Apre al pubblico lo spazio indipendente Gate 30 con la mostra intitolata Geografie a filo dell’artista Diana Pintaldi (dianapintaldi.com), con testo critico e curatela di Laura Catini. In occasione della Rome Art Week, l’artista romana aprirà per la prima volta le porte dello spazio di Via Lima 30 per l’inaugurazione della sua personale, frutto di una ricerca artistica fatta di incontri e influenze, sovrapposizioni e mutamenti in cui la materia e il soggetto che vi sta operando percorrono insieme lo stesso processo.
Diana Pintaldi (Ufficio stampa)
«Una scrittura che parla dell’avvenire»
«Nelle opere, tra meridiani e paralleli si sviluppa una scrittura che parla all’avvenire, in cui il passato e il presente convivono», ha spiegato Laura Catini. «Il sogno dello sconfinamento tra spazio e tempo è quello di un viaggio eroico in cui», ha affermato Diana Pintaldi, «azioni e reazioni delineano il nostro futuro». Dalle 18 alle 21 Pintaldi presenterà i suoi ultimi lavori invitando il pubblico a varcare un cancello fisico ed esperienziale, aperto dall’artista in esclusiva per l’opening, per concedere allo spettatore la possibilità di collegarsi intimamente alla sua ricerca, percependo il tempo dei luoghi. «La funzione dello spazio muterà alla chiusura dell’evento, ripristinando il suo ruolo ordinario e lasciando nella mente dei partecipanti un senso di déjà vu». Altri artisti interessati potrebbero riattivare il varco spazio-temporale di Gate30 con le loro future proposte espositive.
Qualche settimana fa ha destato parecchia sorpresa il ritrovamento di quel marito considerato suicida e invece scappato da moglie e famiglia per costruirsene un’altra, altrove. Ci sono tanti modi per cambiare vita, o almeno pensare di farlo mentre invece si stanno semplicemente ripetendo i propri errori. Carla Lonzi, alla fine degli Anni 60, ha meno di 40 anni ed è una delle più importanti critiche d’arte del nostro Paese. Ha pubblicato il libro Autoritratto, nel quale, attraverso l’uso (allora pionieristico) del registratore, ha dato voce ai più interessanti artisti dell’epoca (Accardi, Consagra, Fontana, Kounellis). A molti sembra una consacrazione e invece è un congedo, perché Lonzi, che nel frattempo si è avvicinata al gruppo Rivolta femminile, sta per gettare gli ormeggi e salpare verso un’altra vita. La sua però non è una fuga, ma l’affermazione del diritto a cercare qualcosa di diverso da una carriera confezionata su misura per lei da altri, secondo schemi già preconfezionati. Non è Mattia Pascal, non è un’insoddisfatta Bovary stanca della ripetitività della sua vita. È una rivoluzionaria che crede nella felicità e non nella rivoluzione, nel piacere e non nella vendetta. La sua è una fuga mentale, dalla se stessa che era, per diventare un’altra. Si reinventa la vita letteralmente da sola, pezzo dopo pezzo, giorno dopo giorno, smontando abitudini e retaggi.
Il potere di attraversare le generazioni e di essere ancora oggi attuale
Lonzi è una delle pochissime intellettuali di quegli anni ad aver attraversato le generazioni e a essere ancora oggi amata e discussa, citata e invidiata. A partire da quel libro, con un titolo che indicava già una direzione di marcia, Sputiamo su Hegel, appena ristampato dalle edizioni La Tartaturga. Sputare per togliere di mezzo, per distruggere, ma anche per esistere e non essere più liquidate o ridimensionate a fenomeno di costume, o a meteore passeggere. Occorre rifiutare la lotta di classe per impostare, da donne, il discorso su basi diverse e da qui l’esigenza primaria di “sputare” su Hegel e sulla sua dialettica servo-padrone «regolazione di conti tra collettivi di uomini».
Sputiamo su Hegel (La Tartaruga).
Il Manifesto di Rivolta femminile e la lotta al patriarcato
All’inizio degli Anni 70, dopo aver abbandonato la professione e ogni attività pubblica, Lonzi si getta a capofitto nel gruppo femminista, partecipando alle sedute di autocoscienza dove emergono necessità, bisogni, diversi da quelli professati dai movimenti politici che vanno per la maggiore: Lotta continua, Potere operaio e così via. Il primo risultato che ne scaturisce è il Manifesto di Rivolta femminile, scritto assieme ad Elvira Banotti e Carla Accardi. Siamo negli anni della centralità operaia, gli studenti picchettano giorno e notte davanti alle fabbriche, gli attori indossano la tuta blu e gli scrittori cercano di adeguare il loro lessico a quello dei lavoratori delle fabbriche. Carla Lonzi ha il coraggio di guardare altrove e di indicare alle donne una direzione diversa, anzitutto quella della lotta al patriarcato. E poi rifiutare la storia scritta sui manuali, smetterla di considerarla come universale, perché in realtà riguarda solo il maschio.
Lo sganciamento del femminismo dal mito del 68
Ma c’è di più, negli anni delle grandi battaglie sociali e civili per i diritti delle donne, Lonzi rifiuta il processo di emancipazione perché frutto a suo parere di un riformismo che non intacca la vita interiore, l’identità delle donne: «La parità di retribuzione è un nostro diritto, ma la nostra oppressione è un’altra cosa. Ci basta la parità salariale quando abbiamo alle spalle ore di lavoro domestico?». Già negli Anni 70, anni caratterizzati da slogan forti, si taccia Lonzi di perseguire un radicalismo che non avrebbe portato a nulla. Lei, però rilancia, facendo ancora un passo più, slacciando il femminismo dalla parentela con il ’68: «Per entrare in uno spirito femminista le giovani hanno dovuto scardinare non poco le parole d’ordine, le mode e i miti sessantotteschi. È stato malgrado il ’68 e non grazie al ’68 che hanno potuto farlo». Abituata a seguire i mutamenti continui dell’arte e del gusto, Lonzi non resta ferma, i suoi scritti ci restituiscono un’intelligenza inquieta e affilata, capace di investire delle proprie riflessioni critiche ogni elemento sia del mondo esterno che di quello interiore, privato. Non tace, anzi, continua a parlare e a provocare, Carla Lonzi, scomparsa il 2 agosto 1982, come il suo diario pubblico e privato – Taci, anzi parla – che sarà ristampato dalla Tartaruga come il resto della sua opera, fondamentale per capire quanto lunga e faticosa sia stata la strada percorsa. Una strada nella quale investe tutta se stessa, fino alla fine. Un cammino difficile. Rilette oggi da quelle pagine si coglie la necessità di un percorso da riprendere, quello della riflessione su di sé, dell’autocoscienza. Restando perfino turbati nel ritrovare, oggi, 2023, riflessioni come questa: «Non dimenticheremo che è del fascismo questo slogan: famiglia e sicurezza».
È morto in ospedale a Firenze Sergio Staino, uno dei più noti disegnatori e fumettisti italiani di sempre. “Papà” di Bobo ed ex direttore del l’Unità, aveva 83 anni ed era malato da tempo. Ricoverato una prima volta nel novembre del 2022, era uscito dall’ospedale a settembre nel settembre del 2023, ma poi era stato ricoverato di nuovo pochi giorni fa, quando le sue condizioni erano peggiorate.
Sergio Staino (Ansa).
Da Bobo su Linus alla direzione de l’Unità, la carriera di Staino
Nato a Piancastagnaio (Siena), dopo la laurea in architettura aveva insegnato educazione tecnica in vari licei della provincia di Firenze. La sua carriera da fumettista era iniziata nel 1979, con la pubblicazione della striscia di Bobo – il suo alter ego – sulla rivista di fumetti Linus. Successivamente ha collaborato con numerosi quotidiani e riviste, tra cui l’Unità, Il Messaggero, Il Corriere della Sera, La Stampa, L’Espresso, Panorama. Nel 1986 aveva fondato (e diretto) il settimanale satirico Tango, inserto umoristico de l’Unità pubblicato fino al 1988 per un totale di 127 numeri. L’8 settembre del 2016 era stato nominato direttore dell’Unità, carica da cui si dimise nell’aprile successivo dopo uno sciopero dei giornalisti contro un piano di licenziamenti voluto dalla proprietà. Era poi torneto a dirigere la testata fino alla sua chiusura, il 2 giugno del 2017. Nel corso della carriera si era cimentato anche come regista: nel 1989 aveva diretto il film Cavalli si nasce e nel 1992 Non chiamarmi Omar. E in Rai aveva creato Cielito lindo, varietà satirico condotto da Claudio Bisio e Athina Cenci.
Volevo bene a Sergio Staino. Era non solo un grande artista ma anche una persona buona e profonda. Conservo questa vignetta nel mio ufficio. La fece dopo un duro scontro con una multinazionale su una crisi industriale. Ed è per me una medaglia. RIP. pic.twitter.com/7oQMr3o8f4
«Volevo bene a Sergio Staino. Era non solo un grande artista ma anche una persona buona e profonda. Conservo questa vignetta nel mio ufficio. La fece dopo un duro scontro con una multinazionale su una crisi industriale. Ed è per me una medaglia», ha scritto Carlo Calenda su X. Così Matteo Renzi: «La morte di Sergio Staino mi riempie il cuore di tristezza. Sergio è stato spesso un feroce critico e allo stesso tempo un affettuoso fratello maggiore. Ma per me è sempre stato soprattutto una persona vera con cui confrontarsi e discutere. Il mio messaggio di condoglianze più affettuoso a Bruna, ai figli Michele e Ilaria, a tutti quelli che gli hanno voluto bene». Questo il saluto di Piero Fassino: «Ci ha lasciati Sergio Staino, gia direttore de L’Unità e padre di Bobo, il personaggio delle sue vignette, interprete dei sentimenti, delle ansie, delle speranze del popolo della sinistra. Grazie Sergio, ci mancherai, ma ti porteremo nel cuore».
Quest’estate ho letto un libro di un tizio che raccontava la storia di una coppia che si era appena lasciata. «Non ci si lascia mai a 40 anni», diceva a un certo punto, prima di cominciare a descrivere lo straniamento e iniziare a sezionare una dopo l’altra le porzioni di dolore che via via gli presentavano emotivamente il conto della fine della relazione. Ho iniziato a pensare così, sdraiato su un lettino di una spiaggia greca, scaldato dal sole della mia relazione stabile, come mi sarei comportato se questa cosa fosse successa a me. L’idea di tornare alla vita da scapolo, e all’appartamento che continuavo a tenere in via Amedeo d’Aosta nello stesso palazzo in cui ero nato strisciò verso di me con un sibilo acido. Ma la vita da scapolo, come ben sapevo, era un labirinto orrendo.
