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La svolta difensiva di Zelensky e il realismo ucraino su una guerra che non si può vincere

Sei mesi dopo l‘inizio della controffensiva, cominciata ai primi di giugno del 2023, anche il presidente Volodymyr Zelensky ha dovuto prendere atto della realtà e dichiarare che la guerra in Ucraina è entrata in una nuova fase: per Kyiv non si tratta più di attaccare e di pensare a riconquistare i territori perduti, ripristinando i confini del 2014, ma di difendersi, per evitare di perderne altri. Così all’inizio di dicembre ha dichiarato la svolta e la volontà di fortificare la linea del fronte, alzando quasi una sorta di muro, tra fortificazioni di terra e sistemi antiaerei, per arginare l’avanzata russa nel Donbass. A Sud, nella regione di Kherson, dove le truppe del Cremlino sono sulla difensiva, le cose non cambiano, e lo stallo invernale, come quello dell’anno precedente quando sono stati i russi a rafforzare le difese, darà la possibilità a Mosca e Kyiv di riflettere sulla strategia futura.

La svolta difensiva di Zelensky e il realismo ucraino su una guerra che non si puo? vincere
Soldato ucraino (Getty).

Armi e tecnologie? Il problema più grosso per l’esercito ucraino è quello degli uomini

In questa fase del conflitto l’Ucraina è in estrema difficoltà sul campo e il problema di una guerra di logoramento è invertire le tendenze che si cristallizzano con il tempo: il quadro lo aveva fatto il comandante delle forze armate ucraine, il generale Valery Zaluzhny, dicendo che è difficile uscire da questa situazione se non ci saranno cambiamenti sostanziali con il maggiore sostegno da parte degli alleati occidentali per quel riguarda i rifornimenti di armi e tecnologie. Se quelle attuali non bastano, il problema forse maggiore è però quello degli uomini, con l’esercito ucraino che non può quantitativamente reggere quello russo. E qui non ci sono alternative. È noto da tempo che i dissidi interni stanno aumentando intorno a Zelensky, tanto che anche il sindaco di Kyiv, l’ex pugile Vitali Klitschko, è stato chiaro nell’attaccare il presidente: «La gente si chiede perché non fossimo meglio preparati a questa guerra. Perché Zelensky ha negato fino alla fine che si sarebbe arrivati a questo. C’erano troppe informazioni che non corrispondevano alla realtà. Naturalmente possiamo mentire al nostro popolo e ai nostri partner, ma non per sempre».

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Il comandante delle forze armate ucraine, generale Valery Zaluzhny (Getty).

Narrazione rivista: anche in Occidente ci si chiede se non stia vincendo la Russia…

Se Zelensky aveva all’inizio smentito Zaluzhny e le altre accuse, ha poi dovuto correggere se stesso davanti a quello che sta accadendo sul campo e anche alla conseguente narrazione, che sia a livello politico sia mediatico ha subito un mutamento radicale: ora anche molti tra i politici e i media occidentali si chiedono se in effetti la Russia non stia vincendo la guerra e l’Ucraina non stia per perderla. A dire il vero però lo scenario non è fresco, visto che negli ultimi 12 mesi la linea del fronte si è mossa solo di qualche chilometro nel Donbass a favore di Mosca, dopo la riconquista di alcune cittadine tra Kharkiv e Donetsk, con le dure battaglie a Soledar, Lysychansk, Bakhmut e ora ad Avdiivka, mentre a Sud è rimasta la stessa, con l’eccezione della leggera avanzata ucraina verso Robotyne e la testa di ponte sulla riva sinistra del Dnipro, con le posizioni adesso bloccate.

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Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky (Getty).

Dalle ambizioni sulla Crimea a un realismo più sobrio

Patta, come ha scritto dunque Zaluzhny sull’Economist? Oppure la sta spuntando il Cremlino? La cartina geografica indica, ancora una volta, che la Russia sta vincendo questa guerra e a Kyiv come altrove se ne sta prendendo atto: se nel 2022 di questi tempi l’Ucraina, dopo la riconquista di alcuni territori a Est e a Sud, pensava di arrivare in Crimea entro l’estate, accompagnata dai peana di servi sciocchi e Von Clausewitz della domenica, adesso anche questi ultimi si sono convertiti al più sobrio realismo da cui non prescinde più nemmeno lo stesso Zelensky.

La svolta difensiva di Zelensky e il realismo ucraino su una guerra che non si puo? vincere
La cartina dell’Ucraina.

Da una parte probabilmente Vladimir Putin e i suoi generali non sono proprio un manipolo di incompetenti e la seconda fase del conflitto, dopo il fallimento della guerra lampo a tra febbraio e marzo 2022, è iniziata per Mosca già nell’aprile dello scorso anno, non quindi di recente; dall’altra gli Stati Uniti e le cancellerie europee, sapendo di non poter ingaggiare un duello diretto con la Russia, hanno caricato l’Ucraina di una responsabilità impossibile da sostenere con aiuti limitati: e anche questo era prevedibile.

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Il presidente russo Vladimir Putin (Getty).

Il Cremlino si accontenterà davvero del Donbass e delle ultime annessioni?

E adesso? Se è vero che l’Occidente sta tirando il freno e qualcuno tra Stati Uniti ed Europa sta pensando a come far arrivare Mosca e Kyiv al tavolo delle trattative, c’è anche da considerare il fatto che magari al Cremlino non tutti hanno voglia di fermarsi davvero al Donbass e alle annessioni di settembre, ma il partito della guerra vorrebbe ritornare a puntare Kharkiv e forse Odessa, contando appunto sul fatto che l’Ucraina verrà lasciata al suo destino. La Russia pare aver trovato un equilibrio interno ed esterno per poter reggere un conflitto pluriennale, a differenza dell’Ucraina e dell’Occidente che sembra impantanato nella terra di mezzo. Tutte le guerre prima o poi comunque finiscono e forse quest’inverno si potranno mettere i presupposti, sempre che le ali più moderate tra Mosca e Washington riescano a chiudere gli spazi ai falchi.

Il presidente della Cop28 Al-Jaber ha smentito di essere negazionista climatico

Il sultano Al-Jaber, presidente della Cop28 in corso a Dubai, ha precisato di «rispettare le raccomandazioni della scienza sul cambiamento climatico». Lo ha fatto all’indomani delle polemiche sorte da un audio rubato e poi diffuso dal consorzio di giornalisti investigativi Centre for Climate Reporting, in cui affermava che «nessuna scienza dimostra che l’uscita dai combustibili fossili è necessaria per limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi centigradi sopra i livelli pre-industriali».

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Il presidente della Cop28 Al Jaber ha smentito di essere negazionista climatico dopo l'audio rubato e diffuso da Centre for Climate Reporting.
Il sultano Ahmed Al-Jaber (Getty Images).

Al-Jaber aveva detto che senza combustibili fossili il mondo tornerebbe «all’era delle caverne»

Nel contestato audio, Al-Jaber, aveva aggiunto che seguire la strada dello stop al carbone, al petrolio e al gas naturale ostacolerebbe il cammino verso uno sviluppo realmente sostenibile, «a meno che qualcuno non voglia riportare il mondo indietro all’era delle caverne». Il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, aveva parlato di «affermazioni gravissime e assolutamente preoccupanti, sull’orlo del negazionismo climatico».

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La precisazione del sultano: «La scienza è al centro del mio progresso nella carriera»

«Sono ingegnere, ho rispetto nella scienza, sono un economista e combino la passione per la scienza e il business. La scienza è al centro del mio progresso nella carriera. Rispetto numeri e dati. C’è confusione e cattive interpretazioni. Aiutatemi a chiarire questi concetti», ha detto Al Jaber in conferenza stampa, sottolineando che «nessuno deve essere lasciato indietro» e che «tutti devono salire a bordo» della Conferenza mondiale sui cambiamenti climatici.

Il presidente della Cop28 Al Jaber ha smentito di essere negazionista climatico dopo l'audio rubato e diffuso da Centre for Climate Reporting.
Una giornalista riprende Al-Jaber alla Cop28 (Getty Images).

