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Raffa in the Sky, un’operazione riuscita a metà
A un certo punto, nel secondo atto, la protagonista umana di Raffa in the Sky – la casalinga-operaia-immigrata-dal-Sud Carmela – concede finalmente sfogo al suo dolore e alla sua ira per quello che ritiene essere stato il tradimento del marito, Vito, dalla quale si è separata. Di lì a poco l’extraterrestre Raffaella Carrà (sempre meno extra e sempre più terrestre, come la s’immagina in questo spettacolo) arriverà a sanare anche questa ferita, taumaturga pop del proletariato dopo il Boom economico, gli anni di piombo, l’edonismo reaganiano e la caduta del Muro. Ma intanto la donna si prende il centro della scena e canta la sua grande Aria: «Mi tradì, quel Vito ingrato». Solo con le parole un po’ cambiate, è l’Aria di Donna Elvira nel secondo atto di Don Giovanni («Mi tradì quell’alma ingrata», prodigiosa aggiunta alla partitura del debutto praghese, scritta per la rappresentazione del capolavoro a Vienna). E lo è soprattutto per la musica, un calco piuttosto sbiadito (difficile dire quanto volutamente) della celebre pagina mozartiana. Naturalmente, il povero Vito non è per nulla un «giovane cavaliere estremamente licenzioso» che fa soffrire chi lo ama. E la sua piccola storia di fan ingenuamente innamorato di una soubrette televisiva entrata nella storia del gusto nazional-popolare non si configura certo come il momento fondante di una mitologia della cultura occidentale moderna. La citazione, forse la più evidente in una partitura che ne è ricolma, lungo un libretto che le “chiama” e le dispone con ironia e autoironia, è semmai una sorta di voluto straniamento, una cesura che serve a rendere attendibile, nel contrasto con ciò che precede e che segue quella scena ma anche dentro alla drammaturgia complessiva, il grande proclama che ha fatto da insegna dell’operazione Raffa in the sky: trattasi di opera, al limite “fantaopera”, come dice la locandina, ma guai a parlare di musical.
La presenza di personaggi e vicende del nostro tempo nell’opera contemporanea non è una novità
Preceduta da una campagna di promozione mass-mediatica forse senza precedenti almeno in tempi recenti, questa produzione della Fondazione Donizetti per Bergamo e Brescia Capitali italiane della Cultura è stata motivata (anche) con una teoria francamente opinabile. La presenza di un personaggio e di vicende del nostro tempo nell’opera contemporanea non è infatti per nulla una scelta oggi poco frequente, da affermare con coraggioso sprezzo del pericolo, immaginando che così avrebbe fatto il genius loci Donizetti, come Francesco Micheli, ideatore del progetto e regista dello spettacolo, si è premurato di ribadire in una pioggia di interviste e interventi. E del resto, nell’impeccabile programma di sala chiariscono quanto il mondo contemporaneo sia presente nell’opera odierna sia il musicologo Dario Olivieri che Alberto Mattioli, il giornalista e scrittore super-esperto di melodramma che qui ha firmato il libretto, a quattro mani con Renata Ciaravino.
La resa modesta di una drammaturgia intrigante che spazia dal ruolo della tv al divismo fino al trionfo del pop
Resta la realtà di una iniziativa complessa esattamente come lo è il genere operistico, sicuramente intrigante per la somma dei motivi (non in senso musicale) che sottendono la drammaturgia – dal ruolo della tv nella società italiana al divismo, dal trionfo del pop a quel certo buonismo che sembra elemento imprescindibile nella vicenda della diva, per finire con un implicito, talvolta ellittico ma non meno evidente sguardo critico sull’Italia degli ultimi 50 anni. Che poi tutto sia stato delineato al meglio e “combinato” con eguale efficacia nello spettacolo, non ci sentiamo di dire. Il “plot” ideato da Ciaravino e Mattioli si basa sull’idea – peraltro ben presente nell’universo pop – che l’artista provenga da un mondo alieno e a esso alla fine rinunci. Modellato sulla vicenda di Raffaella Carrà, tale “concept” si delinea come una sorta di parabola, nella quale l’algida diversità della extraterrestre detentrice della bellezza e della creatività artistica è sottoposta a una progressiva erosione a contatto con gli umani, con tutte le loro debolezze e piccolezze. Quindi, alla fine, l’inviata di Apollo XI, monarca del pianeta Arkadia (nome-simbolo dell’astrattezza di certa tradizione culturale), sceglierà il pianeta Terra e soprattutto (ma questo è sottinteso) il pianeta Italia con i suoi abitanti, simboleggiati dalla coppia in crisi Carmela-Vito con il loro figliolo, che lotta per affermare la sua diversità. Il tutto si dipana in uno spettacolo drammaturgicamente diseguale, dalle spiccate tendenze narrative, che vive sulla brillantezza di alcuni passaggi del libretto ma non sempre riesce a chiarire il racconto e specialmente il suo senso, nelle ambivalenze di commedia e dramma. Non aiuta un evidente sbilanciamento fra un primo atto in cui succede quasi tutto (dal punto di vista della Carrà e della sua carriera) e un secondo in cui il discorso prevalente è sulla crisi della coppia comune.