Per un attimo su quel lettino su una spiaggia di Antiparos, mentre i camerieri portavano secchielli di ghiaccio con bottiglie di Veuve Cliquot pensai: «Abbandona la casa in Viale Regina Giovanna, fatti crescere la barba, ricomincia a drogarti, seduci donne con la metà dei tuoi anni, organizzati per scrivere il tuo romanzo, diventa maniaco della forma fisica. Libera l’Andrea di una volta»
Lo sapevano tutti che gli scapoli andavano fuori di testa, invecchiavano da soli, diventavano patetiche controfigure di se stesse in perenne crisi esistenziale. Gli scapoli pagavano una domestica per lavare la biancheria, si ritrovavano da soli in qualche club dove erano troppo vecchi per stare, ordinando l’ennesimo gin tonic corteggiando ragazze più giovani di loro con la merda nel cervello. Quel pomeriggio però, per un attimo su quel lettino su una spiaggia di Antiparos chiamata Soros, mentre i camerieri giravano, vestiti di lino bianco, portando secchielli di ghiaccio con dentro bottiglie di Veuve Cliquot pensai: «Abbandona la casa in Viale Regina Giovanna, fatti crescere la barba, ricomincia a drogarti, seduci donne con la metà dei tuoi anni, scopatele tutte, organizzati uno studio per scrivere il tuo romanzo, diventa maniaco della forma fisica, confida i tuoi fallimenti agli amici cari che non frequenti più. Libera l’Andrea di una volta. Ricomincia dal principio. Lasciati fagocitare dalla wave milanese fatta di creativi e starlette e giovani scrittori che tanto detesti. Elimina lo chic. Racconta la tua storia a tutti e convincili uno a uno anche se sai che ti stai inventando tutto».
Soros beach.
Così chiusi gli occhi e invece che in una piccola isola dispersa nell’Egeo mi ritrovai in Puglia, in Salento, di fianco a Dodo, sorseggiando vino bianco sulla terrazza affacciata sul mare de La Fortunata, la magnifica villa che i suoi affittano da decenni a Marina Serra e che di fatto nel tempo si è trasformata nella loro residenza estiva. Di colpo quei pensieri innescarono qualcosa, percepii dentro di me una piccola implosione mentre uno stormo di corvi immaginari cominciarono a volteggiare sopra la mia testa. Poi nella mia mente iniziarono a scorrere una serie di immagini, simili alla pellicola di un film, dove il protagonista, un 40enne smilzo con gli occhiali e il cranio rasato, molto simile a me era, in compagnia di una ragazza con i capelli biondi di nome Carla, ma che noi tutti chiamiamo Carlà, alla francese, in un’altra terrazza affacciata sul mare in un appartamento vicino a un locale chiamato Jamao.
«Non dovrei farmi coinvolgere per una quantità di motivi», disse lei, e poi aggiunse, sospirando: «Per prima cosa sei sposato…». «Da meno di un anno!», gemetti, «ma in questo momento siamo, diciamo, in una pausa di riflessione». «Andre…». Sprofondai la faccia nel suo collo e poi mi abbassai, fino a inginocchiarmi ritrovandomi a fissare le suo cosce aperte. In un attimo le infilai le mani sotto il vestito di cotone leggero scoprendo un pancino teso e abbronzato e indugiando con le dita verso il basso ventre puntando le mutandine sottili. Poco dopo ci ritrovammo avvinghiati e mentre le leccavo la bocca mi sorpresi ad assaporare il suo lucidalabbra, cosa che mi riportò con la mente ai tempi del liceo e alle ragazze con cui uscivo d’estate a Rapallo e me la spassavo steso su una sdraio davanti a una piscina dal fondo blu ai Bagni Ariston ed ero abbronzato e portavo una collana di conchiglie e ascoltavo Love Street dei Doors e lei si chiamava Ludovica. Le immagini proseguirono. Ero sempre davanti a una piscina in una tenuta enorme nell’entroterra salentino, ma la ragazza questa volta non era più Carlà ma si era trasformata in Sofia, o forse era qualcun’altra? Azzurra forse, che con un moccioso in mano, reclamava 2 mila euro di alimenti che quel mese secondo lei non le avevo corrisposto. «Sono per l’apparecchio di tuo figlio!», mi urlava, paonazza in volto, senza nascondere il suo risentimento nei miei confronti che con il tempo si era trasformato in odio. «Devi conoscere tuo figlio», mi ripeteva, «è essenziale per lui avere un rapporto con il proprio padre!».
La mente fa brutti scherzi ogni tanto, soprattutto quando si mette a fare certi pensieri strani, come adesso mentre con la tazza di caffè fumante sul comodino scorrendo le notizie sull’iPhone, leggo del tweet di Giorgia Meloni sulla fine della sua relazione la cui conclusione somiglia a una di quelle frasi motivazionali che nel migliore dei casi diventano dei brutti tatuaggi
Non c’era altro da aggiungere, stavo andando fuori di testa. Così mi alzai dal lettino e dopo aver lanciato uno sguardo furtivo a Ofelia, stesa di fianco a me a prendere il sole, mi gettai in acqua, barcollando, cercando di cancellare quegli assurdi pensieri che mi erano balenati nella malata scatola cranica. Così presi a nuotare e ogni bracciata che facevo, quando tiravo fuori la testa per respirare e aprivo gli occhi vedevo il volto di mio padre, e le immagini di una libreria a casa nostra a Milano, in via Amedeo d’Aosta, piena zeppa di fotografie che non avevo mai notato. Quasi tutte mie, che forse gli servivano come promemoria del mio abbandono, anche se quando se ne andò la casa di Via Amedeo d’Aosta già non esisteva più da parecchio tempo. Decisi di tornare a riva quando l’unica immagine che continuamente mi si proiettava davanti agli occhi era una foto di noi due: io a 17 anni, occhiali da sole, serio, abbronzato e lui di fianco a me, bruciato dal sole, e vestito di bianco. Fermi, davanti alla villa a Forte dei Marmi e un sole fortissimo che luccicava in cielo. Ero stremato dal dolore. Quante volte avevamo litigato in quella vacanza? Quante volte ero andato in pezzi durante quei giorni snervanti? Continuai a pormi quelle domande per una decina di minuti, mentre mi asciugavo al sole, e fu solo al secondo bicchiere di champagne che trangugiai tutto di un fiato che mi resi conto che quel viaggio con mio padre non era mai esistito perché io a 17 anni durante l’estate ero andato ad Amsterdam e Parigi con Dodo e Nosama.
La mente fa brutti scherzi ogni tanto, soprattutto quando si mette a fare certi pensieri strani, come adesso mentre, appena sveglio, con la tazza di caffè fumante sul comodino scorrendo le notizie con in mano l’iPhone, leggo del tweet di Giorgia Meloni sulla fine della sua relazione con il compagno Andrea Giambruno e la cui conclusione somiglia a una di quelle frasi motivazionali che nel migliore dei casi diventano dei brutti tatuaggi: «Tutti quelli che hanno sperato di indebolirmi colpendomi in casa sappiano che per quanto la goccia possa sperare di scavare la pietra, la pietra rimane pietra e la goccia è solo acqua». Tornare scapolo, scoparsi una donna diversa ogni notte, e poi? Rischiare di diventare come mio padre, o come quel ragazzo che l’altra sera a una festa, con aria gradassa, parlando con un tale, fissandolo negli occhi gli ha detto: «Fate i figli e state a casa. Minchioni! È proprio adesso che dovete uscire e farvi le altre donne. Non capite veramente un cazzo!». E pensare che avrei voluto scrivere del centenario di Calvino o al massimo un tales sul ritorno sulla scena di Fabrizio Corona.
A volta la storia riesce a cambiare genere ai film. Via col vento all’uscita era un kolossal romantico, oggi è un’intollerabile elegia razzista; La donna esplosiva, dove una donna adulta (creata al computer) si relaziona allegramente con due adolescenti, dipinge una situazione da codice penale. Dal 7 ottobre Tutti pazzi a Tel Aviv, commedia satirica del 2018, scritta a quattro mani da un palestinese e da un israeliano, è diventato un film di pura e amarissima fantapolitica prodotto in un’epoca vicina eppure lontanissima. Il film ruota intorno a una soap-opera, Tel Aviv on Fire, realizzata in Palestina e dunque chiaramente anti-israeliana, ma così appassionante da conquistare anche la parte avversa, con grande imbarazzo dell’anziano produttore e di alcuni attori, che hanno conosciuto le carceri israeliane. Paradossalmente, più la soap conferma l’implacabile inimicizia fra i due popoli e i rispettivi cliché, più diventa avvincente per entrambi, finendo per unirli, anche se soltanto davanti al piccolo schermo. Il finale (cerco di non spoilerarlo) mostra un tenue ma ottimistico barlume di conciliazione, almeno nella dimensione della fiction televisiva, dove tutto può accadere.
Persino l’acclamata serie Fauda oggi sembra una tragica farsa
Ho rivisto il film da poco insieme ai miei figli, anche perché mostra senza troppi inzuccheramenti il difficile vicinato fra palestinesi e israeliani anche in tempi più tranquilli, l’occhiuta sorveglianza dell’esercito, la brutalità dei controlli sul confine, il risentimento e l’umiliazione degli oppressi e il sospetto costante in cui vivono oppressori. Se nel 2018 ero uscita dal cinema con un filo di speranza, questa volta l’effetto è stato l’opposto. Quella disincantata riflessione sull’assurdità della guerra, quella vaga e lontana possibilità di comprendersi, o per lo meno di domandarsi se un giorno sarà possibile comprendersi, sono state spazzate via dall’orizzonte mentale non solo di israeliani e palestinesi, ma di tutti noi. Perfino un prodotto di tutt’altro genere, Fauda, l’acclamata serie israeliana ma con un cast misto, seguita anche in tutto il mondo arabo, oggi più che un thriller poliziesco sembra una tragica farsa, e non solo perché molti dei suoi interpreti oggi sono impegnati con l’esercito.
Accompanied by Yohanan Plesner @yplesner and Avi @issacharoff , I headed down south to join hundreds of brave "brothers in arms" volunteers who worked tirelessly to assist the population in the south of Israel. We were sent to the bombarded town of Sderot to extract 2 families pic.twitter.com/WpM9JLeOZM
Dov’erano le agguerrite squadre speciali dell’Israeli Defence Force mentre Hamas progettava il pogrom del 7 ottobre? Cosa faceva la famosa intelligence che in Fauda capta ogni avvisaglia di trama o attentato in preparazione oltreconfine? Anche quei terroristi palestinesi dagli occhi spiritati, con il pugnale e le bombe sempre in tasca come gli anarchici della Belle Epoque, che ammazzavano al massimo 10-15 israeliani alla volta, ora fanno la figura dei moderati rispetto ai macellai fatti di anfetamine che ne hanno sgozzati a centinaia, ragazzi che ballavano, vecchi e bambini nei loro letti. Lo sceneggiatore che sta scrivendo gli eventi di questi giorni è uno psicopatico nichilista fissato con le carneficine di massa e le piogge di bombe, e il dolore e la rabbia che hanno provocato e continuano a provocare sono la sicura premessa di infinite stagioni di orrore, in Medio Oriente e non solo.
Quei prodotti dell’immaginario che hanno spostato il silenzio sulla questione israelo-palestinese nell’intrattenimento
E ora quasi provi imbarazzo ad averli guardati, Tutti pazzi a Tel Aviv, Fauda, Teheran e compagnia, prodotti dell’immaginario che negli ultimi anni hanno riempito il silenzio della politica e dell’informazione sulla questione israelo-palestinese, spostandolo dalle news alle piattaforme d’intrattenimento. Ti vergogni ad averli presi sul serio, ad averli quasi scambiati per psicodrammi catartici, in cui anche la rappresentazione della violenza e dell’odio diventavano un’opportunità per vedere le cose dal punto di vista dell’altro. Invece erano solo illusioni, concepite in un tempo in cui ci si poteva ancora illudere, e forse anche sperare, se non nella pace, nella non-guerra. Ce ne siamo accorti solo quando quel tempo è finito, una mattina di 15 giorni fa.
