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L’arma del gas, così l’Europa è diventata dipendente dalla Russia: un estratto
La decisione dei governi europei di affrancarsi dalle importazioni di gas dalla Russia, per decenni tra i nostri maggiori fornitori di materie prime energetiche, ha portato a un forte aumento dei prezzi del metano e dell’elettricità, che a oltre un anno e mezzo dallo scoppio della guerra in Ucraina risultano più che raddoppiati rispetto alla media storica degli ultimi 20 anni e non accennano a diminuire. Andrea Greco e Giuseppe Oddo ripercorrono ne L’arma del gas (Feltrinelli) la storia delle intese che hanno portato l’Europa occidentale a una sempre maggiore dipendenza dal gas siberiano – dagli accordi degli Anni 60 tra l’Eni e l’Unione sovietica a quelli sottoscritti dalla Germania – e analizzano le cause delle crisi seguite alla dissoluzione dell’Urss tra la Federazione russa e i Paesi di transito dei metanodotti (il più importante dei quali è proprio l’Ucraina) che collegano i giacimenti della Siberia ai mercati europei. Lo sganciamento dell’Europa dal gas russo, i cui acquisti, regolati da contratti a lunghissimo termine, hanno assicurato per 50 anni al Vecchio continente convenienza e stabilità dei prezzi, ha aperto una fase di incertezza e turbolenze che continuerà ad avere conseguenze pesanti per famiglie e imprese.
I limiti del piano Mattei propagandato da Meloni
Per aumentare il loro grado di autonomia energetica, Germania e Italia hanno in programma la costruzione di impianti galleggianti di rigassificazione per la trasformazione del Gnl dallo stato liquido a quello gassoso. Ma sarà sufficiente? Da una ricerca tedesca curata dall’Istituto di Economia dell’energia dell’Università di Colonia emerge che una parte dei rigassificatori programmati in Germania potrebbe rivelarsi superflua. Anche l’Italia corre un rischio del genere? In risposta alla crisi energetica, il governo italiano intanto prepara un Piano Mattei per l’Africa, propagandato da circa un anno dalla premier Giorgia Meloni, ma di cui si sa ancora poco e niente, e che molto difficilmente, come scrivono Greco e Oddo potrà anche solo somigliare a quello attuato dal fondatore dell’Eni in Africa. Lettera43 vi propone un estratto del primo capitolo di L’arma del gas.
Era il 25 ottobre 2022 quando Giorgia Meloni, nel suo discorso alla Camera per il voto di fiducia, estrasse dal cilindro, con una suggestiva alzata d’ingegno, l’idea di un “piano Mattei per l’Africa”, proponendo il modello di collaborazione tra continente europeo e continente africano che aveva ispirato il fondatore dell’Eni. Da allora è passato un anno e questo piano somiglia sempre più a un’araba fenice di cui tutti parlano, ma che nessuno ha mai visto. Forse ne sapremo di più dopo l’uscita di questo libro. Il riferimento che abbiamo colto nell’accenno del capo del governo a Mattei è alle joint venture con gli Stati arabi che l’Eni avviò negli anni cinquanta per accompagnarne la crescita e per assicurare all’Italia (povera di materie prime e impegnata a rimettere in piedi il suo sistema industriale) l’accesso a fonti di energia a basso prezzo. A distanza di 70 anni ci ritroviamo in una situazione simile, se non fosse che molti dei paesi con cui Mattei ebbe rapporti (dove l’Eni è tuttora presente) e che allora lottavano per l’indipendenza, oggi sono retti da regimi dittatoriali, corrotti o comunque non democratici e sono coinvolti, come nel caso della Libia, nel traffico di migranti.
A differenza dei capi delle compagnie inglesi e francesi, Mattei poté presentarsi alle giovani classi dirigenti dell’Africa decolonizzata (Ben Bella in Algeria, Nasser in Egitto, Lumumba in Congo, leader nazionalisti di ispirazione socialista) come l’imprenditore pubblico di un paese occidentale aderente alla Nato, che aveva reciso il legame con il suo passato coloniale e che offriva loro delle partnership per sviluppare alla pari un’industria petrolifera. In paesi come l’Algeria, dove l’Eni sosteneva il Fronte di liberazione nazionale in guerra contro la Francia, Mattei è considerato tuttora un martire caduto per la libertà del popolo magrebino. Le innovative aperture ai paesi arabi e le intese con l’Urss in piena guerra fredda, per lo scambio di greggio sovietico con merci italiane, facevano parte di una stessa strategia di attacco al cartello delle major anglo-americane, colpevoli, secondo l’allora presidente dell’Eni, di avere escluso l’Italia dagli accordi di spartizione delle risorse petrolifere mondiali.
Tutto questo però è storia. Mattei è stato assassinato ed è completamente cambiato il contesto operativo dell’Eni a livello internazionale. Non solo: è cambiato anche l’Eni, non più ente pubblico, ma Spa quotata in Borsa che deve dare conto delle sue scelte a una maggioranza di azionisti privati. L’Italia di oggi è un attore secondario nel continente africano. Al di là della posizione di forza che il gruppo mantiene in Egitto – dove opera da oltre sessant’anni e dove ha scoperto nel 2015 uno tra i più grandi giacimenti marini di gas – e in paesi come Algeria, Angola, Congo, Mozambico, Nigeria, il bilancio politico del nostro paese nell’area mediterranea è piuttosto magro. L’Italia conta poco politicamente anche in Libia, dove la presenza dell’Eni, maggior produttore estero locale di idrocarburi, è antica quanto quella in Egitto, e dove Roma è tra i sostenitori del governo di unità nazionale insediatosi a Tripoli nel 2015 con il favore delle Nazioni Unite e con l’obiettivo mancato di riunificare il paese sotto un’unica guida politica. Le potenze influenti, con una forte presenza militare in Libia, sono oggi la Turchia in Tripolitania e la Russia in Cirenaica, anche se indebolita dallo sforzo militare che sta affrontando in Ucraina.