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Al-Jaber sulla Cop28: «Stanno crescendo positività, speranza e determinazione»

«C’è una nuova cultura, un nuovo Dna che fa accadere le cose, c’è un’agenda di azione, progressi reali», ha detto il presidente della Cop28 elencando i vari progressi fatti già nei primi quattro giorni di lavoro e i tanti impegni economici annunciati sia per aiutare i Paesi più poveri contro le perdite e i danni provocati dai cambiamenti climatici, così come per sostenere lo sviluppo di alcuni settori come l’agricoltura e sia nelle tecnologie per ridurre le emissioni di CO2: «Positività, speranza, determinazione stanno crescendo» nel corso della Cop28 di Dubai, ha concluso Al-Jaber, che è amministratore delegato di Adnoc, ovvero la società petrolifera degli Emirati Arabi Uniti.

Spagna, secondo Sanchez l’amnistia avrà effetti benefici per la Catalogna

L’amnistia che i partiti del governo spagnolo guidato da Pedro Sánchez puntano a concedere ai secessionisti avrà «effetti benefici, balsamici, per normalizzare la vita politica, economica e sociale in Catalogna». Lo ha detto il premier spagnolo in un’intervista concessa alla radio Cadena Ser, in risposta all’esito di un sondaggio secondo cui quasi il 60 per cento degli spagnoli considera l’amnistia (che gli ha garantito la maggioranza in parlamento) «ingiusta» e «un privilegio».

Spagna, per Sánchez l'amnistia avrà effetti benefici per la Catalogna. Ma il 60 per cento dei cittadini non la vede di buon occhio.
Il giuramento di Pedro Sanchez, alla presenza del re Felipe VI (Getty Images).

La spiegazione di Sanchez: l’amnistia ha frenato l’avanzata della destra e normalizzerà la questione catalana

«Mi sembra normale che molte persone in altre parti della Spagna non siano d’accordo o abbiano dubbi sull’eccezione alla norma rappresentata da amnistia e indulti», ha dichiarato Sanchez, sottolineando però che in Catalogna la misura è meglio accolta dai cittadini, secondo lo stesso sondaggio. Il primo ministro spagnolo ha poi messo in risalto due buoni motivi per promuovere l’amnistia: «Uno, il fatto di avere un governo progressista e di mettere freno all’avanzata del Partito popolare e dell’estrema destra» e «due, di seguire una politica coerente con quella di normalizzazione e stabilizzazione seguita negli ultimi cinque anni» per quanto riguarda la Catalogna.

Spagna, per Sánchez l'amnistia avrà effetti benefici per la Catalogna. Ma il 60 per cento dei cittadini non la vede di buon occhio.
Un intervento di Sanchez in parlamento (Getty Images).

Centinaia di migliaia di persone sono scese in piazza per protestare contro l’amnistia

Rispondendo alla chiamata del Partito popolare di Alberto Nunez Feijoo, centinaia di migliaia di persone avevano invaso le piazze dei capoluoghi spagnoli il 12 dicembre, in una serie di manifestazioni di protesta contro l’accordo del Partito socialista con il partito separatista catalano Junts, che prevede l’approvazione di una legge che garantisce l’amnistia alle persone condannate per il tentativo della Catalogna di secedere dalla Spagna nel 2017.

Il Venezuela ha approvato con un referendum l’annessione di una regione della Guyana

Tramite un discusso referendum i cittadini del Venezuela hanno votato in favore dell’annessione al territorio nazionale della Guayana Esequiba, parte della Guyana ma rivendicato da oltre due secoli dal Paese oggi guidato da Nicolás Maduro, dove è conosciuta come Zona en Reclamación. Per decenni il contenzioso era stato quasi dimenticato, ma nel 2015 è riemerso quando la statunitense ExxonMobil ha rilevato nell’area importanti riserve di petrolio. Oltre il 95,93 per cento degli elettori che ha partecipato al voto (affluenza superiore al 50 per cento) ha scelto di sostenere la creazione di una provincia venezuelana nella regione e di estendere la cittadinanza venezuelana agli abitanti dell’area (scarsamente popolata). Il tutto senza il permesso della Guyana.

Il Venezuela di Maduro ha approvato con un referendum l'annessione dell'Esequibo, che fa parte della Guyana.
Nicolás Maduro festeggia la vittoria del “sì”(Getty Images).

Storia di un territorio conteso tra Venezuela e Guyana da oltre due secoli

La Guayana Esequiba è un’area del massiccio della Guyana a est del Venezuela, compresa entro i fiumi Cuyuni e Essequibo. Ha un’estensione di 160 mila chilometri quadrati e, come detto, è ricca di petrolio, così come di oro e gas. Colonizzata inizialmente dagli spagnoli, nel 1811 entrò a far parte della neonata República Bolivariana de Venezuela. Ma dopo soli tre anni Regno Unito e Paesi Bassi stipularono un accordo con cui la Guyana entrò a far parte dell’impero britannico, senza però definire in modo netto i suoi confini occidentali. La Guyana, appunto, sostiene i suoi diritti sull’Esequibo in base a un lodo arbitrale del 1899, che le assegnò la sovranità sul territorio quando era ancora sotto il dominio del Regno Unito, mentre Caracas difende quale meccanismo per risolvere la controversia l’accordo bilaterale raggiunto a Ginevra nel 1966, anno in cui l’ex colonia britannica diventò indipendente.

Il Venezuela di Maduro ha approvato con un referendum l'annessione dell'Esequibo, che fa parte della Guyana.
Un murale per l’annessione dell’Esequibo (Getty Images).

Maduro esulta: «Il vero vincitore è stato il popolo venezuelano»

«Con la schiacciante vittoria nel referendum sull’Esequibo abbiamo dato i primi passi per una nuova tappa storica», ha dichiarato Maduro. Il vero vincitore, ha aggiunto in un discorso sulla Plaza Bolivar di Caracas, «è stato il popolo venezuelano con l’esercizio pieno della sovranità che gli conferisce la Costituzione bolivariana». Il primo dicembre, su iniziativa della Guyana, la Corte internazionale di giustizia dell’Aia aveva chiesto al Venezuela di «astenersi da iniziative che dovessero modificare la situazione prevalente nel territorio in litigio», ma non ha posto limitazioni al referendum. Da parte sua, Georgetown ha parlato di «livelli di tensioni senza precedenti» tra i due Paesi, sottolineando che non avrebbe riconosciuto i risultati del referendum, dall’esito scontato.

La questione della Guyana Esequiba sta alimentando forti tensioni in Sud America

Tutt’altro che scontato invece cosa riserverà il futuro. La creazione di una provincia venezuelana nell’Esequibo, sulla falsariga di quanto accaduto con Crimea e Russia, è una possibilità remota. Servirebbe infatti modificare la Costituzione del Venezuela e probabilmente, anche un intervento militare. Il Brasile, che confina con la Guyana, guarda con interesse e un po’ di preoccupazione. Il referendum sembrava più un tentativo da parte Maduro di aumentare la propria popolarità in vista delle elezioni del 2024, ma sta alimentando forti tensioni in Sud America.

L’Austria sempre più a destra: a un anno dal voto la Fpö di Herbert Kickl vola nei sondaggi

Se in Austria si votasse domani l’estrema destra della Fpö vincerebbe facile, con i sondaggi che la danno oggi intorno al 30 per cento, oltre 12 punti in più rispetto alle elezioni del 2019. I conservatori moderati della Övp guidati dall’attuale cancelliere Karl Nehammer dimezzerebbero quasi i voti, passando da quasi il 38 per cento al 20, mentre i socialdemocratici della Spö guadagnerebbero qualcosina, attestandosi al 25 per cento. A seguire i partiti minori: i Verdi – che al momento governano con la Övp – perderebbero circa la metà dei consensi, dal 9 al 4,5 per cento, e i liberali del Neos si attesterebbero intorno al 10 per cento. Infine i comunisti, che aspirano a entrare al Nationalrat, ma che rimangono sotto la soglia d’ingresso al 4 per cento.

L'Austria sempre più a destra: a un anno dal voto la Fpö di Herbert Kickl vola nei sondaggi
Il cancelliere austriaco Karl Nehammer (Getty Images).