Un mozzicone di sigaretta scivola dalle dita e cade dove non deve cadere, forse proprio sulla sua vestaglia di nylon, il fuoco rapidamente si propaga, arrivano i soccorsi, lei viene portata in un ospedale specializzato per le ustioni. È la notte del 26 settembre 1973 quando Ingeborg Bachmann, poetessa e scrittrice austriaca residente a Roma da anni, entra in ospedale. Al suo arrivo appare ancora cosciente, ma la situazione appare subito molto grave. Il 17 ottobre, dopo oltre due settimane di agonia, Bachmann muore. Molti la salutano come la massima poetessa di lingua tedesca del Novecento. Thomas Bernhard, scrittore spesso sprezzante verso i connazionali austriaci, in un suo romanzo, L’imitatore di voci, la saluta come «la scrittrice più intelligente e significativa del nostro secolo».
Ingeborg Bachmann e la Roma dove, disse, «ho imparato a vivere»
Per ricordarla a 50 anni dalla scomparsa sono state organizzate diverse iniziative, perlopiù a Roma, la città che dalla metà degli Anni 50 era diventata la sua seconda casa. «Qui ho imparato a vivere», diceva, «perché si può imparare qualcosa da loro (gli italiani, ndr) solo se si butta via tutto, ogni convinzione che si aveva prima». Passeggiate letterarie, convegni, letture e soprattutto la pubblicazione della sua più importante raccolta di poesie: Invocazione all’orsa maggiore (a cura di Luigi Reitani, Adelphi). Uscita nel ’56, questa raccolta la consacra definitivamente come un voce singolare di un panorama poetico che cercava di trovare una strada fra le gigantesche ferite della Seconda Guerra mondiale. Tra chi scriveva che non poteva esserci più poesia dopo Auschwitz, per non consolare un mondo che doveva invece continuare a riflettere, e chi cercava di ripercorrere i binari di un lirismo ormai senza più alcun posto nella società, Bachmann elabora una poesia strettamente legata alla realtà di un Paese, il suo, in macerie. Una poesia salvifica, in grado si svelare la realtà: «Vieni, grazia di suono e di fiato, / fortifica questa bocca, / quando la sua debolezza / ci atterrisce e frena. // Vieni e non ti negare, / poiché noi siamo in lotta con tanto male».
Invocazione all’orsa maggiore (Adelphi).
La Carinzia, paradiso perduto e minacciato, il bisogno di evasione e l’Italia
La verde Carinzia (era nata a Klagenfurt, il 25 giugno 1926), con i suoi vigneti, i laghi alpini, i castelli da cartolina, è una sorta di paradiso perduto, continuamente minacciato: «Nella terra del pascolo giunsi quand’era già notte,/ fiutando le cicatrici nei prati/ e il vento, prima che si levasse./ L’amore più non pascolava,/ le campane erano spente/ e i cespugli affranti». Laureata in filosofia, con una tesi nella quale osava criticare il pontefice massimo della filosofia tedesca del Novecento, Martin Heidegger, Bachmann inizia a lavorare per la radio, poi, nel’53, con la sua prima raccolta di poesie, Il tempo dilazionato, l’immediato successo, salutato dal premio tributatole dal Gruppo 47, la formazione di scrittori e poeti di cui faceva parte fra gli altri anche il futuro premio Nobel Günther Grass. Nonostante il successo inizia a sentire l’esigenza di evadere da un ambiente dominato dagli uomini: «Nel paese dei profondi laghi e di libellule,/ sfinita bocca sulla roccia antica,/ uno chiama lo spirito dell’alba,/ prima che lascia sempre il paese». In forza di una serie di circostanze inizia a viaggiare per l’Italia, Napoli, Venezia, la Puglia, Napoli, città in grado di rapirla. Di questa inquietudine, di questa ricerca di un luogo dove poter “vivere” è intrisa l’Invocazione, come questi versi, ispirati da un viaggio a Ischia: «Frutti d’ombra dalle pareti cadono,/ la luna imbianca col suo lume la casa, e cenere/ di spenti crateri da brezza marina è portata». Questa raccolta è a tutti gli effetti la consacrazione definitiva per Bachmann, capace di elaborare una poesia assieme densa di significati ma anche di incredibile potenza lirica, in grado di emozionare, avvolgendolo, il lettore.
Un murale di Ingerborg Bachmann a Klagenfurt.
Malina, manifesto del nascente movimento femminista
Dopo molte stazioni la poetessa si stabilisce a Roma, dove trova la sua abitazione definitiva in via Giulia, a due passi da Campo de’ Fiori, in quei vicoli maleodoranti dove ancora si manifestava la presenza della mala romana, con tutto il suo corollario di strozzini (chiamati “cravattari”), esattori e altra banditaglia varia. Lei si immerge in questa rumorosa quotidianità, affascinata però più che dal frenetico andirivieni, dal senso di decadenza che trasudava: «Qui a Roma», scrive in Quel che ho visto e sentito a Roma, «il Tevere è bello, ma trascurato. L’isola Tiberina è un’isola di malati e di morti. Al Ghetto non bisogna lodare il giorno prima che faccia sera». Negli anni successivi si dedica soprattutto alla prosa, raccolte di racconti, come Tre sentieri per il lago, definito da Pietro Citati una delle più belle di tutto il Novecento, e il Trentesimo anno. Progetta una trilogia intitolata Cause di morte, il primo tassello, Malinaè un romanzo amatissimo da quelle nuove generazioni che cercavano di cambiare assetti sociali ed equilibri, diventato presto una sorta di manifesto del nascente movimento femminista. Il ciclo rimane incompleto, la sua eredità però attraversa le generazioni, come quei confini, di cui parlava in una delle sue poesie: «Siano i confini pur in ogni parola:/ per nostalgia li attraverseremo/ e saremo in armonia con ogni luogo».
È morta all’età di 80 anni la poetessa americana Louise Glück, insignita del Nobel per la letteratura nel 2020. Lo ha reso noto l’Università di Yale, dove insegnava. Nata a New York e considerata una delle più grandi figure della poesia americana, nel corso della sua carriera ha pubblicato 12 antologie, debuttando con Firstborn nel 1968.
Nel 1993 aveva vinto il Premio Pulitzer per la poesia per la sua raccolta L’iris selvatico, ottenendo il primo di una lunga serie di riconoscimenti: nel 2003 era stata poi insignita del prestigioso titolo di poeta laureato degli Stati Uniti e nel 2014 del National Book Award per la poesia. Tra i suoi versi più celebri figurano quelli di Nostos, dall’antologia Lettere al futuro: «Guardiamo il mondo una volta, da piccoli. Il resto è memoria».
Louise Gluck (Getty Images).
Le poesie di Glück sono conosciute per il tono austero
Cresciuta a Long Island e discendente da parte di padre di ebrei ungheresi emigrati all’inizio del XX secolo, Glück era stata premiata dall’Accademia svedese «per la sua inconfondibile voce poetica che con austera bellezza rende universale l’esistenza individuale», diventando la 16esima donna ad aggiudicarsi il Nobel per la letteratura. Le poesie di Glück sono conosciute per la loro precisione linguistica e, appunto, il tono austero.
Dopo 13 anni di attesa martedì scorso è uscito il nuovo romanzo di Bret Easton Ellis, Le schegge, che io aspettavo come una ragazzina dei 90 attendeva l’uscita dell’ultimo disco dei Take That. Da quando nel 1985 è entrato, con un bazooka puntato, nella scena letteraria mondiale, distruggendola, lo scrittore californiano è rimasto una delle figure più controverse e divisive in circolazione. Le violenze sessuali e i massacri descritti minuziosamente in American Psycho, forse il suo libro di maggior successo, e il finale di Less than Zero, con il quale esordì proprio nel 1985, con un 12enne brutalmente stuprato da un gruppo di ragazzini ricchi, sono solo due degli innumerevoli esempi che potrei fare per descrivere la poetica d questo autore che tramite l’uso della violenza ha narrato l’oscuro esistenziale di una generazione come pochi altri sono riusciti a fare negli ultimi 40 anni.
Ellis era ancor più enfant di Amis e McEwan quando pubblicò il suo primo successo letterario e per certi versi infinitamente più terrible, cosa che lo rese la prima vera e propria rockstar della letteratura
Cosa succede quindi quando un enfant terrible cresce? Le schegge in accoppiata con la mia immagine sbiadita riflessa dallo specchio del bagno sono le risposte a questa domanda. Come La vita da dentro di Martin Amis anche Ellis gioca con l’autofiction (come del resto già aveva fatto nel precedente Lunar Park) avvertendo il lettore che solo oggi che ha compiuto 57 anni si sente pronto a raccontare questa storia, ambientata nelle ville sopra le colline di Los Angeles nel 1981 tra licei esclusivi, macchine veloci, vestiti di marca, droghe e massicce quantità di psicofarmaci. Anche la narrativa di Martin Amis iniziò con il sesso e poi con la droga e perfino quella di Ian McEwan, conosciuto all’inizio della sua carriera come Ian Macabre per i suoi racconti pieni di incesti e omicidi sessuali, partì nella medesima maniera. Ellis era ancor più enfant di Amis e McEwan quando pubblicò il suo primo successo letterario e per certi versi infinitamente più terrible, cosa che lo rese la prima vera e propria rockstar della letteratura, infilandolo in un sorta di Brat Pack letterario che negli Anni 80 sfavillava nei locali alla moda di New York, insieme a un gruppo di giovani scrittori di successo come lui, tra i quali sicuramente spicca il nome di Jay McInerney, suo acerrimo rivale ma anche amico fraterno, che tanto quanto Ellis spaccò la scena con Le mille luci di New York, all’interno del quale tra modelle e cocaina raccontò miti e ossessioni dell’America edonista e reganiana.
Le schegge, il nuovo libro di Bret Easton Ellis (Einaudi).
La prima volta che mi capitò in mano un libro di Bret Easton Ellis non l’avevo mai sentito nominare prima. Fu per caso un pomeriggio del gennaio del 2000 quando Giada si presentò a un nostro appuntamento in Piazza Leo con un pacchetto regalo per il mio ventesimo compleanno. «Ho trovato questo in libreria e non ho potuto che pensare a te», mi disse, porgendomi un mastodontico volume intitolato Glamorama, un infinito delirio schizofrenico che raccontava la storia di un improbabile gruppo di modelli-terroristi tra New York, Londra, Parigi e Milano, scritto in maniera anfetaminica, incalzante e prodigiosa. Persi così completamente la testa per Glamorama e Bret Easton Ellis divenne il mio scrittore preferito di tutti i tempi, e lo è rimasto anche oggi, per distacco, a quasi 24 anni da quel pomeriggio in Piazza Leo dopo il quale lessi tutto quello che aveva scritto guidato da qualcosa di soprannaturale. Drogatissimo con qualsiasi sostanza mi capitasse a tiro il me ventenne scopava Giada per sdebitarsi con grandissimo trasporto. Infilavo il naso nel suo culo e la lingua, da dietro, nella sua fica bagnata durante quell’inverno del 2000 aprendole le gambe più che potevo. In giro si era sparsa la voce che stessimo insieme anche se non era vero e io mi beavo di questi pettegolezzi con i miei amici più cari, mentendo, e non perdendo occasione di descrivere i rapporti sessuali che avevamo in camera sua, a casa di sua madre in Largo Rio de Janeiro, nella stessa villetta dove una volta aveva abitato Battisti e, dice qualcuno, perfino Carlo Emilio Gadda.