Una partitura lunga e irta da un lato di un citazionismo quasi compulsivo e dall’altro di reiterati esempi di scrittura “alla maniera di”
Quanto alla musica, le reiterate professioni di fede (reperibili sempre nell’indispensabile programma di sala) nei confronti del verbo post-moderno e post-minimalista da parte del 36enne compositore Lamberto Curtoni e del suo mentore musicale Carlo Boccadoro (in questa produzione è il direttore d’orchestra) si risolvono – al di là del dettaglio mozartiano raccontato sopra – in una partitura lunga e irta da un lato di un citazionismo quasi compulsivo e dall’altro di reiterati esempi di scrittura “alla maniera di”. Cajkovskij e Bach (rilevante il tessuto contrappuntistico nel finale primo), Monteverdi (certi recitativi del secondo atto sono fra i momenti interessanti dell’opera) e financo Gershwin (l’attacco del clarinetto nella Rapsodia in blu, ovvio…) ne costituiscono, con il doveroso Donizetti e probabilmente con molto altro, il tessuto connettivo. Ma nell’insieme, il risultato è quello di sottolineare la mancanza di punti di riferimento di reale efficacia drammaturgica. Un’invenzione ricca nello strumentale quanto povera di fatto nelle aperture melodiche, anche sul piano di una vocalità indecisa fra il declamato e l’arioso. Discorso a parte per quanto riguarda l’inevitabile presenza delle “hit” della Carrà, canzonette di geniale vivacità comunicativa che nel filtro un po’ sussiegoso di Curtoni diventano come dei “letimotive” un po’ stanchi, appannati. Che non rendono alla canzone pop italiana degli Anni 70 e 80 quel che le spetta e neppure riescono a portare il discorso musicale di Raffa in the Sky, per fare un gioco di parole, su un altro pianeta. Uno scatto che sarebbe necessario ma rimane il più delle volte sui blocchi di partenza.
Brilla Carmela Remigio e se la cava Haris Andrianos, meno convincente la Raffa di Chiara Dello Iacovo
Dentro a questa cornice, la compagnia di canto se la sbriga con professionalità nei ruoli “operistici”. Brilla la classe di Carmela Remigio (Carmela), che del resto ha pratica dell’Aria di Elvira e sa cantare recitando; se la cava con scioltezza il baritono Haris Andrianos nel ruolo di suo marito Vito. Positivi anche il tenore Dave Monaco e il mezzosoprano Gaia Petrone, entrambi in triplice ruolo ma con evidenza l’uno nei panni del re di Arkadia, l’irritabile e disincantato Apollo XI, (pronto peraltro alla fine a farsi irretire dal ritmo delle canzonette di Raffa); l’altra nella parte di Luca, figlio di Vito e Carmela alla ricerca di sé stesso. Roberto Lorenzi rende bene il mistero un po’ inquietante che avvolge la cupa figura del consigliere Fidelius, così come il tono mellifluo del Grande Censore (quello che si oppone al Tuca Tuca) e dell’invadente impresario tv, dando voce anche alla Star di Hollywood. Molto meno convincente la prova fornita dall’interprete di Raffaella Carrà. Chiara Dello Iacovo – forse anche per la tensione del debutto – ha cantato il pop con generica brillantezza e voce diseguale, lontana dalla spumeggiante verve che era il marchio di fabbrica della soubrette, e non è apparsa nella parte come sarebbe stato auspicabile, con una recitazione piuttosto rigida, talvolta trasandata. Non memorabili i momenti in cui deve ballare, peraltro assai pochi. Il suo personaggio bucava lo schermo, lei alla prima è sembrata tenere con fatica la scena, senza riuscire quasi mai a incidere davvero.
L’orchestra Donizetti Opera diretta con precisione da Boccadoro ha fatto il suo dovere
Diretta con precisione da Boccadoro, l’orchestra Donizetti Opera ha fatto il suo dovere, ben coadiuvata dagli strumentisti dell’ensemble Sentieri Selvaggi. Lo spettacolo di Francesco Micheli (scene Edoardo Sanchi, costumi riccamente evocativi e inevitabilmente coloratissimi di Alessio Rosati, coreografie rivedibili di Mattia Agatiello, luci di Alessandro Andreoli) ha puntato a delineare un racconto favolistico-fumettistico che nell’insieme ha offerto un appropriato taglio interpretativo del pop televisivo all’italiana. Collocato su un alto praticabile il coro di voci bianche Piccoli Musici di Casazza, che dava voce agli abitanti di Arkadia, affidati a fantasiosi e rutilanti “sipari” di perline i cambi di scena, lo spazio del palco è stato caratterizzato da pochi elementi disegnati, facilmente spostabili dagli stessi interpreti: frammenti d’immagine, capaci di alludere con efficacia agli spazi altri e diversi della difficile quotidianità incombente nella storia. Il teatro Donizetti era al gran completo, presenze istituzionali e di governo comprese. Pubblico benevolo, non privo di claque, disponibile a qualche risata o a qualche applauso a scena aperta. Alla fine, una decina di minuti festeggiamenti. Trasmesso in differita su Rai5 la sera di venerdì 29 settembre, lo spettacolo è ora disponibile su Raiplay.