Marc Augé è scomparso lunedì 24 luglio, all’età di 87 anni. Già directeur d’études presso l’École des Hautes Études en Sciences Sociales (EHESS) di Parigi, di cui è stato a lungo presidente, dopo aver contribuito allo sviluppo delle discipline africanistiche, ha elaborato un’antropologia dei mondi contemporanei attenta alla dimensione rituale del quotidiano e della modernità.
Marc Augé (foto Twitter).
Marc Augé, le opere
Tra le sue opere tradotte di recente vi sono: Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità (Milano 1993); Tra i confini. Città, luoghi, interazioni (Milano 2007); Il mestiere dell’antropologo (Torino 2007); Il bello della bicicletta (Torino 2009); Il metrò rivisitato (Milano 2009); Per un’antropologia della mobilità (Milano 2010); Straniero a me stesso(Torino 2011); Futuro(Torino 2012); Per strada e fuori rotta (Torino 2012); Le nuove paure (Torino 2013); Etica civile: orizzonti (con L. Boella, Padova 2013); I paradossi dell’amore e della solitudine(Modena 2014); L’antropologo e il mondo globale(Milano 2014); Il tempo senza età. La vecchiaia non esiste(Milano 2014); Fiducia in sé, fiducia nell’altro, fiducia nel futuro (Roccafranca 2014); La forza delle immagini (Milano 2015); Le tre parole che cambiarono il mondo (Milano 2016); Un altro mondo è possibile (Torino 2017); Sulla gratuità. Per il gusto di farlo!(Milano 2018); Chi è dunque l’altro? (Milano 2019); Condividere la condizione umana. Un vademecum per il nostro presente (Milano 2019).
Il cordoglio del Comitato scientifico
Queste le parole del Comitato scientifico per la scomparsa del noto antropologo: «Con Augé se ne va un amico e un maestro che ha dato al festivalfilosofia e al suo pubblico, come a tanti pubblici sparsi in tutto il mondo, alcuni insegnamenti dai quali non si torna indietro, come l’idea che le nostre pratiche culturali siano immerse in sistemi simbolici che è indispensabile studiare con gli strumenti dell’antropologia: una disciplina che Augé, grande specialista del terreno africano, ha praticato anche rivolgendo quel particolare tipo di sguardo alle nostre società, nella convinzione che, per essere intelligibili, i processi culturali implichino che nella loro analisi ci rendiamo stranieri a noi stessi»
La Salomedi Richard Strauss, in scena 12 anni fa – marzo 2011 – al teatro Petruzzelli di Bari, era costruita su scelte illustrative piuttosto sofisticate. La scena non proponeva infatti una ricostruzione della reggia di Gerusalemme in cui è ambientata l’opera, basata sulla storia evangelica della figlia di Erodiade, Salomè, che esegue per il patrigno Erode la danza dei sette veli, e ottiene come ricompensa la testa di San Giovanni Battista, imprigionato perché pubblico accusatore dell’immoralità della madre. Ma faceva riferimento al più singolare e raffinato esempio di architettura “orientalista” italiana, l’ottocentesco castello di Sammezzano in provincia di Firenze: le scene di Ezio Frigerio erano lo sviluppo di una serie di fotografie di quel sito. Importanti anche le citazioni di Audrey Beardsley, artista che influenzò notevolmente il teatro del decadentismo e segnatamente quello di Oscar Wilde, l’autore del dramma che era stato il punto di riferimento primario del libretto dell’opera, scritto dalla poetessa Hedwig Lachmann. Citazioni evidenti in particolare nei costumi di Franca Squarciapino.
La Salome di Richard Strauss messa in scena nel 2011 al Petruzzelli (da Antennasud).