Con Giada non usavamo mai preservativi così stavo bene attento, anche se spesso ero troppo sconvolto per controllarmi, a non venirle dentro. Le venivo sulle tette, in faccia, sulla schiena, chiusi a doppia mandata dietro la porta di vetro con gli infissi bianchi mentre dalle casse dello stereo posto di fianco alla finestra affacciata su Viale Romagna suonavano i dischi degli Oasis, di cui lei andava matta, soprattutto (What’s the story) Morning Glory?, che quasi sempre andava in loop. All’epoca frequentavo una costosissima scuola privata in una piccola palazzina dalle parti di Piazza Aspromonte e per fare il duro vendevo il fumo ai miei compagni e ai ragazzi delle classi di fianco, nei bagni ai cambi d’ora o durante l’intervallo. Entravo in classe solo per frequentare le ore di italiano e i miei temi venivano letti ad alta voce dalla professoressa di lettere perché semplicemente erano perfetti, anche se avevo l’insufficienza in tutte le altre materie. Con Giada finì perché io ero troppo stupido, perché ero già innamorato di Lucilla e perché un giorno si arrabbiò molto dopo che non le restituii una grossa somma di denaro che mi feci prestare per fare un acquisto di hashish e marijuana dato che i miei contatti non mi facevano più credito, perché andavo sempre sotto con i soldi. «Vai a fare in culo, tu e quella troia che ti scopi, che nemmeno te la scopi mi sa, frigida com’è!», mi urlò, rossa in faccia, un giorno sotto casa mia in Viale Corsica, «e ridammi i mei soldi, tossico di merda!». In realtà non me la presi più di tanto, perché in cuor mio sapevo che aveva ragione, e infatti con Giada, a fasi alterne, continuammo a vederci anche negli anni successivi, legati da un qualcosa che a entrambi non doveva mai essere stato troppo chiaro. Uscivamo insieme le sere di San Valentino se entrambi eravamo single, ci stonavamo di birre e spini lascivi e ogni tanto finivamo ancora a letto insieme, a casa di suo padre in via Spontini o da me, nella mansarda di via Tiepolo, mentre lei faceva avanti e indietro da Venezia dove si era trasferita a studiare e io cercavo in maniera del tutto fallimentare di dare qualche esame alla Facoltà di lettere e filosofia alla Statale in via Festa del Perdono alla quale ero iscritto.
Mancano solo cinque giorni all’evento collaterale del 17 ottobre che avrebbe dovuto avere Patrick Zaki tra i protagonsti all’appuntamento di apertura del Salone del Libro di Torino, ma qualcosa è cambiato e l’incontro è stato annullato. «L’Arsenale della Pace di Torino da 40 anni è una casa sempre aperta alle tante situazioni che bussano alla porta, in dialogo con persone di ogni orientamento, cultura e religione. Con questo spirito» -si legge in una nota del Sermig – «settimane fa, avevamo accolto la richiesta del Salone del Libro di uno spazio per la presentazione dell’ultimo libro di Patrick Zaki. Le condizioni però sono cambiate. Alla luce degli avvenimenti degli ultimi giorni, crediamo non più opportuno confermare la disponibilità ad ospitare tale incontro che rischierebbe di alimentare ulteriori polemiche, divisioni e strumentalizzazioni».
L’attacco della senatrice Fdl Paola Ambrogio
La prima a chiedere l’annullamento della partecipazione del ricercatore all’evento Aspettando il Salone era stata la senatrice Paola Ambrogio, di Fratelli d’Italia, che aveva attaccato l’attivista dopo il tweet sul conflitto in Israele. «Pensare che Patrick Zaki, dopo le parole intollerabili pronunciate su Israele, possa prendere parte a una serata collaterale del Salone del Libro di Torino lascia sinceramente sgomenti» aveva dichiarato mercoledì 11 ottobre. Ambrogio aveva così lanciato un appello agli organizzatori: «Auspico che la direzione del Salone, di concerto con il Sermig, decida di annullare l’evento: sarebbe una macchia indelebile per il nuovo corso editoriale». La senatrice aveva aggiunto, come riportato dal quotidiano Repubblica, che il post di Zaki è un insieme di «frasi e posizioni che strizzano l’occhio ai fondamentalisti islamici di Hamas. I tragici eventi in corso, riportati puntualmente e fedelmente dalle cronache internazionali, non ammettono ambiguità. C’è una linea sottile ma invalicabile tra la libertà di espressione e la libertà di odiare, e Patrick Zaki l’ha ampiamente superata».
La difesa di Amnesty
Amnesty International intanto prende le difese di Zaki, e fa riferimento a una «campagna d’odio» nei confronti dell’attivista: «In questi giorni Patrick Zaki ha ripetutamente condannato le violenze contro i civili israeliani e palestinesi, come avrebbe fatto ogni persona che difende i diritti umani. Se poi, sulla sua analisi del contesto e delle cause di ciò che sta accadendo ci sono punti di vista diversi, è del tutto lecito dissentire e contestarle. Constato, tuttavia che si sta andando molto oltre» ha dichiarato il portavoce di Amnesty International Italia, Riccardo Noury, che ha aggiunto: «Dopo aver subito una persecuzione giudiziaria per tre anni e mezzo in Egitto per aver preso la parola, ora in Italia sta subendo una campagna di odio e la parola gli viene persino tolta».
Camilla Läckberg non è forse la sola autrice dei suoi best seller. Secondo il quotidiano svedese Kvartal, la scrittrice e regina del noir tanto da essere acclamata come erede scandinava di Agatha Christie si sarebbe servita di un ghostwriter per realizzare alcuni dei suoi romanzi di successo. La scoperta sarebbe arrivata grazie a un software di analisi dei dati che sfrutta l’intelligenza artificiale, già utile in passato per scoprire l’identità di J.K. Rowling dietro lo pseudonimo di Robert Gabraith ne Il seggio vacante. Il programma infatti avrebbe riscontrato anomalie e incongruenze nello stile di Läckberg in otto sue opere, tra cui La gabbia dorata e Ali d’argento. Immediata la replica con un post su Instagram: «Più volte mi hanno accusata di non avere uno stile perfetto e non meritare così tanti lettori», ha scritto l’autrice. «Non c’è niente di vero».
Camilla Läckberg utilizza un ghostwriter? I dati del software IA
Come ha riportato anche il Guardian, lo strumento di analisi dei dati utilizza l’intelligenza artificiale sul testo per confrontare la frequenza delle parole più comuni. In seguito le elabora per compilare un diagramma in grado di identificare un preciso stile di scrittura. La ricerca ha coinvolto gli otto romanzi di Camilla Läckberg più venduti in Svezia, tra cui Lo scalpellino e Il guardiano del faro, prodotti dall’editore e autore di gialli Pascal Engman. «Il resoconto dei dati supporta fortemente la presenza di un ghostwriter», ha scritto Lapo Lappin, giornalista di Kvartal e promotore dello studio. Lo strumento ha infatti trovato una coerenza di stile per i gialli ambientati a Fjällbacka, incentrati sui detective Erica Falck e Patrik Hedström. Una serie più recente di thriller, tuttavia, ha presentato uno stile del tutto differente. Per Donne che non perdonano il software suggerisce persino Engman come unico autore.
Camilla Läckberg con suo figlio sul red carpet (Getty Images).
«Molte volte ho ringraziato pubblicamente Pascal (Engman, ndr.) per avermi aiutata a scrivere in un modo nuovo per me», ha scritto sui social Läckberg. «Non è assolutamente un segreto. Utilizzo un linguaggio quotidiano, non ho mai voluto vincere il Premio Nobel per la Letteratura». Lo stesso editore, con un’intervista a Kvartal ha confutato categoricamente ogni accusa. «Il mio compito è collaborare con uno scrittore in vari modi», ha sottolineato alla rivista svedese. «Non vuol dire che abbia scritto io i romanzi». Secondo il Guardian però tali affermazioni non negano definitivamente le accuse, lasciando aperti diversi argomenti di discussione. «Engman ha lavorato solo come editore, nulla di più», aveva però detto nel 2021 la stessa autrice di fronte ad altre insinuazioni su un potenziale ghostwriter.
La decisione dei governi europei di affrancarsi dalle importazioni di gas dalla Russia, per decenni tra i nostri maggiori fornitori di materie prime energetiche, ha portato a un forte aumento dei prezzi del metano e dell’elettricità, che a oltre un anno e mezzo dallo scoppio della guerra in Ucraina risultano più che raddoppiati rispetto alla media storica degli ultimi 20 anni e non accennano a diminuire. Andrea Greco e Giuseppe Oddo ripercorrono ne L’arma del gas (Feltrinelli) la storia delle intese che hanno portato l’Europa occidentale a una sempre maggiore dipendenza dal gas siberiano – dagli accordi degli Anni 60 tra l’Eni e l’Unione sovietica a quelli sottoscritti dalla Germania – e analizzano le cause delle crisi seguite alla dissoluzione dell’Urss tra la Federazione russa e i Paesi di transito dei metanodotti (il più importante dei quali è proprio l’Ucraina) che collegano i giacimenti della Siberia ai mercati europei. Lo sganciamento dell’Europa dal gas russo, i cui acquisti, regolati da contratti a lunghissimo termine, hanno assicurato per 50 anni al Vecchio continente convenienza e stabilità dei prezzi, ha aperto una fase di incertezza e turbolenze che continuerà ad avere conseguenze pesanti per famiglie e imprese.
I limiti del piano Mattei propagandato da Meloni
Per aumentare il loro grado di autonomia energetica, Germania e Italia hanno in programma la costruzione di impianti galleggianti di rigassificazione per la trasformazione del Gnl dallo stato liquido a quello gassoso. Ma sarà sufficiente? Da una ricerca tedesca curata dall’Istituto di Economia dell’energia dell’Università di Colonia emerge che una parte dei rigassificatori programmati in Germania potrebbe rivelarsi superflua. Anche l’Italia corre un rischio del genere? In risposta alla crisi energetica, il governo italiano intanto prepara un Piano Mattei per l’Africa, propagandato da circa un anno dalla premier Giorgia Meloni, ma di cui si sa ancora poco e niente, e che molto difficilmente, come scrivono Greco e Oddo potrà anche solo somigliare a quello attuato dal fondatore dell’Eni in Africa. Lettera43 vi propone un estratto del primo capitolo di L’arma del gas.
L’arma del gas (Feltrinelli).
Era il 25 ottobre 2022 quando Giorgia Meloni, nel suo discorso alla Camera per il voto di fiducia, estrasse dal cilindro, con una suggestiva alzata d’ingegno, l’idea di un “piano Mattei per l’Africa”, proponendo il modello di collaborazione tra continente europeo e continente africano che aveva ispirato il fondatore dell’Eni. Da allora è passato un anno e questo piano somiglia sempre più a un’araba fenice di cui tutti parlano, ma che nessuno ha mai visto. Forse ne sapremo di più dopo l’uscita di questo libro. Il riferimento che abbiamo colto nell’accenno del capo del governo a Mattei è alle joint venture con gli Stati arabi che l’Eni avviò negli anni cinquanta per accompagnarne la crescita e per assicurare all’Italia (povera di materie prime e impegnata a rimettere in piedi il suo sistema industriale) l’accesso a fonti di energia a basso prezzo. A distanza di 70 anni ci ritroviamo in una situazione simile, se non fosse che molti dei paesi con cui Mattei ebbe rapporti (dove l’Eni è tuttora presente) e che allora lottavano per l’indipendenza, oggi sono retti da regimi dittatoriali, corrotti o comunque non democratici e sono coinvolti, come nel caso della Libia, nel traffico di migranti.
