L’errore di prospettiva – attribuire alla platea del 7 dicembre alla Scala, quella da 3.200 euro a poltrona, un qualche ruolo simbolico o a suo modo rappresentativo degli italiani – era evidente da molto tempo. Quest’anno lo ha chiarito di fatto, pur se non intenzionalmente (ma si spera definitivamente), il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Che peraltro con la sua ufficializzata assenza dal Don Carlo di Sant’Ambrogio ha fatto diventare notiziabile, come si dice in gergo, l’inaugurazione scaligera più smunta degli ultimi tempi.
L’inaugurazione della stagione operistica milanese torna a essere una tra le tante
Anche solo dal punto di vista dell’immagine, i «pressanti impegni» del Capo dello Stato – per restare alla versione ufficiale – assestano un fiero colpo all’orgoglio meneghino, almeno in questo campo sempre più spesso effetto senza causa. L’inaugurazione della stagione operistica milanese torna a essere una fra le numerose da un capo all’altro della Penisola (ce ne sono 14, tante quante le Fondazioni lirico-sinfoniche). E la cronaca deve peraltro segnalare che quest’autunno a una di esse soltanto, finora, Mattarella ha assistito, quella della Fenice lo scorso 24 novembre (con Les Contes d’Hoffmann di Offenbach per la regia di Damiano Michieletto). Niente Scala e niente Opera di Roma pochi giorni fa (27 novembre, Mefistofele di Boito). Da qualsiasi parte la si giri, a prescindere dalle motivazioni sulle decisioni del Quirinale, la conferma che ormai la vetusta e perfino un po’ caricaturale immagine della Scala come “tempio della lirica” non solo ha fatto il suo tempo, ma rischia di diventare una palla al piede. E sarebbe molto meglio concentrarsi di più su quanto necessario per provare a salvare – fuori da ogni inutile classifica – almeno qualcosa dell’immagine molto impolverata di “più importante teatro d’opera del mondo”, se è vero che a osservatori non abbastanza sensibili al “sistema-Scala” il Piermarini appare ormai per molti aspetti un teatro di provincia.
Degli antichi fasti, la prima scaligera conserva solo il privilegio della diretta su Rai1 in un clima sempre più routinier
E mentre ci si avvia alla prima, che degli antichi fasti conserverà solo il privilegio della diretta su Rai1, reso opinabile dalla tradizionale banalità dei soliti entertainer di lungo corso, emerge più di sempre quanto il clima sia routinier, fra interviste di maniera ai cantanti e discorsi un po’ generali e un po’ avventati – quasi sempre disinformati – sulle caratteristiche musicali e artistiche di ciò che andrà in scena. Si annota che il direttore Chailly rivendica la fedeltà al testo musicale, anche nell’introduzione strumentale all’aria famosa di Filippo II, Ella giammai m’amò, che postula l’intervento di tutti i violoncelli e non solo di uno. E non si ricorda che il dettaglio è stabilito dall’edizione critica, risalente al 1977 e che già Abbado lo aveva adottato, ormai una quarantina di anni fa. Si dà atto delle puntigliose precisazioni del regista Lluis Pasqual a proposito della non corrispondenza fra i fatti storici e quelli narrati nel libretto: addebito che peraltro dovrebbe andare inizialmente e principalmente a Friedrich Schiller. E che lascia comunque aperti tutti gli interrogativi sulle scelte rappresentative che si vedranno alla Scala. Le prime fotografie mostrano una scenografia di saldo impianto tradizionale, come i costumi.
Il giallo della sostituzione di René Pape con Michele Pertusi e l’inflazione delle rappresentazioni del Don Carlo a ridosso del 7 dicembre
Cronache anche minuziose, eppure manierate, lontane da ogni spunto critico o semplicemente analitico. Nessun dettaglio, ad esempio, si è riusciti a leggere – oltre la notizia nuda e cruda – a proposito del fatto che il basso ingaggiato da mesi per la parte di Filippo II, René Pape, è uscito per la comune a 20 giorni dall’andata in scena, sostituito in corsa da Michele Pertusi. Come se si trattasse, anche in questo caso, di routine. Cosa che evidentemente non è. Né è emersa a livello mediatico una singolare circostanza, peraltro sotto gli occhi di tutti gli appassionati: nelle ultime settimane in Emilia-Romagna e proprio in questi giorni in Lombardia l’affollamento delle rappresentazioni del Don Carlo è decisamente fuori dall’ordinario. Una vera e propria inflazione. In novembre, fra Modena, Piacenza, Reggio Emilia e Rimini si sono avute otto andate in scena di una produzione risalente a una decina di anni fa. Nel cast di quegli spettacoli, fra l’altro, la Scala ha pescato il Filippo II di emergenza, Pertusi. Il quale infatti alle ultime rappresentazioni di quel giro, al teatro riminese Amintore Galli, il 24 e il 26 novembre, ha dovuto marcare visita e farsi sostituire. Ma soprattutto, dalla fine di novembre gira per la Lombardia un’altra produzione del Don Carlo, questa nuovissima, sempre nella versione in italiano e in quattro atti che va in scena anche alla Scala. E girerà anche nei giorni intorno a Sant’Ambrogio. La promuove OperaLombardia, realtà voluta e ampiamente finanziata dalla Regione, oltre che dalla Fondazione Cariplo, che realizza e distribuisce produzioni liriche in cinque storici teatri di tradizione, da Bergamo a Brescia, da Como a Cremona e a Pavia. Questo nuovo Don Carlo si vale della regia di Andrea Bernard; Jacopo Brusa dirige la milanesissima orchestra dei Pomeriggi Musicali. Come Filippo II canta il basso Carlo Lepore, anche il resto del cast è tutto italiano. Dopo il debutto al Fraschini di Pavia il 17 e 19 novembre e le prime repliche al Ponchielli di Cremona il 24 e 26 novembre, rappresentazioni sono in calendario al Teatro Grande di Brescia (1 e 3 dicembre); gran finale del tour al Sociale di Como, l’8 e 10 dicembre.
Un segnale di insofferenza per quel che si fa nel tempio della lirica, semplice distrazione o mancanza di comunicazione?
La sovrapposizione dello stesso titolo è un bizzarro inedito, rispetto al quale viene da chiedersi se nessuno parla con nessuno, per quanto riguarda la programmazione del teatro musicale in Lombardia. E senza entrare nel merito di chi per primo abbia lanciato il suo Don Carlo, anche se si sa che al Piermarini la programmazione viene da molto lontano. Un segnale, allora, che il cosiddetto territorio è insofferente per quel che si fa nel “tempio della lirica” e con sprezzo del pericolo e più o meno agguerritamente non esita ad andare sullo stesso titolo negli stessi giorni? O l’evidenza di quanto distanti siano La Scala e gli altri teatri, anche se i chilometri sono pochi? O semplicemente una distrazione? Intanto le cronache segnalano che Regione Lombardia, che è anche socio fondatore della Fondazione Teatro alla Scala, era assente dalla conferenza stampa molto istituzionale in cui si è parlato dello spettacolo del 7 dicembre. Ma era certamente un problema di “pressanti impegni”. Per gli appassionati, resta la sicuramente irripetibile quantità di occasioni di vedere Don Carlo, opera meravigliosa e difficile. Chissà cosa ne avrebbe pensato Verdi. Facile immaginare che avrebbe sbrigliato la sua notoria, corrosiva ironia…