Herbert Kickl potrebbe formare un nuovo governo con i conservatori della Övp

Fin i qui i numeri, soggetti a variazioni che saranno probabilmente minime sino al voto, previsto fra meno di 12 mesi. Resta dunque alta la probabilità che la Fpö trainata da Herbert Kickl abbia la possibilità di formare il prossimo governo austriaco, scegliendosi il partner, e cioè la Övp, in una riedizione della coalizione che dall’inizio degli Anni Duemila ha retto le sorti del Paese varie volte: dal 2000 al 2007 con il cancelliere popolare Wolfgang Schüssel e dal 2017 al 2019 sempre con un leader della Övp alla guida, ossia Sebastian Kurz. Solo che questa volta sulla poltrona alla cancelleria siederebbe il capo della Fpö. L’ipotesi non è solo di scuola, ma la più realistica, anche se alle elezioni manca comunque molto tempo, i sondaggi possono cambiare, a seconda della cornice nazionale e internazionale in movimento, senza considerare altre varianti, come quella, meno probabile, che la destra abbracci la socialdemocrazia, cosa che in realtà non sarebbe nemmeno nuova, visto che Spö e Fpö governarono a braccetto a metà degli Anni 80.

L'Austria sempre più a destra: a un anno dal voto la Fpö di Herbert Kickl vola nei sondaggi
Herbert Kickl, leader della Fpö (Getty Images).

Così l’erede di Haider ha conquistato gli austriaci

È un dato di fatto che il partito di Kickl è in gran spolvero e l’elettorato austriaco sembra essere stufo dell’alleanza tra popolari e verdi, che penalizza entrambi e soprattutto la formazione del cancelliere. La Spö non ha la forza di un tempo e i partiti più piccoli sono comunque ininfluenti. L’Austria già a destra, sta scivolando verso l’estrema destra, tirata proprio da Kickl. Il leader della Fpö, erede di Jörg Haider, il governatore populista della Carinzia che portò il partito al governo con Schüssel, e anche di Heinz Christian Strache, il vice cancelliere di Kurz poi sprofondato a causa dell’Ibizagate, è il politico più popolare nel Paese. Secondo un recente sondaggio pubblicato dal quotidiano progressista Standard Herbert Kickl è il cancelliere preferito dagli austriaci, davanti al socialdemocratico Andreas Babler e all’attuale capo del governo Nehammer. I motivi dell’ascesa della Fpö e del suo capo sono presto detti: si va dagli strascichi della pandemia – l’estrema destra è scesa in piazza contro le restrizioni e i vaccini – agli effetti della guerra in Ucraina che hanno messo in crisi il governo sia dal punto di vista politico che economico, mettendo le ali al partito nazionalpopulista che ha assunto una linea polarizzante raccogliendo il consenso di ormai un terzo degli elettori.

L’onda sovranista europea: dall’Italia all’Olanda fino al boom dell’AfD in Germania

Un discorso che vale per gli altri movimenti sovranisti in Europa, che viaggiano col vento in poppa verso il governo come accaduto in Italia e più recentemente in Olanda, o che macinano consensi come l’Afd in Germania. Proprio l’Austria insegna però che gli sbarramenti ideologici cadono, magari facendo gran rumore, come quando a Vienna nel 2000 l’Unione Europea inviò una missione diplomatica a sincerarsi che Haider non fosse un nipotino di Hitler. Passato questo, la Fpö ha acquisito piena legittimità. La possibilità di Herbert Kickl cancelliere a Vienna è ora reale: primo appuntamento per verificare il vero potenziale sarà quello delle elezioni europee di giugno 2024, poi in autunno il voto decisivo.

Israele allarga la manovra terrestre al settore sud di Gaza

Israele ha allargato la manovra terrestre al settore sud di Gaza, poco a nord di Khan Yunis: «In quell’area ci sono mezzi blindati che hanno iniziato ad attaccare obiettivi di Hamas», spiega la radio militare. Secondo l’emittente, l’esercito intende estendere le proprie attività di terra, dopo che nei giorni scorsi ha fatto ricorso ripetutamente a bombardamenti dell’artiglieria, della aviazione e della marina. E per questo ha ordinato l’evacuazione di Khan Yunis. Intanto, il nuovo bilancio delle vittime a Gaza dal 7 ottobre fornito da Hamas è di 15.523 morti. E si contano anche 41.316 feriti. Lo ha comunicato il portavoce del ministero della salute della Striscia, Ashraf Al-Qidreh.

Israele allarga la manovra terrestre al settore sud della Striscia di Gaza. Gli aggiornamenti sul conflitto con Hamas in Medio Oriente.
Civili in fuga da Khan Yunis (Getty Images).

Hamas attacca, sirene di allarme in tutto Israele

Le sirene di allarme che avvertono di lanci di razzi in arrivo hanno risuonato a ripetizione nella città israeliana di Sderot e nei kibbutz che si trovano al confine con la Striscia di Gaza, come quelli di Kissufim, Ibim e Nir Am. Gli abitanti hanno avuto ordine di raggiungere i rifugi: le comunità vicine al confine, comunque, sono state in gran parte evacuate dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre. Sirene di allarme anche nella città di Zar’it, al confine con il Libano.

Razzo dal Libano, soldati israeliani feriti in Alta Galilea

Nel corso della giornata presso il villaggio di Beit Hillel, a breve distanza dal confine con il Libano, c’è stata un’esplosione in seguito al lancio di colpi di mortaio o di un razzo anticarro: 11 persone ferite, tra cui quattro soldati israeliani. In precedenza altre esplosioni erano state segnalate sulle alture del Golan, per il lancio di un razzo dalla Siria. L’artiglieria israeliana aveva poi sparato verso la località da dove era partito l’attacco.

Israele allarga la manovra terrestre al settore sud della Striscia di Gaza. Gli aggiornamenti sul conflitto con Hamas in Medio Oriente.
Un tunnel di Hamas (Ansa).

L’Idf: «Scoperti più di 800 tunnel di Hamas nella Striscia»

Le forze di difesa israeliane hanno reso noto di aver scoperto più di 800 tunnel nella Striscia di Gaza dall’inizio dell’offensiva di terra. Circa 500 sarebbero già stati distrutti, facendoli esplodere o sigillandoli. Secondo l’Idf, molti tunnel collegano le «risorse strategiche» di Hamas.

L’Onu: «Sfollata il 75 per cento della popolazione di Gaza»

Circa 1,8 milioni di persone, pari al 75 per cento della popolazione della Striscia di Gaza, sono sfollati interni: lo dichiara l’agenzia dell’Onu per il coordinamento degli affari umanitari (Ocha).

La Cina, il progetto di sinizzazione delle minoranze musulmane e i problemi col mondo arabo

La denuncia arriva direttamente Human Rights Watch, una delle principali organizzazioni che si occupano della tutela dei diritti umani nel mondo. E non è nemmeno una novità. Il governo della Repubblica popolare cinese sta proseguendo nel proprio progetto di cosiddetta “sinizzazione” delle minoranze etniche, in particolare di religione musulmana, iniziato all’incirca nel 2014 con l’era Xi Jinping e la persecuzione degli uiguri, una popolazione di circa 11 milioni di persone che abita la regione autonoma dello Xinjiang, nel Nord-Ovest del Paese, e che oggi si riverbera in una sistematica distruzione, chiusura o riconversione architettonica e strutturale di almeno un migliaio di moschee presenti in altre due regioni autonome del Nord, cioè Ningxia e Gansu. L’azione delle autorità locali, che secondo Hrw va avanti almeno dal 2018, è incentrata sulla limitazione radicale della pratica e dell’espressione della religione islamica tramite una sorta di adeguamento alla attuale società cinese. All’interno del suo rapporto, Hrw ha pubblicato anche una serie di fotografie che mostrano come l’intervento delle autorità abbia rimosso alcune peculiarità tradizionalmente appartenenti alle moschee, come minareti e cupole, o ne abbia distrutto direttamente le sale da preghiera.

La religione musulmana è considerata minacciosa

Secondo le parole di Elaine Pearson, direttrice della sezione asiatica di Hrw, la pratica di sinizzazione portata avanti su volontà del Partito comunista cinese mira a una «repressione della pratica religiosa musulmana, poiché considerata un’entità minacciosa che necessita di essere controllata». In un documento datato aprile 2016, nell’ambito della Conferenza nazionale sul lavoro religioso, il segretario generale del Pcc Xi Jinping ha espressamente presentato quelli che sarebbero stati i nuovi scopi e le direttive del partito in materia di minoranze religiose, secolarizzazione e salvaguardia della coesione nazionale.

La Cina, il progetto di sinizzazione delle minoranze musulmane e i problemi col mondo arabo
Un musulmano in una moschea in Cina (Getty).