A differenza dei capi delle compagnie inglesi e francesi, Mattei poté presentarsi alle giovani classi dirigenti dell’Africa decolonizzata (Ben Bella in Algeria, Nasser in Egitto, Lumumba in Congo, leader nazionalisti di ispirazione socialista) come l’imprenditore pubblico di un paese occidentale aderente alla Nato, che aveva reciso il legame con il suo passato coloniale e che offriva loro delle partnership per sviluppare alla pari un’industria petrolifera. In paesi come l’Algeria, dove l’Eni sosteneva il Fronte di liberazione nazionale in guerra contro la Francia, Mattei è considerato tuttora un martire caduto per la libertà del popolo magrebino. Le innovative aperture ai paesi arabi e le intese con l’Urss in piena guerra fredda, per lo scambio di greggio sovietico con merci italiane, facevano parte di una stessa strategia di attacco al cartello delle major anglo-americane, colpevoli, secondo l’allora presidente dell’Eni, di avere escluso l’Italia dagli accordi di spartizione delle risorse petrolifere mondiali.
Tutto questo però è storia. Mattei è stato assassinato ed è completamente cambiato il contesto operativo dell’Eni a livello internazionale. Non solo: è cambiato anche l’Eni, non più ente pubblico, ma Spa quotata in Borsa che deve dare conto delle sue scelte a una maggioranza di azionisti privati. L’Italia di oggi è un attore secondario nel continente africano. Al di là della posizione di forza che il gruppo mantiene in Egitto – dove opera da oltre sessant’anni e dove ha scoperto nel 2015 uno tra i più grandi giacimenti marini di gas – e in paesi come Algeria, Angola, Congo, Mozambico, Nigeria, il bilancio politico del nostro paese nell’area mediterranea è piuttosto magro. L’Italia conta poco politicamente anche in Libia, dove la presenza dell’Eni, maggior produttore estero locale di idrocarburi, è antica quanto quella in Egitto, e dove Roma è tra i sostenitori del governo di unità nazionale insediatosi a Tripoli nel 2015 con il favore delle Nazioni Unite e con l’obiettivo mancato di riunificare il paese sotto un’unica guida politica. Le potenze influenti, con una forte presenza militare in Libia, sono oggi la Turchia in Tripolitania e la Russia in Cirenaica, anche se indebolita dallo sforzo militare che sta affrontando in Ucraina.
«La vita è rap!», dice dal palco della Feltrinelli di Piazza Piemonte Giovanni Robertini alla presentazione del suo ultimo romanzo Morte di un trapper, con accanto Jake La Furia, davanti a una selezionatissima platea che comprende ex direttori di giornali, creativi di vario genere, conduttrici televisive di successo, uffici stampa di varie case editrici e un nutrito gruppo di ragazzini con le Jordan ai piedi e il cappellino da baseball a tesa larga infilato sulla testa. Tra i vari libri che le case editrici mi hanno mandato da leggere in anteprima quest’estate questo di Robertini è stato in assoluto quello che mi è piaciuto di più, ed essenzialmente è questo il motivo per cui stasera sono qui, invitato dall’autore in persona, con la t-shirt di Kaws e le Nike da runner ultracolorate ai piedi, come si usa tra noi del “mondo dello spettacolo”, (come direbbe Dodo). Anche se abbiamo passato i 40 da un pezzo. Esattamente come il protagonista del libro, rap star in disarmo che, suo malgrado, si troverà invischiato in una storia di omicidi, tra droga, soldi e sesso, in una Milano nera per certi versi simile a quella di Scerbanenco, ma con i Club Dogo in sottofondo e i grattacieli di City Life alle spalle. La storia di un perdente, come la mia, o di un «resistente», come ho sentito dire durante la presentazione. Un tizio esattamente come me.
La presentazione di Morte di un Trapper (dal profilo Instagram di Giovanni Robertini).
«La vita è rap!», dice dal palco della Feltrinelli di Piazza Piemonte Giovanni Robertini, ed è la stessa cosa che pensavo la settimana scorsa con davanti Sofia (che tra l’altro nel libro potrebbe benissimo essere la protagonista femminile, quella che fa innamorare la rap star 40enne), mentre dubbioso stavo quasi per accettare l’invito ad andare con lei al Marrageddon. La osservavo zompettare, con indosso un paio di mini-short di jeans strappati, i capelli sciolti e i suoi occhi color nocciola, poi vacillando le avevo chiesto: «Ma non viene Brando?». «No, vado da sola, a meno che tu non decida di venire con me», aveva risposto, tagliando corto. Io avevo tergiversato, facendo finta di non sentire, e a distanza di sicurezza l’avevo salutata, dopo aver raccolto la mia sacca con dentro i vinili di De Gregori e di Battiato che avevo appena preso da Serendeepity, inforcando la mia bici color blu diplomatico, diretto a un incontro di lavoro al quale non potevo assolutamente mancare.
Morte di un trapper di Giovanni Robertini (HarperCollins).
Ho altro per la testa in questo periodo, non ho tempo da perdere, e così la stessa settimana, uno dopo l’altro, ho declinato gli inviti di Ludovica e di Sofia, sia per Paul Weller che per Marracash. Sono sicuro che più della metà di voi avrebbe dato due dita della mano destra per avere un appuntamento con una di loro. Figurarsi con entrambe. Ma «la vita è rap» amici, e il mio flow in questo momento mi porta altrove, mi costringe a concentrarmi su me stesso, a programmare, a rimanere sul pezzo. Servono innanzitutto un progetto e la disciplina mentale per realizzarlo. Così per potenziarmi a un certo punto ho pensato anche di iscrivermi a un corso di thai chi e andare ad assistere a un incontro in via Watt, tra i Navigli e la Barona, al Moysa, il più grande e importante hub musicale a livello nazionale, con Sadhguru, il santone che riempie gli stadi come una rockstar, e fa sold out in tutto il mondo. Poi il giorno stesso DFA mi ha detto: «Il tipo è un guru come ce ne sono tanti, che la gente ascolta solo perché è figo e somiglia ad Omar Sharif. Metti al suo posto un vecchio brutto che dice le stesse cose e non se lo fila nessuno». Così ho pensato fanculo Sadhguru, e fanculo anche il thai chi, sono andato con Ofelia al cinema a vedere il nuovo film di Wes Anderson e a bordo di una jeep con i finestrini scuri mentre attraversavamo l’incrocio con Piazza Tricolore ho pensato che sarei stato in grado di affrontare qualsiasi cosa.
Per potenziarmi ho anche pensato di iscrivermi a un corso di thai chi e andare ad assistere a un incontro in via Watt, tra i Navigli e la Barona, al Moysa, il più grande e importante hub musicale a livello nazionale, con Sadhguru, il santone che riempie gli stadi. Poi il giorno stesso DFA mi ha detto: «La gente lo ascolta solo perché è figo e somiglia ad Omar Sharif. Metti al suo posto un vecchio che dice le stesse cose e non se lo fila nessuno»
«Quando scrivi il tuo libro?». Questa domanda me la sono sentita ripetere da 15 persone solo negli ultimi tre giorni. Al telefono, in mezzo alla strada, mentre preparavo un negroni dietro al banco del bar, alla presentazione del romanzo di Robertini in Feltrinelli in Piazza Piemonte, a quella del libro di Benjamin Labatut al Piccolo il giorno dopo, in fila alla cassa del supermercato. Poi una mattina di inizio ottobre nella comunità letteraria milanese hanno iniziato a circolare voci, pare diffuse da “fonti attendibili”, su un misterioso manoscritto custodito in una cassetta di sicurezza di una banca svizzera che varie case editrici si stavano contendendo partecipando ad aste furiose che avevano raggiunto ormai cifre astronomiche. Io dal canto mio non confermavo né smentivo queste voci alle presentazioni o ai cocktail a cui venivo invitato, alimentando quella che con i miei amici avevo iniziato a chiamare «la più grande truffa del rock and roll dopo i Sex Pistols». Il libro diventa l’unico argomento di cui parlo nello studio del mio psicologo, agli aperitivi con un writer abbastanza noto, agli appuntamenti in studi di registrazione dove immaginiamo futuri podcast o trasmissioni radiofoniche da me condotte. Poi una sera a una festa di un brand di moda in via Sant’Andrea, mentre i miei occhi vagavano sui ragazzi giovani con i drink in mano e sulle ragazze in tanga tacchi alti e miniabiti che ciondolavano davanti alle vetrine, mi sono reso irrimediabilmente conto che quello era un mondo a cui non appartenevo proprio più.
Sadhguru (Jaggi Vasudev) (Getty Images).
Quando torno a casa, in attesa che Ofelia rientri dal lavoro, siedo davanti al computer nel grosso tavolo al centro del salotto e penso che dovrei smettere di bere e di fumare e anche che dovrei farmi un check-up completo per vedere come sto ma poi come sempre arriva il week end e finiamo nudi, sbronzi di champagne, a cercare isole greche dove trascorrere l’estate, comprare biglietti online per andare a dei concerti jazz, ascoltare le playlist che ho preparato per qualche serata alla quale sono stato chiamato per mettere la musica, dopodiché finiamo sempre per tornare in camera da letto. Ed è in uno di quei momenti, disteso sul letto mentre mi porto alle labbra un calice colmo di champagne, il suo viso sospeso sul mio, che capisco il motivo per cui stiamo insieme da tanti anni: è l’unica persona al mondo con cui non ho bisogno di recitare.
Presentato l’atteso piano editoriale 2024-2026 del Salone del Libro di Torino. La nuova direttrice Annalena Benini ha svelato nel pomeriggio di giovedì 5 ottobre tutte le novità dell’ultima edizione 2024: sarà organizzato in sette sezioni tematiche, ognuna affidata a un curatore, con un’ampia presenza femminile. Annunciato anche il primo evento di Aspettando il Salone, che si terrà il 17 ottobre al Sermig con Patrick Zaki, con ingresso gratuito e prenotazione obbligatoria dal 6 ottobre, durante il quale l’attivista egiziano racconterà la sua esperienza in carcere.
Oggi, sul palco del Teatro Gobetti di Torino, abbiamo presentato le curatrici e i curatori di sezione e la redazione che lavorerà con @annalenabenini al Salone che verrà! pic.twitter.com/eQkHNpKN5j
Sono stati resi noti anche i nomi dei curatori delle sette sezioni tematiche, che avranno assolutà libertà creativa nel condurre gli incontri, uno per ogni giornata del Salone: Editoria sarà affidata a Teresa Cremisi; Arte a Melania Mazzucco; Romanzo allo scrittore Alessandro Piperno; Romance a Erin Doom; Leggerezza a Luciana Littizzetto; Informazione a Francesco Costa; Cinema a Francesco Piccolo.
Buon lavoro alla nostra Lucianina annunciata oggi come membro della squadra del Salone del Libro di Torino (sarà curatrice della sezione Leggerezza). pic.twitter.com/NETj8SsqEM
«Sono grata ai curatori per avere accettato questo incarico. Sono tutti qui», ha detto la nuova direttrice Benini aggiungendo che, oltre alle sezioni tematiche, ci sarà una redazione formata da Paola Peduzzi, Igiaba Scego, Francesca Sforza e Tiziana Triana. Tra i collaboratori tecnici Ilide Carmignani per l’area traduzione; Giusi Marchetta per l’area ragazzi e scuole; Sara Speciani, per l’area professionale. «Con questa squadra faremo del nostro meglio per fare un bellissimo Salone» ha affermato, spiegando anche che «sarà un Salone particolarmente attento ai ragazzi, abbiamo bisogno di ascoltarli e accogliere le loro istanze. Il libro del nostro progetto speciale Un libro tante scuole sarà Cime tempestose di Emily Bronte».
