Il Supervissuto e la mia folgorazione giovanile per Vasco: il racconto della settimana

Ha aperto un nuovo locale in città, «un ristorante che è come un club», ha scritto Vogue, e così con Ofelia abbiamo prenotato un tavolo per provarlo mentre su Milano il sole è tramontato da un pezzo ed è il 29 settembre come in quella vecchia canzone dell’Equipe 84. Il posto è molto chic, ricavato in un ex asilo di fine Ottocento dalle parti di Porta Genova ed è stato progettato da uno degli studi di design più cool del momento. Come varchiamo la soglia, sugli ampi divanetti di velluto in una specie di salotto, seduto tra un gruppo di colletti bianchi e tipe con tacchi vertiginosi, riconosco un mio amico avvocato alle prese con un Martini. Ha la camicia slacciata e il nodo della cravatta, quasi sicuramente Marinella, leggermente allentato. In sottofondo la playlist (dicono curata dai dj del Volt), è assolutamente ragguardevole e in questo preciso momento sta suonando un pezzo tratto da IV, l’album dei Badbadnotgood che preferisco in assoluto.

«Ehi, il mio amico avvocato», dico, sbattendo un paio di volte le palpebre, «una vita che non ci si vede!».
«Oh cielo, ciao, davvero, sembra un secolo, come stai?», risponde. «Com’è andata l’estate?».
«Benissimo, e tu?».
«Sono appena tornato da Marettimo. Über radical, come da regolamento. Gozzi, pesce crudo. Uno sballo. E tu dov’eri amico?».
«Prevalentemente in Grecia. Cicladi. Antiparos. Conosci Ofelia?».
«No, piacere, dice, alzandosi in piedi».
«E la radio?».
«No, con la radio ho chiuso», dico, controllando qualcosa sul mio Apple Watch. «Ho portato a termine quella fase della mia esistenza. Al massimo metto i dischi da qualche parte se mi pagano bene», aggiungo, annuendo. «Al momento ho altri progetti».
«Verrai a Londra a sentire Shabaka?».
«Il concerto dove farà Love Supreme di John Coltrane? Cazzo, mi piacerebbe amico».
«Ha annunciato che sarà il suo addio al sax. Imperdibile».
«Già, ci provo, buon proseguimento nel frattempo», dico, allontanandomi.

Poi ci sediamo a un tavolo in fondo a un corridoio con i muri affrescati e mentre osservo Ofelia che guarda il menu mi sembra di essere di nuovo a New York, magari da Osteria 57 nel Village, il ristorante pescetariano di Emanuele, il fratello di Alb. Ordiniamo una catalana di gamberi rossi di Sicilia, tartare di scampo, carpaccio di dentice e un tonno rosso alla brace che ci dividiamo, sorseggiando una bottiglia di Pol Roger Sir Winston Churchill, parlando del più e del meno fino a quando non finiamo l’espresso decaffeinato e chiediamo il conto a un cameriere, intento a sparecchiare il tavolo di fianco al nostro. Seduti uno di fianco all’altra nei sedili posteriori del taxi che ci sta riportando a casa, mentre la radio trasmette Wrong dei Depeche Mode, le dico: «Mi piacerebbe tornare a Nyc. Manchiamo ormai da troppo tempo. Come cantavano gli 883, “resta la soluzione divi del rock, molliamo tutto e ce ne andiamo a New York”, ricordi?». «Sì», risponde lei, «come la prima volta che ci siamo andati e per prima cosa mi hai portata a vedere l’angolo ritratto sulla copertina di quel disco dei Beastie Boys. Molto romantico». «Cazzo, sì, dove hanno scattato la foto di Paul’s Boutique nel Lower East Side, fighissimo. Ero troppo avanti, pensa che adesso quell’incrocio tra Ludlow e Rivington Street si chiama  Beastie Boys Square!».

Avevo rubato una cassetta dalla camera di mio fratello con sopra scritto a penna “il buon Vasco” e la ascoltavo a ripetizione. L’avevo consumata quella cassetta, era un live intitolato Va bene così, e conteneva delle chicche incredibili

Sono sempre stato fissato con la musica, e per certi periodi ho sviluppato per alcuni cantanti e per certe band delle vere e proprie ossessioni che spesso ciclicamente si sono addirittura riproposte. I Beastie Boys, ad esempio, che ascoltavo in loop da 18enne inquieto, animale a sangue caldo di Piazza Adigrat, sono state sicuramente una di quelle. Ma la lista, che comprende in periodi diversi della vita, tra gli altri, sicuramente anche Jovanotti, gli Articolo 31, i Sanguemisto, Fabri Fibra, i Club Dogo, i Rolling Stones, i Beatles, i Nirvana, i Radiohead, i Clash, i Doors e parecchio rap americano, oltre ovviamente a tutto il jazz, che negli ultimi anni mi ha completamente fulminato il cervello, è molto ma molto lunga. Se dovessi tornare indietro nel tempo però non posso negare che la mia prima passione in assoluto è stata sicuramente quella per Vasco, di cui tra l’altro è appena uscito un godibilissimo documentario a puntate su Netflix intitolato Il Supervissuto.