L’obiettivo è un adattamento alla società socialista

Nel corso del suo intervento, ha sottolineato la necessità di «sviluppare una teoria religiosa di tipo socialista con caratteristiche cinesi» che sia in grado di «guidare la religione verso un adattamento alla società socialista». Per compiere questo obiettivo sarebbe poi stato fondamentale «unire le grandi masse religiose del Paese a quelle non religiose», con il fine ultimo del bene più importante «dell’unità sociale» per la realizzazione del socialismo con caratteristiche cinesi. Un concetto fondamentale in Cina, che corrisponde a uno stato di pace, armonia e stabilità interno alla nazione.

Su 1,5 miliardi di persone ci sono 55 gruppi etnici minoritari

La tendenza a “cinesizzare” o adattare tutto ciò che può essere motivo di contrasto a questa armonia è stato un concetto spesso ripreso da molti sinologhi nello studiare la politica di centralizzazione e rigido controllo portata avanti dal Pcc. La Repubblica popolare vanta infatti una composizione etnica invidiabile per uno Stato intento a edificare un grande profilo di potenza capaci di affermarsi nel sistema internazionale. Circa il 92 per cento della popolazione cinese infatti è di etnia han e abita la parte orientale del Paese, più prossima alle coste e alle megalopoli. A fronte di una popolazione complessiva di circa 1,5 miliardi di persone però, la presenza di 55 gruppi etnici minoritari non è di certo un numero irrisorio e insignificante. Uno studio condotto da Pew Research Center nel 2009 ha infatti quantificato il numero di musulmani in Cina in circa 21 milioni, di cui 11 presenti solo nello Xinjiang, dove costituiscono la componente etnica maggioritaria.

La Cina, il progetto di sinizzazione delle minoranze musulmane e i problemi col mondo arabo
Comunità musulmane cinesi (Getty).

Pechino vuole però intensificare i rapporti col mondo arabo

In virtù di queste politiche persecutorie messe in atto da Pechino, è utile capire come la Cina sarà in grado di conciliare queste violazioni dei diritti umani dei musulmani con il tentativo di avvicinamento e intensificazione dei rapporti col mondo arabo-musulmano. Gli apparati diplomatici cinesi si sono infatti impegnati molto negli ultimi mesi per aumentare la propria influenza nel mondo arabo non solo da un punto di vista economico e per quanto riguarda il progetto della Nuova via della seta, ma anche e soprattutto per proporsi come potenza conciliatrice alternativa alla guida statunitense, arrivando a favorire il difficile riavvicinamento diplomatico fra Iran e Arabia Saudita nel marzo del 2023 ed elaborando un piano in tre punti per risolvere la questione palestinese quando nel giugno del 2023 il presidente dell’Anp Mahmoud Abbas è stato ricevuto a Pechino da Xi Jinping.

Xi da subito critico con la reazione di Israele

Nell’ambito della guerra fra Israele e Hamas, nonostante una breve parentesi di ambiguità iniziale, Pechino si è infatti schierata apertamente con i Paesi arabi criticando l’eccesso di autodifesa messo in pratica da Israele nella striscia di Gaza. Lo stesso conflitto ha mostrato però l’importanza del credo religioso per i Paesi arabi come collante, in grado di influenzarne l’unità e l’orientamento diplomatico e delle alleanze internazionali. Un elemento che la Cina non potrà sicuramente permettersi di ignorare.

Filippine, attentato durante una messa cattolica: quattro morti e più di 40 feriti

Quattro persone sono state uccise e 42 sono rimaste ferite in un’esplosione avvenuta durante una messa cattolica nelle Filippine. L’attentato è avvenuto in una palestra dell’Università statale di Mindanao, nella città di Marawi, che nel 2017 era stata teatro di una battaglia durata cinque mesi tra forze governative e militanti legati allo Stato islamico. L’esplosione sarebbe stata causata da una granata.

Filippine, attentato durante una messa cattolica: quattro morti e più di 40 feriti. È successo nella città di Marawi.
La palestra dove si è verificato l’attentato (Getty Images).

Il presidente Marcos punta il dito contro «terroristi stranieri»

Il presidente filippino Ferdinand Marcos ha condannato «con la massima fermezza gli atti insensati e atroci perpetrati da terroristi stranieri», manifestando la sua vicinanza «alle vittime, ai loro cari e alle comunità che sono state il bersaglio di questo assalto alla pace». Marcos ha annunciato che verrà dispiegato ulteriore personale di sicurezza, esortando la popolazione a mantenere la calma. L’Università di Mindanao, con un comunicato, si è detta «profondamente rattristata e scioccata dall’atto di violenza» e ha condannato «inequivocabilmente e con la massima fermezza questo atto orribile e insensato». Le lezioni sono state sospese.

L’esplosione è avvenuta in una regione autonoma a maggioranza musulmana

Il generale Allan Nobleza, capo della polizia nella regione autonoma di Bangsamoro, dove la popolazione è prevalentemente musulmana, ha dichiarato che l’attentato potrebbe essere collegato all’uccisione di 11 membri del Gruppo Maute, di ideologia islamista, in un’operazione militare compiuta il primo dicembre a Datu Hoffer Ampatuan, nella provincia del Maguindanao del Sur.

Filippine, attentato durante una messa cattolica: quattro morti e più di 40 feriti. È successo nella città di Marawi.
Due dei feriti nell’esplosione (Getty Images).

Attentato di Parigi, l’uomo che ha ucciso un turista tedesco era stato già condannato per terrorismo

L’uomo che nella serata del 2 dicembre a Parigi ha ucciso a coltellate al grido di “Allah Akbar” un turista tedesco nei pressi della Torre Eiffel, ferendo altre due persone, è di nazionalità francese ma di origine iraniana: schedato come islamista radicalizzato, era già stato condannato in passato per terrorismo.

Attentato di Parigi, l’uomo che ha ucciso un turista tedesco era stato già condannato per terrorismo in Francia.
Veicoli della polizia francese (Getty Images).

L’attentatore era nella Lista S del governo francese

Armand R., questo il nome dell’attentatore, è nato in Francia nel 1997. Era stato arrestato nel 2016 e successivamente condannato a cinque anni di carcere (di cui uno con la sospensione) per aver pianificato un attentato a La Defénce. Come ha reso noto il ministro dell’Interno Gerald Darmanin, l’attentatore era in cura psichiatrica e figurava nella “Fiche S” del governo francese, dove sono stati inseriti i nomi di tutti gli individui considerati potenzialmente minacciosi per la sicurezza dello Stato. Questo per i suoi legami con l’islamismo radicale.

Attentato di Parigi, l’uomo che ha ucciso un turista tedesco era stato già condannato per terrorismo in Francia.
Agenti di polizia sul luogo dell’attacco (Getty Images).

Ha detto alla polizia di voler «morire da martire»

La vittima, un turista di nazionalità filippino-tedesca, è stata attaccata nei pressi della Torre Eiffel, con diversi colpi alla testa, alla schiena e alle spalle. Poi l’attentatore ha ferito altre due persone (non in pericolo di vita) a martellate, prima di darsi alla fuga inseguito dalla polizia, che alla fine ha utilizzato due volte una pistola a impulsi elettrici per immobilizzarlo in Avenue du Parc de Passy. Armand R. avrebbe detto agli agenti di voler «morire da martire» perché non sopportava «l’uccisione degli arabi in tutto il mondo».

Il messaggio del presidente francese Macron

«Porgo le mie condoglianze alla famiglia e ai cari del cittadino tedesco morto questa sera durante l’attacco terroristico a Parigi e penso con commozione alle persone attualmente ferite e ricoverate», ha twittato il presidente francese Emmanuel Macron. «I miei più sinceri ringraziamenti alle forze di emergenza che hanno consentito di arrestare rapidamente il sospettato. La procura nazionale antiterrorismo avrà il compito di far luce sulla vicenda affinché venga fatta giustizia in nome del popolo francese».

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Stop ai negoziati con Hamas, Israele ritira la sua delegazione in Qatar

Nel secondo giorno di guerra dopo la tregua, Israele ha portato nuovi raid aerei sulla parte meridionale della Striscia di Gaza, distruggendo tre moschee a Khan Yunis. L’Idf ha affermato di aver attaccato più di 400 «obiettivi terroristici» nella Striscia di Gaza dalla fine della pausa nei combattimenti con Hamas. Sono state coinvolte forze aeree, navali e di terra. Più di 100 persone sarebbero morte in un raid israeliano che ha preso di mira una casa che ospitava famiglie e sfollati nel campo di Jabalia, nel nord della Striscia. Anche Hamas ha ripreso ad attaccare: sirene di allarme hanno risuonato in diverse zone nel nord di Israele, tra cui Nazareth.