.@annalenabenini, Direttrice editoriale del Salone Internazionale del Libro di Torino: "Sono veramente felice di essere qui e di potervi raccontare le idee che ho per il Salone del Libro. Il Salone appartiene a tutti, e sono davvero felice di essere parte di una cosa così grande" pic.twitter.com/q90qLdWX7w
«Sono molto emozionata, ma non ho paura» ha dichiarato la nuova direttrice che ritiene «l’indipendenza» del Salone del Libro oltre che «scontata» anche «punto di partenza per lavorare, non ne conosco altri». Benini ha specificato di non avere avuto alcuna interlocuzione con esponenti del governo durante la messa a punto del suo programma.
Inedita dark comedy girata in Liguria, prodotta e distribuita da Ahora! Film, dal 5 ottobre 2023 arriva nelle sale italiane La fortuna è in un altro biscotto. Opera prima del regista ligure Marco Placanica, il film vede protagonisti attori provenienti dal ricco vivaio di talenti genovesi come Manuel Zicarelli (regista e sceneggiatore italiano, che ha scritto e diretto la pellicola Ho bisogno di te), Enzo Paci (protagonista della serie tv Rai Blanca), Fabrizio Contri (Distretto di Polizia, Don Matteo, Incantesimo 8, Esterno Notte e Rapito di Bellocchio), Daniela Camera (Lost in Laos, Don Matteo 10, Rec – Fattore Umano) che formano un affiatato cast corale affiancato dalle migliori maestranze del territorio ligure.
Al centro del film il rapporto tra genitori e figli
In La fortuna è in un altro biscotto, la provincia ligure fa da sfondo a una storia universale che racconta il difficile rapporto con i genitori e di un conto in sospeso, di un lutto non ancora elaborato e della difficolta? di diventare adulti senza sprofondare nelle sabbie mobili create dalle generazioni precedenti. Protagonisti di queste storie, diverse ma intrecciate tra loro, sono Leo e l’ostinato tentativo di mantenere un legame con il suo passato, Virginia e Federico, intrappolati nella speranza di un amore da romanzo irrealizzabile, Tonino Paffone e Manfredo Collini, due uomini ossessionati dal desiderio di predominanza e prevaricazione.
Tre nuovi film sono entrati nel programma della Festa del Cinema di Roma (dal 18 al 29 ottobre). Nella sezione Grand Public sarà presentato Gonzo Girl, esordio alla regia di Patricia Arquette. La Storia del Cinema ospiterà American Badass: A Michael Madsen retrospective di Dominique Milano, mentre la sezione Freestyle proporrà l’anteprima di Lucio Ameliodi Nicolangelo Gelormini. Ad annunciarlo la direttrice artistica Paola Malanga con Gian Luca Farinelli, presidente della Fondazione Cinema per Roma, e la direttrice generale Francesca Via.
Gonzo Girl è ispirato all’omonimo romanzo di Cheryl Della Pietra
Firmato da Patricia Arquette, attrice di culto premiata con l’Oscar nel 2015 per Boyhood di Richard Linklater e interprete per cineasti come Tony Scott (Una vita al massimo), Tim Burton (Ed Wood) e David Lynch (Strade perdute), Gonzo Girl è ispirato all’omonimo romanzo autobiografico di Cheryl Della Pietra in cui la scrittrice racconta la sua folle esperienza come assistente di Hunter S. Thompson (l’autore di Paura e disgusto a Las Vegas), il padre del cosiddetto “gonzo journalism”, stile che combina elementi di giornalismo convenzionale, impressioni personali e artifici narrativi. Protagonisti Willem Dafoe e Camila Morrone.
American Badass è un docu-film dedicato a Michael Madsen
Il documentario American Badass: A Michael Madsen retrospective di Dominique Milano ripercorre la carriera di Madsen, dall’esordio in film come Wargames – Giochi di guerra e Il migliore passando per il successo di Thelma & Louise di Ridley Scott per giungere alle sue interpretazioni in alcuni capolavori di Quentin Tarantino come Le Iene, la saga di Kill Bill e The hateful eight. Il viaggio alla scoperta dei suoi film, più di 170, è stato reso possibile grazie alle testimonianze di coloro che hanno lavorato con lui, fra cui lo stesso Tarantino, John Travolta, Ron Perlman, Charlie Sheen e Daryl Hannah.
La personalità di Lucio Amelio è al centro del documentario di Gelormini
Attraverso le interviste dirette e il materiale d’archivio, il documentario di Gelormini ha indagato lo spirito cangiante di Lucio Amelio. Da un lato l’anfitrione devoto agli artisti, il pioniere delle nuove correnti del 900, il propugnatore delle teorie e il centro del dibattito poetico. Dall’altro il businessman e genio partenopeo che ha colto le occasioni e letto la realtà per conquistare il mondo con Napoli e far conquistare Napoli dal mondo.
A un certo punto, nel secondo atto, la protagonista umana di Raffa in the Sky – la casalinga-operaia-immigrata-dal-Sud Carmela – concede finalmente sfogo al suo dolore e alla sua ira per quello che ritiene essere stato il tradimento del marito, Vito, dalla quale si è separata. Di lì a poco l’extraterrestre Raffaella Carrà (sempre meno extra e sempre più terrestre, come la s’immagina in questo spettacolo) arriverà a sanare anche questa ferita, taumaturga pop del proletariato dopo il Boom economico, gli anni di piombo, l’edonismo reaganiano e la caduta del Muro. Ma intanto la donna si prende il centro della scena e canta la sua grande Aria: «Mi tradì, quel Vito ingrato». Solo con le parole un po’ cambiate, è l’Aria di Donna Elvira nel secondo atto diDon Giovanni(«Mi tradì quell’alma ingrata», prodigiosa aggiunta alla partitura del debutto praghese, scritta per la rappresentazione del capolavoro a Vienna). E lo è soprattutto per la musica, un calco piuttosto sbiadito (difficile dire quanto volutamente) della celebre pagina mozartiana. Naturalmente, il povero Vito non è per nulla un «giovane cavaliere estremamente licenzioso» che fa soffrire chi lo ama. E la sua piccola storia di fan ingenuamente innamorato di una soubrette televisiva entrata nella storia del gusto nazional-popolare non si configura certo come il momento fondante di una mitologia della cultura occidentale moderna. La citazione, forse la più evidente in una partitura che ne è ricolma, lungo un libretto che le “chiama” e le dispone con ironia e autoironia, è semmai una sorta di voluto straniamento, una cesura che serve a rendere attendibile, nel contrasto con ciò che precede e che segue quella scena ma anche dentro alla drammaturgia complessiva, il grande proclama che ha fatto da insegna dell’operazione Raffa in the sky: trattasi di opera, al limite “fantaopera”, come dice la locandina, ma guai a parlare di musical.
Una scena di Raffa in the Sky (foto di Gianfranco Rota).
La presenza di personaggi e vicende del nostro tempo nell’opera contemporanea non è una novità
Preceduta da una campagna di promozione mass-mediatica forse senza precedenti almeno in tempi recenti, questa produzione della Fondazione Donizetti per Bergamo e Brescia Capitali italiane della Cultura è stata motivata (anche) con una teoria francamente opinabile. La presenza di un personaggio e di vicende del nostro tempo nell’opera contemporanea non è infatti per nulla una scelta oggi poco frequente, da affermare con coraggioso sprezzo del pericolo, immaginando che così avrebbe fatto il genius loci Donizetti, come Francesco Micheli, ideatore del progetto e regista dello spettacolo, si è premurato di ribadire in una pioggia di interviste e interventi. E del resto, nell’impeccabile programma di sala chiariscono quanto il mondo contemporaneo sia presente nell’opera odierna sia il musicologo Dario Olivieri che Alberto Mattioli, il giornalista e scrittore super-esperto di melodramma che qui ha firmato il libretto, a quattro mani con Renata Ciaravino.
Raffa in the Sky ha debuttato venerd’ 29 settembre al Donizzetti di Bergamo (foto di Gianfranco Rota).
La resa modesta di una drammaturgia intrigante che spazia dal ruolo della tv al divismo fino al trionfo del pop
Resta la realtà di una iniziativa complessa esattamente come lo è il genere operistico, sicuramente intrigante per la somma dei motivi (non in senso musicale) che sottendono la drammaturgia – dal ruolo della tv nella società italiana al divismo, dal trionfo del pop a quel certo buonismo che sembra elemento imprescindibile nella vicenda della diva, per finire con un implicito, talvolta ellittico ma non meno evidente sguardo critico sull’Italia degli ultimi 50 anni. Che poi tutto sia stato delineato al meglio e “combinato” con eguale efficacia nello spettacolo, non ci sentiamo di dire. Il “plot” ideato da Ciaravino e Mattioli si basa sull’idea – peraltro ben presente nell’universo pop – che l’artista provenga da un mondo alieno e a esso alla fine rinunci. Modellato sulla vicenda di Raffaella Carrà, tale “concept” si delinea come una sorta di parabola, nella quale l’algida diversità della extraterrestre detentrice della bellezza e della creatività artistica è sottoposta a una progressiva erosione a contatto con gli umani, con tutte le loro debolezze e piccolezze. Quindi, alla fine, l’inviata di Apollo XI, monarca del pianeta Arkadia (nome-simbolo dell’astrattezza di certa tradizione culturale), sceglierà il pianeta Terra e soprattutto (ma questo è sottinteso) il pianeta Italia con i suoi abitanti, simboleggiati dalla coppia in crisi Carmela-Vito con il loro figliolo, che lotta per affermare la sua diversità. Il tutto si dipana in uno spettacolo drammaturgicamente diseguale, dalle spiccate tendenze narrative, che vive sulla brillantezza di alcuni passaggi del libretto ma non sempre riesce a chiarire il racconto e specialmente il suo senso, nelle ambivalenze di commedia e dramma. Non aiuta un evidente sbilanciamento fra un primo atto in cui succede quasi tutto (dal punto di vista della Carrà e della sua carriera) e un secondo in cui il discorso prevalente è sulla crisi della coppia comune.
Chiara Dello Iacovo nei panni di Raffaella Carrà (foto di Gianfranco Rota).
Una partitura lunga e irta da un lato di un citazionismo quasi compulsivo e dall’altro di reiterati esempi di scrittura “alla maniera di”
Quanto alla musica, le reiterate professioni di fede (reperibili sempre nell’indispensabile programma di sala) nei confronti del verbo post-moderno e post-minimalista da parte del 36enne compositore Lamberto Curtoni e del suo mentore musicale Carlo Boccadoro (in questa produzione è il direttore d’orchestra) si risolvono – al di là del dettaglio mozartiano raccontato sopra – in una partitura lunga e irta da un lato di un citazionismo quasi compulsivo e dall’altro di reiterati esempi di scrittura “alla maniera di”. Cajkovskij e Bach (rilevante il tessuto contrappuntistico nel finale primo), Monteverdi (certi recitativi del secondo atto sono fra i momenti interessanti dell’opera) e financo Gershwin (l’attacco del clarinetto nella Rapsodia in blu, ovvio…) ne costituiscono, con il doveroso Donizetti e probabilmente con molto altro, il tessuto connettivo. Ma nell’insieme, il risultato è quello di sottolineare la mancanza di punti di riferimento di reale efficacia drammaturgica. Un’invenzione ricca nello strumentale quanto povera di fatto nelle aperture melodiche, anche sul piano di una vocalità indecisa fra il declamato e l’arioso. Discorso a parte per quanto riguarda l’inevitabile presenza delle “hit” della Carrà, canzonette di geniale vivacità comunicativa che nel filtro un po’ sussiegoso di Curtoni diventano come dei “letimotive” un po’ stanchi, appannati. Che non rendono alla canzone pop italiana degli Anni 70 e 80 quel che le spetta e neppure riescono a portare il discorso musicale di Raffa in the Sky, per fare un gioco di parole, su un altro pianeta. Uno scatto che sarebbe necessario ma rimane il più delle volte sui blocchi di partenza.
