Riscoprire Ingeborg Bachmann a 50 anni dalla morte

Un mozzicone di sigaretta scivola dalle dita e cade dove non deve cadere, forse proprio sulla sua vestaglia di nylon, il fuoco rapidamente si propaga, arrivano i soccorsi, lei viene portata in un ospedale specializzato per le ustioni. È la notte del 26 settembre 1973 quando Ingeborg Bachmann, poetessa e scrittrice austriaca residente a Roma da anni, entra in ospedale. Al suo arrivo appare ancora cosciente, ma la situazione appare subito molto grave. Il 17 ottobre, dopo oltre due settimane di agonia, Bachmann muore. Molti la salutano come la massima poetessa di lingua tedesca del Novecento. Thomas Bernhard, scrittore spesso sprezzante verso i connazionali austriaci, in un suo romanzo, L’imitatore di voci, la saluta come «la scrittrice più intelligente e significativa del nostro secolo».

Ingeborg Bachmann e la Roma dove, disse, «ho imparato a vivere»

Per ricordarla a 50 anni dalla scomparsa sono state organizzate diverse iniziative, perlopiù a Roma, la città che dalla metà degli Anni 50 era diventata la sua seconda casa. «Qui ho imparato a vivere», diceva, «perché si può imparare qualcosa da loro (gli italiani, ndr) solo se si butta via tutto, ogni convinzione che si aveva prima». Passeggiate letterarie, convegni, letture e soprattutto la pubblicazione della sua più importante raccolta di poesie: Invocazione all’orsa maggiore (a cura di Luigi Reitani, Adelphi). Uscita nel ’56, questa raccolta la consacra definitivamente come un voce singolare di un panorama poetico che cercava di trovare una strada fra le gigantesche ferite della Seconda Guerra mondiale. Tra chi scriveva che non poteva esserci più poesia dopo Auschwitz, per non consolare un mondo che doveva invece continuare a riflettere, e chi cercava di ripercorrere i binari di un lirismo ormai senza più alcun posto nella società, Bachmann elabora una poesia strettamente legata alla realtà di un Paese, il suo, in macerie. Una poesia salvifica, in grado si svelare la realtà: «Vieni, grazia di suono e di fiato, / fortifica questa bocca, / quando la sua debolezza / ci atterrisce e frena. // Vieni e non ti negare, / poiché noi siamo in lotta con tanto male».

Riscoprire Ingeborg Bachmann a 50 anni dalla morte
Invocazione all’orsa maggiore (Adelphi).

La Carinzia, paradiso perduto e minacciato, il bisogno di evasione e l’Italia

La verde Carinzia (era nata a Klagenfurt, il 25 giugno 1926), con i suoi vigneti, i laghi alpini, i castelli da cartolina, è una sorta di paradiso perduto, continuamente minacciato: «Nella terra del pascolo giunsi quand’era già notte,/ fiutando le cicatrici nei prati/ e il vento, prima che si levasse./ L’amore più non pascolava,/ le campane erano spente/ e i cespugli affranti». Laureata in filosofia, con una tesi nella quale osava criticare il pontefice massimo della filosofia tedesca del Novecento, Martin Heidegger, Bachmann inizia a lavorare per la radio, poi, nel’53, con la sua prima raccolta di poesie, Il tempo dilazionato, l’immediato successo, salutato dal premio tributatole dal Gruppo 47, la formazione di scrittori e poeti di cui faceva parte fra gli altri anche il futuro premio Nobel Günther Grass. Nonostante il successo inizia a sentire l’esigenza di evadere da un ambiente dominato dagli uomini: «Nel paese dei profondi laghi e di libellule,/ sfinita bocca sulla roccia antica,/ uno chiama lo spirito dell’alba,/ prima che lascia sempre il paese». In forza di una serie di circostanze inizia a viaggiare per l’Italia, Napoli, Venezia, la Puglia, Napoli, città in grado di rapirla. Di questa inquietudine, di questa ricerca di un luogo dove poter “vivere” è intrisa l’Invocazione, come questi versi, ispirati da un viaggio a Ischia: «Frutti d’ombra dalle pareti cadono,/ la luna imbianca col suo lume la casa, e cenere/ di spenti crateri da brezza marina è portata». Questa raccolta è a tutti gli effetti la consacrazione definitiva per Bachmann, capace di elaborare una poesia assieme densa di significati ma anche di incredibile potenza lirica, in grado di emozionare, avvolgendolo, il lettore.

Riscoprire Ingeborg Bachmann a 50 anni dalla morte
Un murale di Ingerborg Bachmann a Klagenfurt.

Malina, manifesto del nascente movimento femminista

Dopo molte stazioni la poetessa si stabilisce a Roma, dove trova la sua abitazione definitiva in via Giulia, a due passi da Campo de’ Fiori, in quei vicoli maleodoranti dove ancora si manifestava la presenza della mala romana, con tutto il suo corollario di strozzini (chiamati “cravattari”), esattori e altra banditaglia varia. Lei si immerge in questa rumorosa quotidianità, affascinata però più che dal frenetico andirivieni, dal senso di decadenza che trasudava: «Qui a Roma», scrive in Quel che ho visto e sentito a Roma, «il Tevere è bello, ma trascurato. L’isola Tiberina è un’isola di malati e di morti. Al Ghetto non bisogna lodare il giorno prima che faccia sera». Negli anni successivi si dedica soprattutto alla prosa, raccolte di racconti, come Tre sentieri per il lago, definito da Pietro Citati una delle più belle di tutto il Novecento, e il Trentesimo anno. Progetta una trilogia intitolata Cause di morte, il primo tassello, Malina è un romanzo amatissimo da quelle nuove generazioni che cercavano di cambiare assetti sociali ed equilibri, diventato presto una sorta di manifesto del nascente movimento femminista. Il ciclo rimane incompleto, la sua eredità però attraversa le generazioni, come quei confini, di cui parlava in una delle sue poesie: «Siano i confini pur in ogni parola:/ per nostalgia li attraverseremo/ e saremo in armonia con ogni luogo».

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