Stop ai negoziati con Hamas, Israele ritira la sua delegazione in Qatar. Gli aggiornamenti sulla guerra in Medio Oriente.
Edifici distrutti a Khan Yunis (Getty Images).

Sono oltre 15 mila i morti a Gaza, almeno 40 mila i feriti

Il numero dei palestinesi uccisi dagli attacchi israeliani a Gaza è salito a 15.207. Lo ha dichiarato il ministero della Sanità della Striscia, controllato da Hamas. Secondo il ministero, il 70 per cento delle vittime sono donne e bambini, e negli attacchi sono rimaste ferite più di 40 mila persone.

Trattative sugli ostaggi a un punto morto, il Mossad richiama lo staff da Doha

«Alla luce del punto morto in cui sono giunte le trattative, dietro istruzione del premier Benyamin Netanyahu, il capo del Mossad David Barnea ha ordinato al suo staff di rientrare da Doha». Lo rende noto un comunicato ufficiale, in cui viene evidenziato che «l’organizzazione terroristica Hamas non ha realizzato la propria parte dell’accordo, che includeva la liberazione di donne e bambini secondo una lista inoltrata a Hamas, e approvata da quella organizzazione».

Stop ai negoziati con Hamas, Israele ritira la sua delegazione in Qatar. Gli aggiornamenti sulla guerra in Medio Oriente.
Carro armato israeliano (Getty Images).

Due pasdaran iraniani sono stati uccisi durante un raid di Israele in Siria

Il Corpo delle Guardie Rivoluzionarie dell’Iran ha dichiarato che Israele ha ucciso due dei suoi membri, «martirizzati dal nemico usurpatore sionista mentre svolgevano una missione consultiva sul fronte della resistenza islamica siriana».

Cisgiordania, ucciso un palestinese che aveva aggredito dei soldati a un posto di blocco

Continuano gli scontri in Cisgiordania: un palestinese è stato ucciso dopo che, secondo il portavoce militare israeliano, aveva cercato di avventarsi con un coltello contro soldati che presidiavano un posto di blocco a pochi chilometri da Nablus.

Entrati dal valico di Rafah i primi 50 camion di aiuti umanitari dalla fine della tregua

I primi 50 camion di aiuti umanitari da quando sono riprese le ostilità sono entrate nella Striscia di Gaza dal valico di Rafah con l’Egitto. Lo fa sapere la Mezzaluna rossa palestinese.

Stop ai negoziati con Hamas, Israele ritira la sua delegazione in Qatar. Gli aggiornamenti sulla guerra in Medio Oriente.
Il valico di Rafah (Ansa).

Macron: «L’obiettivo di distruggere Hamas porterebbe a 10 anni di guerra»

L’obiettivo di distruggere totalmente Hamas deve essere specificato da Israele, perché potrebbe portare a «10 anni” di guerra». È l’avvertimento lanciato da Emmanuel Macron, a margine della Cop28 in corso a Dubai: «La giusta risposta al terrorismo non è un bombardamento sistematico e permanente», ha sottolineato il presidente francese.

Mosca, irruzioni della polizia nei locali gay dopo la sentenza anti-Lgbt

La polizia di Mosca ha preso di mira diversi locali notturni gay-friendly e una sauna per uomini della capitale russa, in quelli che sembravano raid simultanei a un paio di giorni dalla sentenza della Corte Suprema russa che ha etichettato come «estremista» il «movimento internazionale Lgbt», mettendolo al bando.

Il racconto di un testimone oculare: «Hanno interrotto la musica e gli agenti sono entrati in discoteca»

In un video del notiziario Ostorozhno Novosti, si vede la polizia all’ingresso di una discoteca di Mosca, in via Malaya Yakimanka, dove si stava svolgendo una grande festa. «Nel bel mezzo del party hanno interrotto la musica e gli agenti hanno iniziato a entrare nelle sale», ha raccontato un testimone oculare, aggiungendo che i poliziotti hanno scattato foto dei passaporti di alcuni dei presenti. Almeno tre bar sono stati presi di mira durante la notte dalle forze dell’ordine, riferisce il notiziario Sota, mentre Ostorozhno Novosti ha detto che è stata perquisita anche una sauna maschile nel centro di Mosca.

Mosca, irruzioni della polizia nei locali gay dopo la sentenza anti-Lgbt. Festa interrotta in una discoteca e controlli in almeno tre bar.
La Corte Suprema russa (Getty Images).

Uno dei locali gay più rinomati di San Pietroburgo aveva annunciato la chiusura dopo la sentenza della Corte Suprema

Nella tarda serata del primo dicembre la Stazione Centrale di San Pietroburgo, uno dei locali gay più antichi e rinomati della città, ha annunciato la chiusura a causa della decisione della Corte Suprema. La Russia aveva già messo al bando la «propaganda Lgbt» nel corso del 2022, vietando di fatto la rappresentanza di queste persone in pubblico e nei media.

Da Alibaba a Ma’s Kitchen: il nuovo business di Jack Ma

Nel 1998 ha creato dal niente Alibaba, azienda che sarebbe presto diventata la piattaforma di commercio più grande al mondo. Nel corso degli anni è diventato uno degli imprenditori più ricchi della Cina, ed è rimasto a galla nonostante lo scontro con il Partito Comunista. Un anno fa ha tentato il colpaccio piazzando un Ipo da record con Ant Group, altra società da lui fondata, venendo però bloccato da Pechino. A quel punto, Jack Ma è sparito dai radar, salvo poi tornare sulla scena tre mesi più tardi. Adesso il tycoon è pronto a tuffarsi in un nuovo business: quello del cibo.

Da Alibaba a Ma's Kitchen: il nuovo business di Jack Ma
Jack Ma con Elon Musk durante la World Artificial Intelligence Conference (WAIC) a Shanghai del 2019 (Getty Images).

Il business della Cucina di Ma

Il miliardario tecnologico più famoso della Cina ha fondato la società Hangzhou Ma’s Kitchen Food, meglio nota come Ma’s Kitchen, ovvero La Cucina di Ma. La startup, appena nata, ha visto luce a Hangzhou, la città natale dell’imprenditore sede anche di Alibaba. Secondo il National Enterprise Credit Information Publicity System, il registro delle aziende gestito dal governo cinese, l’impresa, dotata di un capitale iniziale di 10 milioni di yuan (circa 1,4 milioni di dollari), si concentrerà sulla vendita di alimenti preconfezionati, importazioni ed esportazioni, nonché sul commercio di prodotti agricoli. Dalle poche informazioni fin qui filtrate, è inoltre emerso che Ma’s Kitchen sarebbe interamente di proprietà di un’entità denominata Hangzhou Dajingtou No. 22 Arts and Culture, della quale lo stesso Jack Ma detiene il 99,9 per cento delle quote. Sia il modello di business che il tipo di cibo che venderà l’azienda sono ancora avvolti nel mistero. La startup di Ma potrebbe imporsi nel mercato dei piatti precotti che hanno avuto un’impennata in Cina in seguito alla pandemia di Covid-19. Questo mercato, oltre la Muraglia, nel 2022 valeva circa 9,9 miliardi di dollari, in crescita del 28 percento rispetto al 2018. Altri dati aiutano a inquadrare meglio il fenomeno, visto che la domanda cinese dei cosiddetti “kit pasto”, e cioè le scatole di cibo pronte all’uso a fronte di un semplice assemblaggio o cottura, è quasi triplicata dal 2018 al 2022, passando da un giro d’affari annuo di 1,5 miliardi a 4 miliardi di dollari. Il margine è ancora enorme, considerando che i cibi precotti rappresentano appena il 10-15 per cento dei pasti delle famiglie cinesi, contro il 60 per cento di quelle giapponesi.

 

Da Alibaba a Ma's Kitchen: il nuovo business di Jack Ma
Jack Ma a Wall Street nel 2019 (Getty Images).