Jovanotti cantava Vasco vestito da cowboy con la maglietta con sopra scritto Yo! sul palco del Festival di Sanremo e io a nove anni in boxer, cappellino rovesciato sulla testa e Adidas alte da basket come le sue, saltavo come un pazzo davanti alla tv del salotto di casa mia in via Amedeo d’Aosta, perché Vasco era il mio idolo. Avevo rubato una cassetta dalla camera di mio fratello con sopra scritto a penna “il buon Vasco” e la ascoltavo a ripetizione. L’avevo consumata quella cassetta, era un live intitolato Va bene così, e conteneva delle chicche incredibili tipo Fegato, fegato spappolato, Colpa d’Alfredo, Bollicine, Siamo solo noi, Vita spericolata, Albachiara e una strepitosa versione psichedelica di Valium che, ovviamente, per la mia giovanissima età mi era all’epoca totalmente incomprensibile. Erano gli anni di Liberi Liberi, dei 70 mila di San Siro di Fronte del Palco, di cui avevo acquistato entrambi i vinili che facevano bella mostra in camera mia di fianco ai 45 giri degli Europe e della Steve Rogers Band. Se non ricordo male, insieme a un quadruplo album dei Beatles che raccoglieva i loro pezzi dal 1962 al 1970, che qualcuno mi aveva regalato per Natale dopo che un Carnevale a scuola alla Leonardo da Vinci avevo voluto vestirmi da George Harrison invece che da Zorro o da uno dei tre moschettieri.

«Ehi, ci sei? A cosa pensi? Sembri in catalessi», mi dice, cercando le chiavi nella sua Kelly. «Niente, pensavo che avevo voglia di comprarmi un vinile di Vasco, Colpa d’Alfredo oppure addirittura Albachiara», rispondo, e poi domando a mia volta: «Ma a te piace Vasco?». «Non particolarmente»

Il disco della folgorazione però fu sicuramente Vado al massimo, che avevo tirato su casualmente perché mi piaceva la copertina, un pomeriggio da Wimpy, un negozio in viale Monza, dove ero andato per cercare qualcosa da ascoltare prima di partire per le vacanze al mare. Quel disco rosso, con su la foto di Vasco in bianco e nero, mi accompagnò per tutta l’estate del 1991, trascorsa come di regola a casa di mia nonna sulle Hills a Rapallo, mentre, pensando a Gisella, la ragazza più bella dei Bagni Ariston, cantavo a squarciagola, senza realmente capirli, pezzi come Sono ancora in coma, Amore?! o Cosa ti fai. Nel frattempo arrivò anche il primo walkman e così, una dopo l’altra, comprai tutte le cassette di Vasco che mi mancavano, imparai tutte le sue canzoni a memoria e, nell’estate del 1993 con mia cugina e una sua amica, andai finalmente a vederlo dal vivo ad Albenga, in occasione del tour Gli spari sopra. Il primo concerto della mia vita. Successivamente mi capitò parecchie volte di andare ancora a vederlo dal vivo, forse altre cinque o sei, sempre a San Siro. L’ultima, per due giorni di fila, fu nel giugno del 2004 per la tournée Buoni o cattivi, curiosamente insieme proprio a Gli spari sopra, il maggior successo commerciale dell’intera carriera del Blasco, con oltre 1 milione di copie vendute.

Lucilla impazziva per Vasco, e io impazzivo per lei. Era da poco uscito il live di Rewind e io cantavo Quanti anni hai e L’una per te e le urlavo in faccia «fammi godere!». Lucilla impazziva per Vasco e una volta, dopo aver fatto l’amore a casa sua a San Felice, mentre ci rollavamo uno spino di caramello in terrazza anche se scopavamo già da un paio di settimane, ero l’uomo più felice del mondo. Passavo ore a guardarla e quella sera ricordo che mi disse che una volta a Sanremo l’aveva addirittura conosciuto lei, il Blasco, ed era perfino salita sulla sua barca. «Quindi Lu Lu sei tu», le risposi. Lucilla impazziva per Vasco e a San Siro quella volta era addirittura svenuta per l’emozione, o forse perché avevamo fumato troppe sigarette imbevute di ketamina. Fatto sta che l’avevo tirata su da terra con le pupille ribaltate e ricordo che faceva un caldo da impazzire. Lucilla impazziva per Vasco e comunque, anche se ci stavamo praticamente lasciando, aveva voluto a tutti i costi, chissà perché, andare assieme a vedere il concerto quella sera. Lucilla impazziva per Vasco e io la guardavo mentre cantava Albachiara e avevo le lacrime agli occhi. Lucilla impazziva per Vasco, e forse è proprio questo il motivo per cui, dopo Buoni o cattivi, ho smesso totalmente di ascoltarlo e non l’ho mai passato in radio in tanti anni nei miei programmi.

Poi il taxi si ferma sotto casa nostra, scendiamo in strada e davanti al portone accendiamo entrambi una sigaretta, lei con indosso il suo vestito Helmuth Lang, io con la camicia bianca aperta sul petto e i mocassini college ai piedi. «Ehi, ci sei? A cosa pensi? Sembri in catalessi», mi dice, cercando le chiavi nella sua Kelly. «Niente, pensavo che avevo voglia di comprarmi un vinile di Vasco, Colpa d’Alfredo oppure addirittura Albachiara», rispondo, e poi domando a mia volta: «Ma a te piace Vasco?». «Non particolarmente».

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