Una scena di Raffa in the Sky (foto di Gianfranco Rota).
Brilla Carmela Remigio e se la cava Haris Andrianos, meno convincente la Raffa di Chiara Dello Iacovo
Dentro a questa cornice, la compagnia di canto se la sbriga con professionalità nei ruoli “operistici”. Brilla la classe di Carmela Remigio (Carmela), che del resto ha pratica dell’Aria di Elvira e sa cantare recitando; se la cava con scioltezza il baritono Haris Andrianos nel ruolo di suo marito Vito. Positivi anche il tenore Dave Monaco e il mezzosoprano Gaia Petrone, entrambi in triplice ruolo ma con evidenza l’uno nei panni del re di Arkadia, l’irritabile e disincantato Apollo XI, (pronto peraltro alla fine a farsi irretire dal ritmo delle canzonette di Raffa); l’altra nella parte di Luca, figlio di Vito e Carmela alla ricerca di sé stesso. Roberto Lorenzi rende bene il mistero un po’ inquietante che avvolge la cupa figura del consigliere Fidelius, così come il tono mellifluo del Grande Censore (quello che si oppone al Tuca Tuca) e dell’invadente impresario tv, dando voce anche alla Star di Hollywood. Molto meno convincente la prova fornita dall’interprete di Raffaella Carrà. Chiara Dello Iacovo – forse anche per la tensione del debutto – ha cantato il pop con generica brillantezza e voce diseguale, lontana dalla spumeggiante verve che era il marchio di fabbrica della soubrette, e non è apparsa nella parte come sarebbe stato auspicabile, con una recitazione piuttosto rigida, talvolta trasandata. Non memorabili i momenti in cui deve ballare, peraltro assai pochi. Il suo personaggio bucava lo schermo, lei alla prima è sembrata tenere con fatica la scena, senza riuscire quasi mai a incidere davvero.
Raffa in the Sky (foto di Gianfranco Rota).
L’orchestra Donizetti Opera diretta con precisione da Boccadoro ha fatto il suo dovere
Diretta con precisione da Boccadoro, l’orchestra Donizetti Opera ha fatto il suo dovere, ben coadiuvata dagli strumentisti dell’ensemble Sentieri Selvaggi. Lo spettacolo di Francesco Micheli (scene Edoardo Sanchi, costumi riccamente evocativi e inevitabilmente coloratissimi di Alessio Rosati, coreografie rivedibili di Mattia Agatiello, luci di Alessandro Andreoli) ha puntato a delineare un racconto favolistico-fumettistico che nell’insieme ha offerto un appropriato taglio interpretativo del pop televisivo all’italiana. Collocato su un alto praticabile il coro di voci bianche Piccoli Musici di Casazza, che dava voce agli abitanti di Arkadia, affidati a fantasiosi e rutilanti “sipari” di perline i cambi di scena, lo spazio del palco è stato caratterizzato da pochi elementi disegnati, facilmente spostabili dagli stessi interpreti: frammenti d’immagine, capaci di alludere con efficacia agli spazi altri e diversi della difficile quotidianità incombente nella storia. Il teatro Donizetti era al gran completo, presenze istituzionali e di governo comprese. Pubblico benevolo, non privo di claque, disponibile a qualche risata o a qualche applauso a scena aperta. Alla fine, una decina di minuti festeggiamenti. Trasmesso in differita su Rai5 la sera di venerdì 29 settembre, lo spettacolo è ora disponibile su Raiplay.
Una commossa standing ovation ha accolto GiuseppeTornatore al Museo dell’Academy of Motion Pictures di Los Angeles. Davanti a una platea di mille persone, il regista italiano ha presentato la proiezione del suo film più famoso nel mondo, Nuovo Cinema Paradiso, che gli valse l’Oscar nel 1990. «Quella sera di 33 anni fa, per uno sciocco malinteso, tutto il tempo a disposizione sul palco fu occupato dai miei produttori. Io non riuscii a dire nulla», ha ricordato a un pubblico emozionato ed eterogeneo di famiglie, ragazzi e cinefili più attempati. «Lo faccio ora: grazie per questo premio magnifico, che ha regalato al film una lunga vita costellata di successi in tutto il mondo».
Cinecittà ha portato all’Academy Museum una rassegna del cinema italiano
La proiezione della pellicola classica con PhilippeNoiret e il piccolo SalvatoreCascio, nella versione restaurata da Cinecittà, ha rappresentato l’evento culmine di un omaggio al cinema italiano realizzato da Cinecittà grazie alla collaborazione con la prestigiosa istituzione americana. Due rassegne, in programma dal 6 settembre al 25 novembre, che stanno proponendo al pubblico di Los Angeles lungometraggi di registi contemporanei (da Suspiria di Luca Guadagnino a Lazzaro Felice di Alice Rohrwacher o Martin Eden di Pietro Marcello) e opere musicate da EnnioMorricone, proprio come Nuovo Cinema Paradiso. «La collaborazione con il Museo dell’Academy scaturisce dal desiderio di avere un ponte privilegiato con l’industria americana, sia celebrando il passato che mostrando il presente della nostra produzione cinematografica, ancora ricchissima. Puntiamo a rendere i nostri film sempre più consueti all’interno della loro programmazione», ha commentato all’Ansa l’amministratore delegato di Cinecittà NicolaMaccanico. D’altra parte l‘Italia è il paese che ha vinto più Oscar per il miglior film straniero, con 11 statuette su 29 candidature. «Dobbiamo valorizzare il nostro patrimonio e continuare promuoverlo, anche attraverso il restauro, che dona una nuova vita alle opere», ha sottolineato Chiara Sbarigia, presidentessa di Cinecittà. A chiudere la rassegna New Italian Cinema – Nuovo Cinema Italiano sarà il 4 ottobre un altro film che ha unito i due maestri, il documentario Ennio.
«È stato come volare di notte senza strumentazione, con la sola luce di un faro ogni tanto, e quel faro erano i dialoghi di Peter Handke». Così tanti anni fa Wim Wenders ricordava Il cielo sopra Berlino, il film cult, uno dei capolavori del regista tedesco, che tornerà dal 2 ottobre nelle sale italiane nella versione restaurata dalla Wim Wenders Foundation grazie alla collaborazione tra la cineteca di Bologna, con il suo progetto per la distribuzione dei classici restaurati Cinema ritrovato al cinema, e CG Entertainment, nuovo distributore per l’Italia della library dei film del regista. Nel 1987, Il cielo sopra Berlino vinse il premio per la miglior regia a Cannes e a distanza di tanti anni è forse il suo film più amato in una cinematografia lunghissima che spazia dal seminale Falso movimento a Lo stato delle cose, da Paris Texas a Così lontano cosi vicino, senza dimenticare documentari meravigliosi – primo tra tutti Buena Vista Social Club ma anche Pina,Il sale della terra e Francesco.
Trama e cast del film
Il cielo sopra Berlino è abitato da angeli. Condividono lo spazio, ma non il tempo, né il colore, con gli umani. Nella pellicola ci sono Bruno Ganz, attore-feticcio di Wenders, Solveig Dommartin, Peter Falk nei panni di una star del cinema (e di se stesso) e quella di Nick Cave, meravigliosamente immortalato da Wenders insieme ai suoi Bad Seeds. A testimonianza della forte passione di Wenders per il rock, e per la new ave in particolare, nella colonna sonora del film vi sono brani di Laurie Anderson, Tuxedomoon, Crime & The City Solution, Minimal Compact, Sprung aus den Wolken e Laurent Petitgand.
Dal 4 gennaio Wenders arriverà nelle sale con Perfect Days
Il regista tedesco non solo sarà nelle sale italiane con la versione restaurata de Il cielo sopra Berlino. Con una ritrovata creatività e una poesia delle origini, il 4 gennaio 2024 tornerà con Perfect Days, film prodotto da Lucky Red, presentato a Cannes e candidato dal Giappone per la selezione all’Oscar per il film internazionale, in concorrenza con il film di Garrone che rappresenterà l’Italia.
Li chiamavano cannibali ed erano un gruppo di giovani «sfrenati e intemperanti scrittori» che a metà degli Anni 90 incendiarono la scena letteraria. Il nome gli fu affibbiato dopo l’uscita di una fortunata raccolta di racconti pubblicata dalla allora neonata collana Stile Libero di Einaudi che comprendeva scritti, tra gli altri, di Niccolò Ammaniti, Aldo Nove, Daniele Luttazzi e Andrea G. Pinketts. Le loro storie avevano quasi sempre come protagonisti giovani arrembanti che si barcamenavano tra violenze carnali, efferati omicidi, consumo smodato di droghe, alcolici e psicofarmaci, nonché pratiche sessuali estreme e promiscue. Sono passati quasi 30 anni da allora ma in letteratura il tema del disagiogiovanile funziona ancora, sebbene con sfumature totalmente diverse. Tre titoli appena sbarcati nelle librerie lo dimostrano.
25 di Bernardo Zannoni (Sellerio)
Era attesissimo, e non ha deluso, 25, il secondo romanzo di Bernardo Zannoni, il golden boy della letteratura italiana del momento. Torna a far parlare di sé il giovane autore di Sarzana, classe 1995, dopo la riuscitissima prova d’esordio I miei stupidi intenti, che oltre ad aver vinto una vagonata di premi tra cui il Campiello è stata tradotta in oltre 10 Paesi. Il nuovo romanzo, già bollato dalla critica come il ritratto di una generazione, vede protagonista Gerolamo, un ragazzo disoccupato di 25 anni che fa tardi la notte e dorme la mattina. Le parole chiave sono sempre le solite: crisi, inappartenenza al mondo, paura del futuro. Zannoni riesce però con la sua scrittura a uscire dai cliché in maniera sorprendentemente efficace raccontando la storia di Gerolamo con uno sguardo allo stesso tempo divertito e sgomento che lascia intravedere un briciolo di speranza in fondo al tunnel che porta il problematico post-adolescente verso l’età adulta. In tre parole, una piacevole conferma.
25 di Bernardo Zannoni (Sellerio).
Polveri sottili di Gianluca Nativo (Mondadori)
Torna in pista anche Gianluca Nativo, autore napoletano classe 1990, anche lui alla sua seconda fatica letteraria ambientata tra Napoli, Londra e Milano che narra la storia d’amore di due ragazzi, Eugenio e Michelangelo, alle prese con il delicato momento di passaggio dall’adolescenza all’età adulta: dall’amore sbocciato tra i vicoli del quartiere universitario di Napoli a una proposta di lavoro in un ospedale londinese, fino al trasferimento di entrambi in un altro mondo che mette a dura prova il loro rapporto e la loro stessa identità. Un romanzo, Polveri sottili, che cita Tondelli, già dalla frase in esergo, e che non privo di malinconia racconta la necessaria uscita dalla bolla di un’amore giovanile praticamente uguale a quello che ognuno di noi nella vita ha vissuto almeno una volta.