L’ipotesi di partnership con Alibaba

Ma si è dimesso dal consiglio di amministrazione di Alibaba nel 2020, ma ha ancora una notevole influenza del gruppo. Non è quindi da escludere che l’imprenditore possa far convergere la futura vendita dei prodotti alimentari di Ma’s Kitchen sulla piattaforma di e-commerce da lui fondata. Ipotesi, dubbi e supposizioni che lasciano, in ogni caso, presupporre un’entrata a gamba tesa della startup di Jack Ma in un settore, quello del cibo, che promette di espandersi a macchia d’olio. Negli ultimi mesi, il magnate ha effettuato vari viaggi all’estero, spostandosi tra Europa, Giappone e Sudest asiatico, e mostrando un notevole interesse per le tecnologie agricole. I media giapponesi, ad esempio, hanno riferito di una visita presso la struttura di ricerca sull’acquacoltura dell’Università di Kindai, a Osaka, mentre in Olanda Ma è stato attratto dalle serre. Ma qual è il vero obiettivo di Ma? Probabilmente stupire ancora il mondo. Questa volta sfruttando il cambio delle abitudini alimentari dei suoi concittadini. Sempre più propensi a consumare pasti pronti da riscaldare dopo l’esperienza dei lunghi ed estenuanti lockdown.

Cop28, perché l’assenza di Xi Jinping e Biden mette una ipoteca sulla Conferenza

Le assenze di Xi Jinping e di Joe Biden al tavolo della Cop28 che si è aperta giovedì a Dubai non lasciano presagire nulla di buono. E confermano la distanza, anche in materia di ambiente, tra Pechino e Washington, nonostante lo spiraglio aperto dal faccia a faccia tra i due leader dello scorso 15 novembre a San Francisco. «I grandi leader generalmente cercano di evitare i summit se prevedono che non avranno successo», ha commentato Josef Gregory Mahoney, professore dell’Università di Shanghai al South China Morning Post. E questo perché non vogliono essere associati direttamente a un eventuale fallimento.

Cop 28, perché l'assenza di Xi Jinping e Biden mette una ipoteca sul summit
Xi Jinping all’APEC di San Francisco (Getty Images).

Le accuse della Cina a Usa e Occidente

Proprio in occasione della giornata di apertura della Conferenza presieduta (paradossalmente) dal petroliere Sultan Al Jaber, capo della compagnia petrolifera Adnoc, sul Global Times, organo di stampa del Partito Comunista cinese, è apparsa una dura critica contro gli Usa e l’Occidente incapaci di assumersi le proprie responsabilità, contro gli sforzi “concreti” compiuti da Pechino per ridurre le emissioni. Il dato cruciale contestato dal Dragone è il mancato rispetto da parte di Nord America, Europa, Giappone e Australia del principio del Common But Differentiated Responsibilities (Cbdr) introdotto nella Convenzione quadro dell’Onu a Rio de Janeiro nel 1992: se è vero che tutti gli Stati condividono una responsabilità comune nei confronti delle sorti del clima e dell’umanità, questa deve essere però ‘misurata’ in base alla storia di ogni nazione, al suo livello di sviluppo e alla disponibilità di risorse. Tutti responsabili, in altre parole, ma non allo stesso modo. A partire dal 1850, Stati Uniti ed Europa sono stati responsabili di più della metà delle emissioni di anidride carbonica. Per questo è inconcepibile per la Cina essere messa nel mirino come principale inquinatore mondiale, sebbene nei fatti lo sia. Il Dragone lo scorso anno ha prodotto il 30 per cento delle emissioni globali ed è responsabile del 13 per cento delle emissioni storiche dall’inizio dell’industrializzazione, contro il 19 per cento degli Usa. Ma in una fase di rallentamento dell’economia non può permettersi di frenare. Soprattutto sul carbone, come chiesto dagli Stati Uniti e non solo. I numeri, agli occhi di Pechino, parlano da soli: il Pil pro capite cinese nel 2021 era di 12.500 dollari contro gli oltre 70 mila di quello Usa e il consumo energetico medio pro capite è più basso di due terzi rispetto a quello di Usa e Canada, per una popolazione di 1,4 miliardi di persone.

Cop 28, perché l'assenza di Xi Jinping e Biden mette una ipoteca sul summit
Sultan Ahmed Al Jaber, presidente della Cop28 (Getty Images).

La guerra commerciale sulla transizione ecologica

Dietro al dibattito sul clima c’è poi la guerra commerciale tra le due superpotenze. Per Washington il Dragone resta una minaccia. La Cina infatti è leader indiscussa in alcuni settori chiave per la transizione ecologica mondiale, dall’industria di auto elettriche e batterie ai pannelli solari di cui Pechino controlla il 75 per cento del mercato globale. Gli Usa non intendono concedere all’avversario alcun vantaggio e per questo sono arrivati a decisioni drastiche come il divieto nel 2021 delle importazioni di componenti per pannelli solari prodotti da alcune società cinesi in seguito ad accuse di lavoro forzato. O la più recente esclusione (agosto 2022) dei veicoli elettrici made in China dai sussidi dell’Inflation Reduction Act, il maxi-piano da 370 miliardi di dollari varato da Biden per accelerare la transizione. Sgravi applicati però alle auto prodotte negli Usa, in Canada, in Messico e Giappone. Uno schiaffo per Pechino e per i suoi affari.

Cop28, Meloni: «Serve una transizione ecologica e non ideologica»

Alla Cop28, la conferenza Onu sui cambiamenti climatici in corso a Dubai, Giorgia Meloni ha affermato che occorre «perseguire una transizione ecologica e non ideologica”, promuovendo «un approccio tecnologicamente neutro, libero da inutili radicalismi». Nel corso del suo intervento, la premier italiana ha detto: «La mia idea è che se vogliamo essere efficaci, se vogliamo una sostenibilità ambientale che non comprometta la sfera economica e sociale».

Cop28, Meloni: «Serve una transizione ecologica e non ideologica». L’intervento della premier alla conferenza Onu sui cambiamenti climatici.
Cop28, stretta di mano tra Giorgia Meloni e il segretario di Stato Usa Antony Blinken (Getty Images).

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«L’Italia sta facendo la sua parte nel processo di decarbonizzazione in modo pragmatico»

La presidente del Consiglio ha poi evidenziato che l’Italia «sta facendo la sua parte nel processo di decarbonizzazione in modo pragmatico» e che si è «impegnata a garantire, attraverso il programma Ue Fit for 55, un approccio multisettoriale che rafforzi i mercati del lavoro e mitighi l’impatto» sui cittadini. «Questo è un punto essenziale, perché se pensiamo che la transizione verde possa comportare costi insostenibili, soprattutto per i più vulnerabili, la condanniamo al fallimento».

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Cop28, Meloni: «Serve una transizione ecologica e non ideologica». L’intervento della premier alla conferenza Onu sui cambiamenti climatici.
Giorgia Meloni scherza con il primo ministro indiano Narendra Modi alla Cop28 (Getty Images).

«L’obiettivo di contenere le temperature entro 1,5 gradi è lontano, la Cop28 deve essere una svolta»

«È un momento chiave del nostro sforzo di contenere le temperature entro 1,5 gradi: anche se ci sono ragioni per essere ottimisti l’obiettivo è lontano, la Cop28 deve essere una svolta», ha aggiunto Meloni. «L’Italia ha deciso di investire sul biocombustibile globale: abbiamo tracciato la strada di neutralità al carbonio entro il 2050», ha affermato la presidente del Consiglio dei ministri.

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La Corea del Sud ha lanciato dagli Stati Uniti il suo primo satellite spia

Dopo il lancio da parte di Pyongyang della sua prima sonda militare, la Corea del Sud intensifica la corsa allo spazio nella penisola coreana con il lancio di un satellite spia, trasportato da un razzo Falcon 9 di SpaceX, l’azienda di Elon Musk, decollato dalla base spaziale americana di Vandenberg, in California. «Sul razzo c’era una scritta con la parola “Korea”. Se verrà messo in orbita con successo, Seul avrà acquisito il suo primo satellite spia costruito a livello nazionale per monitorare la Corea del Nord dotata di armi nucleari», ha dichiarato un portavoce di SpaceX.

Seul vuole lanciare altri quattro sonde entro il 2025: serviranno a monitorare le attività di Pyongyang

Seul prevede di lanciare altri quattro satelliti spia entro la fine del 2025 per rafforzare la sua capacità di ricognizione della Corea del Nord. Impostato in orbita tra i 400 e i 600 chilometri dalla Terra, il satellite sudcoreano è in grado di rilevare un oggetto fino ai 30 centimetri, riferisce l’agenzia di stampa Yonhap. Il lancio è avvenuto a meno di due settimane da quando Pyongyang ha messo in orbita con successo il proprio satellite spia che avrebbe fornito, secondo le autorità, immagini dei principali siti militari statunitensi (tra cui il Pentagono e la Casa Bianca) e sudcoreani, nonché foto di Roma, tutte messe a disposizione del leader Kim Jong-un.

