchiere di rosso. «Forse Edward St. Aubyn. E poi ci sono io, hombre», gli ho risposto.
Ogni anno la marcia del 25 novembre porta in piazza il dolore delle donne vittime di femminicidio. Ogni anno. Lo fanno le associazioni, le reti, le attiviste e le studiose che non hanno mai avuto bisogno di un eclatante caso di cronaca per motivarsi. I centri antiviolenza e le associazioni sanno bene che ciò che è accaduto a Giulia Cecchettin si ripete con cadenza quasi quotidiana (una donna vittima di femminicidio ogni tre giorni, dicono le statistiche) nei diversi luoghi del Paese, nei diversi contesti sociali e nelle diverse modalità che un assassino può immaginare per mettere fine alla donna che ritiene sua. È innegabile però che questa giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne sia circondata da un vento nuovo se non per chi manifesta almeno per chi di quella marcia non può non accorgersene. È troppo intenso il doloroso dibattito sull’assassinio di Filippo Turetta per concedersi di rimanere nel posto degli spettatori. Costretti a dare voci alle donne che di solito non hanno voce, i media hanno scoperchiato una sopraffazione sistemica che parte ben prima dell’ammazzamento e che nella maggioranza dei casi non si spinge fino all’epilogo luttuoso pur manifestando una violenza che è il vero tema.
Se si negano il patriarcato e la sopraffazione maschile è impossibile condividere la definizione di femminicidio
Come proponeva Luca Sofri su X si potrebbe fare un patto: chi non riconosce l’allarme del femminicidio in Italia può essere benissimo trattato come un terrapiattista. In maniera anti scientifica anche lui dimostrerà di non conoscere le basi, scambierà il femminicidio per il semplice omicidio di una donna, senza avere studiato. Del resto nel momento in cui si negano il patriarcato e la sopraffazione maschile sarebbe impossibile condividerne la definizione. Dice il dizionario: «Qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuarne la subordinazione e di annientarne l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte».
Come scriveva la femminista Marcela Lagarde «nel femminicidio c’è volontà, ci sono decisioni e ci sono responsabilità sociali e individuali»
L’antropologa Marcela Lagarde, rappresentante del femminismo latinoamericano e tra le prime teorizzatrici del concetto di femminicidio nel 1997 scriveva: «Il femminicidio implica norme coercitive, politiche predatorie e modi di convivenza alienanti che, nel loro insieme, costituiscono l’oppressione di genere, e nella loro realizzazione radicale conducono alla eliminazione materiale e simbolica delle donne e al controllo del resto. Per fare in modo che il femminicidio si compia nonostante venga riconosciuto socialmente e senza perciò provocare l’ira sociale, fosse anche della sola maggioranza delle donne, esso richiede una complicità e un consenso che accettino come validi molteplici principi concatenati tra loro: interpretare i danni subiti dalle donne come se non fossero tali, distorcerne le cause e motivazioni, negarne le conseguenze. Tutto ciò», continuava Lagarde, «avviene per sottrarre la violenza contro le donne alle sanzioni etiche, giuridiche e giudiziali che invece colpiscono altre forme di violenza, per esonerare chi esegue materialmente la violenza e per lasciare le donne senza ragioni, senza parola, e senza gli strumenti per rimuovere tale violenza. Nel femminicidio c’è volontà, ci sono decisioni e ci sono responsabilità sociali e individuali».
Perché un asse femminile tra Meloni e Schlein è improbabile
Quanti dei commentatori sono consapevoli che si stia parlando di questo? Ecco, appunto. Mentre si moltiplicano le voci che augurano un asse femminile (che sia femminista non ci crede nessuno, non ci spera nessuno) tra la presidente del Consiglio Giorgia Meloni e tra la segretaria del Partito Democratico Elly Schlein sarebbe il caso di essere consapevoli che le soluzioni condivise di un problema sono possibili quando se ne condividono le cause. È un passaggio logico fondamentale per non scadere nella retorica. Ogni anno la marcia dl 25 novembre porta in piazza il dolore delle donne vittime di femminicidio. Ogni anno. Nel corso degli anni sono state elaborate le proposte di soluzioni che quasi sempre la politica non ha voluto ascoltare. Non si discute solo di come eliminare le uccisioni, si discute di come eliminare anche tutto quello che viene prima, le sopraffazioni di ogni ordine e grado. Se qualcuno non è d’accordo con questo punto centrale il dialogo non è possibile. E gli oppressi nella Storia – da sempre – non possono fare altro che cercare di salvarsi (nel senso letterale del termine) attraverso lo scontro.
Il 25 novembre ricorre la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulla donne. Una data simbolica, istituita dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 17 dicembre 1999 attraverso la risoluzione 54/134, per ricordare le sorelle Mirabal, brutalmente torturate e uccise, ma anche per sensibilizzare sull’argomento della violenza di genere. Quest’anno, inoltre, la ricorrenza è particolarmente sentita a causa del femminicidio di Giulia Cecchettin, 22enne uccisa dall’ex fidanzato, il cui cadavere fu ritrovato il 18 novembre 2023.
L’assassinio delle sorelle Mirabal
Patria Mercedes, María Argentina e Bélgica Adela Mirabal persero la vita in quanto si opposero alla dittatura di Rafael Leónidas Trujillo. Le tre donne erano membri di un’organizzazione segreta: quando questa fu scoperta dalla polizia, tutti i partecipanti, comprese le sorelle e i loro mariti, furono arrestati. Sebbene le sorelle Mirabal fossero state rilasciate alcuni mesi dopo, il 25 novembre 1960 decisero di visitare i loro coniugi ancora detenuti. Questo incontro fu fatale a causa di un’imboscata. L’auto su cui viaggiavano fu intercettata e le tre donne furono brutalmente torturate, violentate e assassinate, simulando successivamente un incidente. L’assassinio delle sorelle scosse profondamente l’opinione pubblica. L’indignazione fu così intensa che portò, pochi mesi dopo, all’uccisione di Trujillo. In commemorazione delle tre donne, il 17 dicembre 1999 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ufficializzò il 25 novembre come Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne.
Le scarpe rosse come simbolo
Le scarpe rosse hanno assunto il ruolo di simbolo del 25 novembre. Rappresentano un’icona universale per commemorare le vittime di violenza di genere in tutto il mondo, sottolineando l’importanza della lotta contro ogni forma di violenza e promuovendo la richiesta di maggiori diritti per le donne. La prima persona a utilizzarle fu l’artista messicana Elina Chauvet, che le incluse in un’installazione realizzata nel 2009 per denunciare gli abusi nei confronti delle donne e il crescente fenomeno dei femminicidi. L’installazione, chiamata Zapatos Rojos, consisteva in una vasta esposizione di scarpe rosse, il cui colore rappresentava il sangue versato: ogni coppia di calzature (precisamente 33 paia) identificava una storia di abusi e maltrattamenti. Da allora, spesso le piazze si sono riempite di scarpe rosse.
La panchina rossa per dare visibilità al tema
La panchina rossa è un altro simbolo della lotta contro la violenza di genere. È un’immagine potente e significativa che mira a mettere in evidenza un tema cruciale e a stimolare la riflessione collettiva, la commemorazione e la contemplazione. In particolare, la panchina rossa fa riferimento alla violenza domestica, un tipo di violenza che si manifesta all’interno delle abitazioni in modo silenzioso. Spesso, nelle nostre città, vengono installate panchine rosse in memoria delle donne uccise all’interno delle mura domestiche o per mano dei loro compagni. Un esempio recente è quella voluta fortemente dal nipote di Concetta Marruocco, brutalmente assassinata dal marito con 39 coltellate.