Quella Salome ispirata al bunga bunga
L’attualizzazione dello spettacolo all’epoca della composizione e non a quella degli eventi (tipico espediente del teatro di regia, oggi nel mirino di una vasta e sempre più agguerrita contestazione dai forti sostegni politici) non era però l’elemento che più aveva attirato l’attenzione mediatica. Un notevole clamore era sorto invece per le dichiarazioni del regista, secondo il quale la vicenda rispecchiava il bunga bunga allora all’attenzione delle cronache politiche e giudiziarie, con tanto di parallelismo fra personaggi dell’attualità e dell’opera. In un’intervista al Corriere del Mezzogiorno alla vigilia del debutto, ad esempio, si leggeva: «Ho voluto ricostruire una situazione leggendaria con riferimenti precisi a una vicenda dei nostri giorni: per cui Erode è Berlusconi, Erodiade la Minetti, mentre Salomé diventa Ruby Rubacuori». Spulciando sul web, si trova del resto che il regista – abilissimo comunicatore e spregiudicato uomo politico – aveva parlato della sua idea all’allora presidente del Consiglio, che l’aveva asseritamente trovata divertente, immaginando sé stesso nei panni del Battista. L’autore dello spettacolo, però, gli aveva replicato che il ruolo del premier era appunto quello di Erode, perché riservava a sé stesso quello del santo. Tanto è vero che alla fine la testa che veniva porta a Salomè su un vassoio d’argento aveva le sue fattezze. Di totalmente estranea alla drammaturgia, poi, c’era una figura muta, una donna dai folti capelli rossi abbigliata con una toga nera, severa spettatrice della vicenda da un palco di proscenio adeguatamente illuminato. L’allusione a Ilda Boccassini, Pm milanese del caso Ruby, era chiara. Alla fine, si legge nelle cronache, lo spettacolo aveva avuto un buon successo, ma non erano mancati i dissensi. Quel regista era Vittorio Sgarbi.
Vittorio Sgarbi e la ‘sua’ Ilda Boccassini sul palco del Petruzzelli (da Antennasud).
Gli attacchi alla bohème sessantottina di Torre del Lago e a Il turco in Italia del festival di Martina Franca
Il critico d’arte che oggi, da sottosegretario alla Cultura, polemizza sugli spettacoli che «mancano di rispetto» o «tradiscono» gli autori delle opere. Con conseguenze che possono arrivare alla grottesca sceneggiata di Alberto Veronesi, auto-bendatosi a Torre del Lago per non vedere La bohème sessantottina che stava dirigendo e che era stata bocciata dall’esponente del governo. Sul tema, il critico sembra avere iniziato una vera e propria campagna. Pochi giorni dopo il caso toscano, ha attaccato aspramente IlTurco in Italia di Rossini che il 18 luglio ha inaugurato il festival di Martina Franca: uno spettacolo secondo Sgarbi (che parlava prima che fosse andato in scena, evidentemente valutando le foto di scena distribuite ai media) tale da «ridicolizzare» il compositore pesarese, perché la vicenda è ambientata negli Anni 60 in un contesto balneare e con citazioni della commedia all’italiana. Non risulta che ci siano state ulteriori conseguenze, in stile – diciamo – versiliano. Richard Strauss, si sa, era tedesco ed è per questo – forse – che già 12 anni fa poteva essere ridicolizzato o banalizzato o strumentalizzato senza problemi particolari. Nelle sue dichiarazioni incendiarie contro il teatro di regia, infatti, Sgarbi specifica sempre che la sua crociata contro i registi “infedeli” è volta a tutelare i musicisti italiani. Del resto, il discorso riguarda anche i manager: come ha detto, la Scala deve avere un sovrintendente italiano. Quanto alla sua esperienza come regista d’opera, è poco conosciuta ma quantitativamente non insignificante, anche se ovviamente sovrastata dalla sua multiforme attività, legata da un lato agli incarichi politico-amministrativi multipli e sovrapposti e dall’altro all’esercizio della sua vocazione originaria, quella di critico dell’arte dalla cospicua bibliografia, curatore di mostre, dirigente di istituzioni culturali. Senza trascurare la televisione e gli interventi pubblici di ogni ordine e grado, ultimo in ordine di tempo lo speech sessista-maschilista al Maxxi di Roma, causa a sua volta di una bufera mediatica.
La protesta di Alberto Veronesi a Torre del Lago.