La Corea del Sud ha lanciato dagli Stati Uniti il suo primo satellite spia, trasportato da un razzo Falcon 9 di SpaceX.
Le celebrazioni per il lancio del Malligyong-1 su un maxischermo in Giappone (Getty Images).

La Corea del Nord ha minacciato di abbattere i satelliti spia Usa in risposta a «qualsiasi attacco» contro il suo

Il lancio del Malligyong-1 da parte della Nord Corea è stato il terzo tentativo – questa volta riuscito – di mettere in orbita un satellite del genere, dopo due fallimenti a maggio e agosto. Secondo Seul, Pyongyang avrebbe ricevuto aiuto tecnico da Mosca, in cambio della fornitura di armi da utilizzare nella guerra in Ucraina. La Corea del Nord ha reso noto, tramite una dichiarazione ufficiale del ministero della Difesa diramata dall’agenzia di stampa statale Kcna, che considererà i tentativi degli Usa di neutralizzare la sua prima sonda da ricognizione in orbita terrestre come una dichiarazione di guerra e che, nel caso, «prenderà in considerazione l’adozione di misure di autodifesa per indebolire o distruggere la vitalità dei satelliti spia americani».

La Corea del Sud ha lanciato dagli Stati Uniti il suo primo satellite spia, trasportato da un razzo Falcon 9 di SpaceX.
Il lancio del primo satellite spia sudcoreano (Ansa).

La guerra in Ucraina, i difficili equilibri all’interno della Nato e i timori di Zelensky

Nel 2019 il presidente francese Emmanuel Macron aveva definito la Nato clinicamente morta. Poi è arrivato Vladimir Putin con l’invasione dell’Ucraina a far resuscitare l’Alleanza, che è addirittura diventata più numerosa. La Finlandia è già entrata, sulla Svezia pende ancora il giudizio della Turchia, ma in sostanza è cosa fatta. La questione dell’Ucraina è un altro paio di maniche, visto che tutto dipende dall’andamento della guerra in corso: se, quando e come Kyiv farà il suo ingresso è ancora tutto da decidere. Anche perché dopo quasi due anni di conflitto, arrivato ormai alla boa dei 650 giorni, la stanchezza nei confronti della guerra nell’ex repubblica sovietica si manifesta anche all’interno della Nato. Sul fatto che l’Alleanza, gli Stati Uniti e i Paesi europei siano a fianco di Kyiv contro l’aggressione russa non ci sono dubbi. Nessuno tra Washington e Bruxelles manca mai di ricordare a ogni occasione che il sostegno occidentale continuerà sino a quando sarà necessario. Anche se in realtà non si è mai capito quale sia la necessità: quella di vincere la guerra? Di ricacciare i russi via dal Donbass e dalla Crimea? O di difendersi cercando di non lacerare ulteriormente il Paese? Di evitare quindi che la Russia fagociti mezza Ucraina da sud a est sino alla linea del Dnipro? Domande a cui finora gli alleati non hanno dato risposte. Almeno esplicite.

La guerra in Ucraina, i difficili equilibri all'interno della Nato e i timori di Zelensky
Volodymyr Zelensky, presidente dell’Ucraina (Getty Images).

Per Kyiv niente ingresso nella Nato a guerra in corso

Il segretario dell’Alleanza Atlantica Jens Stoltenberg, il capo della diplomazia statunitense Antony Blinken, la presidente della Commissione europea Ursula Von der Leyen, i leader dei Paesi europei, baltici e polacchi in in primis, lo hanno ripetuto senza sosta in questi giorni e la promessa dell’entrata dell’Ucraina nella Nato è stata ribadita anche al recente vertice di Bruxelles, ma lo stesso Stoltenberg ha precisato che non se ne parla finché è in corso la guerra. E questo per la leadership ucraina è un problema, ormai conosciuto, tanto che il presidente Volodymyr Zelensky lo ha anche ammesso pubblicamente. Ma al di là del fatto che la strada verso l’ammissione sia in salita, al momento Kyiv deve confrontarsi con problemi molto più concreti che riguardano proprio la piega che sta prendendo il conflitto. Al summit in Belgio il ministro degli Esteri Dmytro Kuleba si è sentito dire che nemmeno i tanto desiderati caccia da combattimento F16 potranno cambiare la situazione sul campo. Dovrebbero volare nei cieli ucraini già nella prima metà del prossimo anno, ma le operazioni di addestramento vanno a rilento e i piloti in training si contano col contagocce. Sistemi missilistici a lunga gittata sono da sempre richiesti, ma mai arrivati. L’Occidente sembra essere dunque d’accordo con il capo delle forze armate ucraine, il generale Valery Zaluzhny che ha affermato che da questa guerra di posizione è difficile uscire. Soprattutto a queste condizioni.

La guerra in Ucraina, i difficili equilibri all'interno della Nato e i timori di Zelensky
Il segretario di Stato Usa Antony Blinken e il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg al meeting dei ministri degli Esteri dell’Alleanza atlantica a Bruxelles del 29 novembre 2023 (Getty Images).

Le voci di un possibile accordo tra Berlino e Washington per un compromesso con Mosca, sebbene smentite, agitano Kyiv

Zelensky deve dunque fare buon viso a cattivo gioco e accontentarsi di quello che la Nato e gli altri gli passano. Gli aiuti militari e finanziari si sono ridotti in questo semestre in maniera evidente, parte di ciò che è stato assicurato non è addirittura stato consegnato, tanto che dalla Germania è arrivata la voce di un accordo tra Berlino e Washington proprio in tal senso: ridurre il sostegno all’Ucraina per facilitare un compromesso con Mosca. Anche se i diretti interessati hanno subito smentito, il dubbio resta, alla luce dei fatti, almeno per ora. C’è quindi chi sembra tirare i remi in barca, e se lo fanno gli Usa non ci si dovrà sorprendere se questa sarà la linea tutti gli altri seguiranno. Tra chi ha già smesso di stracciarsi le vesti per Kyiv, dall’Ungheria alla Slovacchia passando per l’Olanda, Paesi dove i nazionalpopulisti hanno manifestato apertamente scetticismo nei confronti degli aiuti militari, e chi invece vorrebbe ancora la sconfitta totale della Russia, vale dire le repubbliche baltiche e la Polonia. Senza dimenticare la Turchia di Erdogan, sempre buon amico di Putin e dopo lo scoppio della guerra tra Israele e Hamas ancora più distante dalle posizioni dei colleghi occidentali. La Nato insomma è resuscitata, ma in grande difficoltà di equilibrio per trovare una risposta davvero unitaria alla sfida lanciata dal Cremlino.

Germania, arrestato un 20enne iracheno: preparava un attentato a un mercatino di Natale

La polizia tedesca ha arrestato un 20enne iracheno con l’accusa di aver pianificato un attacco terroristico. L’obiettivo sarebbe stato un mercatino di Natale della Bassa Sassonia, forse nella città di Hannover. Secondo quanto riscontrato dagli investigatori, il ragazzo si stava preparando ad attaccare i visitatori con un coltello. Il 20enne si trovava in Germania da un anno. Si tratta del secondo caso in pochi giorni, dopo che in Nord Reno-Westafalia e a Brandeburgo, a fine novembre, sono stati arrestati due ragazzi di 15 e 16 anni con accuse simili.

Gli attacchi pianificati contro mercatini e sinagoghe

Il caso dei due ragazzi arrestati a fine novembre ha scosso la Germania, che ora fa i conti con un terzo arresto. I due ragazzini sono stati presi in due zone diverse. Il 15enne, fermato nel Nord Reno-Westfalia, stava preparando un attacco a un mercatino di natale. Su Telegram ha postato un video in cui evocava una «guerra santa» contro l’Occidente e ha parlato di un attentato che avrebbe portato a termine l’1 dicembre. Il secondo, invece, ha 16 anni ed è stato preso nello Stato di Brandeburgo. Il suo obiettivo sarebbe stato una sinagoga. Ora le autorità hanno alzato la soglia d’allerta.