Polveri sottili di Gianluca Nativo (Mondadori).
Autoritratto newyorkese di Maurizio Fiorino (e/o)
È la storia di un fotografo 23enne invece quella raccontata da Maurizio Fiorino in Autoritratto newyorkese. La scelta di un ragazzo che decide di lasciare la provincia italiana e trasferirsi negli Stati Uniti a cercare fortuna. Finirà a fare il go-go boy nei locali di Alphabet City e il modello di nudo per pittori di quart’ordine. Si prostituirà e si drogherà e il tutto verrà accompagnato da una storia d’amore tossica con Louis, un disadattato che passa il suo tempo leggendo libri fantasy appollaiato su un albero fuori Manhattan. Un libro amaro, crudo, che trascina il lettore, insieme ai suoi protagonisti, in un vortice senza che la benché minima soluzione si prospetti all’orizzonte. Un’indagine esistenziale pasoliniana che non lascia scampo.
Autoritratto newyorchese di Maurizio Fiorino (e/o).
Ha aperto un nuovo locale in città, «un ristorante che è come un club», ha scritto Vogue, e così con Ofelia abbiamo prenotato un tavolo per provarlo mentre su Milano il sole è tramontato da un pezzo ed è il 29 settembre come in quella vecchia canzone dell’Equipe 84. Il posto è molto chic, ricavato in un ex asilo di fine Ottocento dalle parti di Porta Genova ed è stato progettato da uno degli studi di design più cool del momento. Come varchiamo la soglia, sugli ampi divanetti di velluto in una specie di salotto, seduto tra un gruppo di colletti bianchi e tipe con tacchi vertiginosi, riconosco un mio amico avvocato alle prese con un Martini. Ha la camicia slacciata e il nodo della cravatta, quasi sicuramente Marinella, leggermente allentato. In sottofondo la playlist (dicono curata dai dj del Volt), è assolutamente ragguardevole e in questo preciso momento sta suonando un pezzo tratto da IV, l’album dei Badbadnotgood che preferisco in assoluto.
«Ehi, il mio amico avvocato», dico, sbattendo un paio di volte le palpebre, «una vita che non ci si vede!».
«Oh cielo, ciao, davvero, sembra un secolo, come stai?», risponde. «Com’è andata l’estate?».
«Benissimo, e tu?».
«Sono appena tornato da Marettimo. Über radical, come da regolamento. Gozzi, pesce crudo. Uno sballo. E tu dov’eri amico?».
«Prevalentemente in Grecia. Cicladi. Antiparos. Conosci Ofelia?».
«No, piacere, dice, alzandosi in piedi».
«E la radio?».
«No, con la radio ho chiuso», dico, controllando qualcosa sul mio Apple Watch. «Ho portato a termine quella fase della mia esistenza. Al massimo metto i dischi da qualche parte se mi pagano bene», aggiungo, annuendo. «Al momento ho altri progetti».
«Verrai a Londra a sentire Shabaka?».
«Il concerto dove farà Love Supreme di John Coltrane? Cazzo, mi piacerebbe amico».
«Ha annunciato che sarà il suo addio al sax. Imperdibile».
«Già, ci provo, buon proseguimento nel frattempo», dico, allontanandomi.
Poi ci sediamo a un tavolo in fondo a un corridoio con i muri affrescati e mentre osservo Ofelia che guarda il menu mi sembra di essere di nuovo a New York, magari da Osteria 57 nel Village, il ristorante pescetariano di Emanuele, il fratello di Alb. Ordiniamo una catalana di gamberi rossi di Sicilia, tartare di scampo, carpaccio di dentice e un tonno rosso alla brace che ci dividiamo, sorseggiando una bottiglia di Pol Roger Sir Winston Churchill, parlando del più e del meno fino a quando non finiamo l’espresso decaffeinato e chiediamo il conto a un cameriere, intento a sparecchiare il tavolo di fianco al nostro. Seduti uno di fianco all’altra nei sedili posteriori del taxi che ci sta riportando a casa, mentre la radio trasmette Wrong dei Depeche Mode, le dico: «Mi piacerebbe tornare a Nyc. Manchiamo ormai da troppo tempo. Come cantavano gli 883, “resta la soluzione divi del rock, molliamo tutto e ce ne andiamo a New York”, ricordi?». «Sì», risponde lei, «come la prima volta che ci siamo andati e per prima cosa mi hai portata a vedere l’angolo ritratto sulla copertina di quel disco dei Beastie Boys. Molto romantico». «Cazzo, sì, dove hanno scattato la foto di Paul’s Boutique nel Lower East Side, fighissimo. Ero troppo avanti, pensa che adesso quell’incrocio tra Ludlow e Rivington Street si chiama Beastie Boys Square!».
Avevo rubato una cassetta dalla camera di mio fratello con sopra scritto a penna “il buon Vasco” e la ascoltavo a ripetizione. L’avevo consumata quella cassetta, era un live intitolato Va bene così, e conteneva delle chicche incredibili
Sono sempre stato fissato con la musica, e per certi periodi ho sviluppato per alcuni cantanti e per certe band delle vere e proprie ossessioni che spesso ciclicamente si sono addirittura riproposte. I Beastie Boys, ad esempio, che ascoltavo in loop da 18enne inquieto, animale a sangue caldo di Piazza Adigrat, sono state sicuramente una di quelle. Ma la lista, che comprende in periodi diversi della vita, tra gli altri, sicuramente anche Jovanotti, gli Articolo 31, i Sanguemisto, Fabri Fibra, i Club Dogo, i Rolling Stones, i Beatles, i Nirvana, i Radiohead, i Clash, i Doors e parecchio rap americano, oltre ovviamente a tutto il jazz, che negli ultimi anni mi ha completamente fulminato il cervello, è molto ma molto lunga. Se dovessi tornare indietro nel tempo però non posso negare che la mia prima passione in assoluto è stata sicuramente quella per Vasco, di cui tra l’altro è appena uscito un godibilissimo documentario a puntate su Netflix intitolato Il Supervissuto.
Jovanotti cantava Vasco vestito da cowboy con la maglietta con sopra scritto Yo! sul palco del Festival di Sanremo e io a nove anni in boxer, cappellino rovesciato sulla testa e Adidas alte da basket come le sue, saltavo come un pazzo davanti alla tv del salotto di casa mia in via Amedeo d’Aosta, perché Vasco era il mio idolo. Avevo rubato una cassetta dalla camera di mio fratello con sopra scritto a penna “il buon Vasco” e la ascoltavo a ripetizione. L’avevo consumata quella cassetta, era un live intitolato Va bene così, e conteneva delle chicche incredibili tipo Fegato, fegato spappolato, Colpa d’Alfredo, Bollicine, Siamo solo noi, Vita spericolata, Albachiara e una strepitosa versione psichedelica di Valium che, ovviamente, per la mia giovanissima età mi era all’epoca totalmente incomprensibile. Erano gli anni di Liberi Liberi, dei 70 mila di San Siro di Fronte del Palco, di cui avevo acquistato entrambi i vinili che facevano bella mostra in camera mia di fianco ai 45 giri degli Europe e della Steve Rogers Band. Se non ricordo male, insieme a un quadruplo album dei Beatles che raccoglieva i loro pezzi dal 1962 al 1970, che qualcuno mi aveva regalato per Natale dopo che un Carnevale a scuola alla Leonardo da Vinci avevo voluto vestirmi da George Harrison invece che da Zorro o da uno dei tre moschettieri.
«Ehi, ci sei? A cosa pensi? Sembri in catalessi», mi dice, cercando le chiavi nella sua Kelly. «Niente, pensavo che avevo voglia di comprarmi un vinile di Vasco, Colpa d’Alfredo oppure addirittura Albachiara», rispondo, e poi domando a mia volta: «Ma a te piace Vasco?». «Non particolarmente»
Il disco della folgorazione però fu sicuramente Vado al massimo, che avevo tirato su casualmente perché mi piaceva la copertina, un pomeriggio da Wimpy, un negozio in viale Monza, dove ero andato per cercare qualcosa da ascoltare prima di partire per le vacanze al mare. Quel disco rosso, con su la foto di Vasco in bianco e nero, mi accompagnò per tutta l’estate del 1991, trascorsa come di regola a casa di mia nonna sulle Hills a Rapallo, mentre, pensando a Gisella, la ragazza più bella dei Bagni Ariston, cantavo a squarciagola, senza realmente capirli, pezzi come Sono ancora in coma, Amore?! o Cosa ti fai. Nel frattempo arrivò anche il primo walkman e così, una dopo l’altra, comprai tutte le cassette di Vasco che mi mancavano, imparai tutte le sue canzoni a memoria e, nell’estate del 1993 con mia cugina e una sua amica, andai finalmente a vederlo dal vivo ad Albenga, in occasione del tour Gli spari sopra. Il primo concerto della mia vita. Successivamente mi capitò parecchie volte di andare ancora a vederlo dal vivo, forse altre cinque o sei, sempre a San Siro. L’ultima, per due giorni di fila, fu nel giugno del 2004 per la tournée Buoni o cattivi, curiosamente insieme proprio a Gli spari sopra, il maggior successo commerciale dell’intera carriera del Blasco, con oltre 1 milione di copie vendute.
Lucilla impazziva per Vasco, e io impazzivo per lei. Era da poco uscito il live di Rewind e io cantavo Quanti anni hai e L’una per te e le urlavo in faccia «fammi godere!». Lucilla impazziva per Vasco e una volta, dopo aver fatto l’amore a casa sua a San Felice, mentre ci rollavamo uno spino di caramello in terrazza anche se scopavamo già da un paio di settimane, ero l’uomo più felice del mondo. Passavo ore a guardarla e quella sera ricordo che mi disse che una volta a Sanremo l’aveva addirittura conosciuto lei, il Blasco, ed era perfino salita sulla sua barca. «Quindi Lu Lu sei tu», le risposi. Lucilla impazziva per Vasco e a San Siro quella volta era addirittura svenuta per l’emozione, o forse perché avevamo fumato troppe sigarette imbevute di ketamina. Fatto sta che l’avevo tirata su da terra con le pupille ribaltate e ricordo che faceva un caldo da impazzire. Lucilla impazziva per Vasco e comunque, anche se ci stavamo praticamente lasciando, aveva voluto a tutti i costi, chissà perché, andare assieme a vedere il concerto quella sera. Lucilla impazziva per Vasco e io la guardavo mentre cantava Albachiara e avevo le lacrime agli occhi. Lucilla impazziva per Vasco, e forse è proprio questo il motivo per cui, dopo Buoni o cattivi, ho smesso totalmente di ascoltarlo e non l’ho mai passato in radio in tanti anni nei miei programmi.
Poi il taxi si ferma sotto casa nostra, scendiamo in strada e davanti al portone accendiamo entrambi una sigaretta, lei con indosso il suo vestito Helmuth Lang, io con la camicia bianca aperta sul petto e i mocassini college ai piedi. «Ehi, ci sei? A cosa pensi? Sembri in catalessi», mi dice, cercando le chiavi nella sua Kelly. «Niente, pensavo che avevo voglia di comprarmi un vinile di Vasco, Colpa d’Alfredo oppure addirittura Albachiara», rispondo, e poi domando a mia volta: «Ma a te piace Vasco?». «Non particolarmente».