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L’uscita di Le schegge e come mi innamorai di Bret Easton Ellis: il racconto della settimana
Dopo 13 anni di attesa martedì scorso è uscito il nuovo romanzo di Bret Easton Ellis, Le schegge, che io aspettavo come una ragazzina dei 90 attendeva l’uscita dell’ultimo disco dei Take That. Da quando nel 1985 è entrato, con un bazooka puntato, nella scena letteraria mondiale, distruggendola, lo scrittore californiano è rimasto una delle figure più controverse e divisive in circolazione. Le violenze sessuali e i massacri descritti minuziosamente in American Psycho, forse il suo libro di maggior successo, e il finale di Less than Zero, con il quale esordì proprio nel 1985, con un 12enne brutalmente stuprato da un gruppo di ragazzini ricchi, sono solo due degli innumerevoli esempi che potrei fare per descrivere la poetica d questo autore che tramite l’uso della violenza ha narrato l’oscuro esistenziale di una generazione come pochi altri sono riusciti a fare negli ultimi 40 anni.
Ellis era ancor più enfant di Amis e McEwan quando pubblicò il suo primo successo letterario e per certi versi infinitamente più terrible, cosa che lo rese la prima vera e propria rockstar della letteratura
Cosa succede quindi quando un enfant terrible cresce? Le schegge in accoppiata con la mia immagine sbiadita riflessa dallo specchio del bagno sono le risposte a questa domanda. Come La vita da dentro di Martin Amis anche Ellis gioca con l’autofiction (come del resto già aveva fatto nel precedente Lunar Park) avvertendo il lettore che solo oggi che ha compiuto 57 anni si sente pronto a raccontare questa storia, ambientata nelle ville sopra le colline di Los Angeles nel 1981 tra licei esclusivi, macchine veloci, vestiti di marca, droghe e massicce quantità di psicofarmaci. Anche la narrativa di Martin Amis iniziò con il sesso e poi con la droga e perfino quella di Ian McEwan, conosciuto all’inizio della sua carriera come Ian Macabre per i suoi racconti pieni di incesti e omicidi sessuali, partì nella medesima maniera. Ellis era ancor più enfant di Amis e McEwan quando pubblicò il suo primo successo letterario e per certi versi infinitamente più terrible, cosa che lo rese la prima vera e propria rockstar della letteratura, infilandolo in un sorta di Brat Pack letterario che negli Anni 80 sfavillava nei locali alla moda di New York, insieme a un gruppo di giovani scrittori di successo come lui, tra i quali sicuramente spicca il nome di Jay McInerney, suo acerrimo rivale ma anche amico fraterno, che tanto quanto Ellis spaccò la scena con Le mille luci di New York, all’interno del quale tra modelle e cocaina raccontò miti e ossessioni dell’America edonista e reganiana.
La prima volta che mi capitò in mano un libro di Bret Easton Ellis non l’avevo mai sentito nominare prima. Fu per caso un pomeriggio del gennaio del 2000 quando Giada si presentò a un nostro appuntamento in Piazza Leo con un pacchetto regalo per il mio ventesimo compleanno. «Ho trovato questo in libreria e non ho potuto che pensare a te», mi disse, porgendomi un mastodontico volume intitolato Glamorama, un infinito delirio schizofrenico che raccontava la storia di un improbabile gruppo di modelli-terroristi tra New York, Londra, Parigi e Milano, scritto in maniera anfetaminica, incalzante e prodigiosa. Persi così completamente la testa per Glamorama e Bret Easton Ellis divenne il mio scrittore preferito di tutti i tempi, e lo è rimasto anche oggi, per distacco, a quasi 24 anni da quel pomeriggio in Piazza Leo dopo il quale lessi tutto quello che aveva scritto guidato da qualcosa di soprannaturale. Drogatissimo con qualsiasi sostanza mi capitasse a tiro il me ventenne scopava Giada per sdebitarsi con grandissimo trasporto. Infilavo il naso nel suo culo e la lingua, da dietro, nella sua fica bagnata durante quell’inverno del 2000 aprendole le gambe più che potevo. In giro si era sparsa la voce che stessimo insieme anche se non era vero e io mi beavo di questi pettegolezzi con i miei amici più cari, mentendo, e non perdendo occasione di descrivere i rapporti sessuali che avevamo in camera sua, a casa di sua madre in Largo Rio de Janeiro, nella stessa villetta dove una volta aveva abitato Battisti e, dice qualcuno, perfino Carlo Emilio Gadda.
Con Giada non usavamo mai preservativi così stavo bene attento, anche se spesso ero troppo sconvolto per controllarmi, a non venirle dentro. Le venivo sulle tette, in faccia, sulla schiena, chiusi a doppia mandata dietro la porta di vetro con gli infissi bianchi mentre dalle casse dello stereo posto di fianco alla finestra affacciata su Viale Romagna suonavano i dischi degli Oasis, di cui lei andava matta, soprattutto (What’s the story) Morning Glory?, che quasi sempre andava in loop. All’epoca frequentavo una costosissima scuola privata in una piccola palazzina dalle parti di Piazza Aspromonte e per fare il duro vendevo il fumo ai miei compagni e ai ragazzi delle classi di fianco, nei bagni ai cambi d’ora o durante l’intervallo. Entravo in classe solo per frequentare le ore di italiano e i miei temi venivano letti ad alta voce dalla professoressa di lettere perché semplicemente erano perfetti, anche se avevo l’insufficienza in tutte le altre materie. Con Giada finì perché io ero troppo stupido, perché ero già innamorato di Lucilla e perché un giorno si arrabbiò molto dopo che non le restituii una grossa somma di denaro che mi feci prestare per fare un acquisto di hashish e marijuana dato che i miei contatti non mi facevano più credito, perché andavo sempre sotto con i soldi. «Vai a fare in culo, tu e quella troia che ti scopi, che nemmeno te la scopi mi sa, frigida com’è!», mi urlò, rossa in faccia, un giorno sotto casa mia in Viale Corsica, «e ridammi i mei soldi, tossico di merda!». In realtà non me la presi più di tanto, perché in cuor mio sapevo che aveva ragione, e infatti con Giada, a fasi alterne, continuammo a vederci anche negli anni successivi, legati da un qualcosa che a entrambi non doveva mai essere stato troppo chiaro. Uscivamo insieme le sere di San Valentino se entrambi eravamo single, ci stonavamo di birre e spini lascivi e ogni tanto finivamo ancora a letto insieme, a casa di suo padre in via Spontini o da me, nella mansarda di via Tiepolo, mentre lei faceva avanti e indietro da Venezia dove si era trasferita a studiare e io cercavo in maniera del tutto fallimentare di dare qualche esame alla Facoltà di lettere e filosofia alla Statale in via Festa del Perdono alla quale ero iscritto.