Il capo dell’ufficio federale: «Attacco possibile ogni giorno»

Thomas Haldenwang, capo dell’Ufficio federale per la Protezione della Costituzione, ha dichiarato: «Ho sottolineato più volte come un attacco islamista potrebbe avere luogo in Germania ogni giorno». Già dal 7 ottobre, data dell’assalto di Hamas a Israele da cui è partita la guerra nella Striscia di Gaza, la polizia locale ha aumentato i presidi di sicurezza soprattutto nei centri ebraici. Il 18 ottobre a Berlino sono state lanciate due bombe molotov contro una sinagoga e alcuni edifici in un centro ebraico. Per fortuna non si sono registrati né danni alle strutture né feriti.

Germania, arrestato un 20enne iracheno preparava un attentato a un mercatino di Natale
La polizia sui luoghi del lancio delle bombe molotov il 18 ottobre (Getty Images).

«Carlo e Kate razzisti con Archie»: l’edizione olandese di Endgame fa i nomi per errore

A Buckingham Palace la Royal Family si sta interrogando da ore su come procedere dopo le rivelazioni fatte dall’edizione olandese di Endgame, il nuovo libro di Omid Scobie. Nella versione pubblicata in Olanda e già ritirata dal mercato, l’autore ha svelato i nomi di chi, all’interno della famiglia reale, avrebbe fatto commenti razzisti su Archie, il primo figlio di Harry e Meghan, prima ancora che nascesse. Si tratterebbe di Re Carlo e di sua nuora Kate Middleton, principessa di Galles.

«Carlo e Kate razzisti con Archie» l'edizione olandese di Endgame fa i nomi per errore
Re Carlo III insieme a Kate e William (Getty Images).

Il racconto di Meghan da Oprah Winfrey

A parlare per prima della vicenda è stata nel marzo del 2021 la stessa Meghan Markle. Ospite da Oprah Winfrey, la moglie del principe Harry ha raccontato che almeno un membro della famiglia avrebbe chiesto di che colore sarebbe stata la pelle del piccolo Archie dopo la nascita. Meghan, all’epoca, si è rifiutata di rivelare i nomi e l’unico dettaglio reso noto è stato che non si trattava della Regina Elisabetta. L’accusa di razzismo ha infastidito la famiglia reale già due anni fa, ma ora è diventata un caso. I giornalisti della Bbc hanno chiesto ai portavoce di Buckingham Palace se ci siano in procinto azioni legali. La risposta è stata: «Stiamo esplorando tutte le possibilità».

«Carlo e Kate razzisti con Archie» l'edizione olandese di Endgame fa i nomi per errore
Meghan ed Harry (Getty Images).

Scobie si è difeso: «Solo un errore»

La prima edizione di Endgame pubblicata in Olanda ha fatto il resto. La casa editrice l’ha ritirata dal mercato, ma centinaia di copie sono state vendute prima che l’errore venisse scoperto. E così il giornalista televisivo Piers Morgan ha rivelato i nomi in diretta nel Regno Unito: «Vi dirò i nomi dei due importanti reali citati nella versione olandese del libro perché, francamente, se un lettore olandese può entrare in una libreria e vedere questi nomi, anche i britannici, che pagano per la famiglia reale, hanno il diritto di saperli». Scobie è stato accusato di aver utilizzato questo espediente per incrementare le vendite. L’autore, però, si è difeso e ha dichiarato di non sapere come sia stato possibile. Si sarebbe trattato di «un errore». Avviata anche un’indagine interna alla casa editrice.

Mosca, l’Fsb arresta un cittadino italo-russo: è accusato di atti terroristici

I servizi di sicurezza di Mosca hanno arrestato un uomo, un cittadino italo-russo. È accusato di aver commesso «atti di sabotaggio e atti terroristici presso infrastrutture militari e siti di trasporto nella regione di Rjazan». Si tratta di un’area a 200 chilometri da Mosca e gli attentati sarebbero stati organizzati per conto dell’Ucraina. A comunicarlo è stato l’Fsb, cioè l’ex Kgb russo. L’uomo, di cui ancora non sono state confermate le generalità, sembra essere Ruslan Sidiki, 35enne residente a Rjazan e con doppio passaporto, italiano e russo. La notizia è stata rilanciata da diversi media russi secondo cui Sidiki, sul proprio profilo di Vkontakte, il Facebook della Russia, pubblicava aggiornamenti periodici su visite in zone vicino Cernobyl.

Sidiki indagato per terrorismo

Adesso l’italo-russo è indagato per «atto terroristico» e «acquisizione, trasferimento, deposito, trasporto, spedizione o trasporto illegale di esplosivi o ordigni esplosivi». Rischia fino a 32 anni di reclusione. L’Fsb ha anche sottolineato che Ruslan Sidiki ha ammesso la sua colpevolezza durante il primo interrogatorio. E ha raccontato di essere stato reclutato a Istanbul, nel febbraio 2023, da un ufficiale ucraino. Poi l’uomo è stato addestrato al sabotaggio in Lettonia, prima di tornare in Russia. Sidiki, il 20 luglio 2023, sarebbe poi stato protagonista dell’attacco all’aeroporto militare Djaghilevo a Rjazan. Con quattro droni imbottiti di esplosivo, avrebbe provocato un cratere nel parcheggio dello scalo.

Mosca, l'Fsb arresta un cittadino italo-russo è accusato di atti terroristici
Fumo nero dopo un attentato intorno alla bandiera russa (Getty Images).

L’uomo accusato di aver fatto deragliare un treno

Ma l’accusa più grave riguarda l’11 novembre, quando con diversi ordigni avrebbe fatto deragliare un treno merci. 19 vagoni sono usciti dai binari. 15 di essi si sono addirittura ribaltati. Adesso l’Fsb ha accusato Sidiki anche di questo attentato e ha comunicato che durante le perquisizioni in casa dell’italo-russo sono stati trovati componenti di esplosivi, foto e video che rappresentano prove della sua attività. Aleksandr Kots, corrispondente militare di Komsomolskaja Pravda, su Telegram ha commentato: «È un altro esempio di come i servizi speciali ucraini formino agenti non solo tra gli stessi ucraini, ma anche tra cittadini russi che esprimono il loro disaccordo con l’attuale corso politico».

Israele sapeva dell’attacco di Hamas da oltre un anno

L’intelligence israeliana era a conoscenza del piano di Hamas per il 7 ottobre più di un anno prima che l’attacco avvenisse, ma l’aveva trascurato ritenendolo troppo difficile da realizzare per le capacità militari del gruppo radicale palestinese. A rivelarlo è un articolo del New York Times. La ricostruzione del quotidiano si inserisce in un contesto già fragile per la leadership di Netanyahu e delle forze di sicurezza israeliane, accusati dall’opinione pubblica di aver commesso una serie di errori di valutazione sui progetti di Hamas, e di non essere per questo riusciti a proteggere il Paese.

Un’analista aveva avvertito di addestramenti in linea con il piano di Hamas

Il documento in possesso delle autorità israeliane è denominato “Mura di Gerico” e contiene 40 pagine che descrivono dettagliatamente il piano di battaglia di Hamas, esattamente come è avvenuto: dal lancio di razzi e missili dalla Striscia di Gaza all’utilizzo di droni per disabilitare i sistemi di sicurezza presenti al confine, fino all’irruzione via terra e via aria di centinaia di miliziani in Israele, alcuni dei quali utilizzando dei parapendii. Il piano era circolato ampiamente tra le agenzie d’intelligence, e il New York Times riporta delle email riservate che dimostrano l’esistenza di divisioni interne rispetto alla sua realizzabilità. Una parte maggioritaria dell’intelligence lo ha valutato inattuabile rispetto alle capacità militari di Hamas e all’opinione diffusa che il gruppo fosse concentrato a rafforzarsi politicamente all’interno della Striscia, e che per questo non avesse l’obiettivo di attaccare all’esterno. Ma nelle email in possesso del quotidiano americano è presente anche l’avvertimento di un’analista dell’intelligence che aveva riferito della presenza di addestramenti militari di Hamas in linea con quanto descritto nel piano di battaglia. Tuttavia, un colonnello della divisione dell’esercito israeliano che si occupa dell’area della Striscia di Gaza aveva sminuito la sua allerta.

New York Times: «Israele sapeva dell’attacco di Hamas da oltre un anno»
Proteste a Gerusalemme contro il governo di Netanyahu a seguito dell’attacco di Hamas del 7 ottobre (Getty Images).
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