Il debutto sgarbiano nel 2002 con Rigoletto e le polemiche per un possibile conflitto di interessi
Il debutto nell’opera risale alla primavera del 2002, quando Sgarbi era sottosegretario alla Cultura nel secondo governo Berlusconi (di lì a poco l’incarico gli sarebbe stato revocato per i continui attacchi all’allora ministro Urbani). Il suo Rigoletto ha avuto una vita rappresentativa discreta, essendo stato ripreso varie volte in teatri di tradizione e rassegne operistiche. Lo spettacolo era caratterizzato da una illustrazione in chiave pittorica con riferimenti a Mantegna e Giulio Romano, i grandi pittori attivi a Mantova fra Quattro e Cinquecento. Quella volta, le polemiche divamparono sul possibile conflitto d’interessi da parte di un esponente del governo attivo in prima persona nel “mercato” dello spettacolo con un allestimento da lui stesso firmato. E non sarebbe mancata l’ironia sulla molto approssimativa conoscenza dell’opera e specialmente del libretto palesata da Sgarbi nella conferenza stampa-spettacolo di presentazione, prima di un’ampia serie. Il collegamento fra opera e pittura ha poi caratterizzato quasi sempre l’attività sgarbiana come regista lirico, oltre a un tradizionalismo piuttosto generico nella drammaturgia, che ha indotto la critica a usare aggettivi come «dignitoso» o «equilibrato» per i suoi spettacoli. Nel suo curriculum si trova la rara L’Arlesiana di Francesco Cilea (da Daudet), presentata a Sassuolo nel 2006, caratterizzata dalle gigantografie di alcuni dipinti del Van Gogh “provenzale” proiettati sullo sfondo; più recentemente, una Vedova allegra di Lehár (Salerno, 2014) con riferimenti alla pittura di Giovanni Boldini e al palazzo Berzieri, sede storica delle Terme di Salsomaggiore, con la sua architettura liberty. A quell’epoca, l’exploit provocatorio della Salome barese era già alle spalle, così come era agli archivi La serva padrona di Pergolesi (parco di Follonica, estate 2008). Nel 2015, sempre a Salerno, sarebbe stata la volta di un Don Giovanni passato alle cronache, una volta di più, per l’incontro pubblico di presentazione, protagonista anche l’allora candidato alla presidenza regionale della Campania, Vincenzo De Luca. Per Sgarbi, riportavano le cronache, Don Giovanni è un personaggio «in tutto e per tutto positivo, spavaldo e solare». E lo paragonava proprio a De Luca. La maggiore trovata visiva dello spettacolo consisteva nella proiezione di alcune immagini del Sacro Bosco di Bomarzo, nel Viterbese, con le sculture “mostruose” a identificare l’ingresso dell’inferno in cui finisce il dissoluto punito. Suggestivo, ma non sufficiente per proseguire l’itinerario mozartiano con Così fan tutte, progetto mozartiano allora annunciato per l’anno seguente, ma a quanto pare rimasto lettera morta.
Vittorio Sgarbi (Imagoeconomica).
Se dopo la campagna contro le regie “mistificatorie” Sgarbi scendesse nuovamente in campo non si stupirebbe nessuno
L’esperienza operistica di Vittorio Sgarbi, ironia della sorte, si è fermata sulla soglia della “Scuola degli amanti”, come recita il sottotitolo di Così fan tutte. Ma non si può escludere che la campagna contro le regie considerate “mistificatorie” preluda a una sua nuova discesa in campo nella lirica. Il fatto di essere esponente del governo non lo fermerebbe, come non lo fermò nel 2002. Semmai, qualcosa ci dice che eviterebbe le provocazioni sull’onda dell’attualità politico-giudiziaria, che avevano caratterizzato la Salome del 2011. Per ora, comunque, il critico ferrarese si accontenta del ruolo di difensore dei compositori italiani. Ma da tuonare contro i registi “dissacratori” a mettersi al loro posto, da qualche parte lungo la Penisola dei mille teatri e dei cento festival, il passo non è poi così lungo. Lo facesse, nell’Italia 2023 non si stupirebbe nessuno.
L’estate da sempre è il periodo per recuperare le valanghe di romanzi che si sono accumulati sui nostri comodini durante l’anno o che giacciono impolverati sugli scaffali della libreria in salotto da troppo tempo. Se non sapete comunque decidervi, per aiutarvi vi proponiamo cinque titoli freschi di libreria, molto diversi tra loro. Si parte con i capolavori di due mostri sacri della letteratura contemporanea publicati da Einaudi nella prestigiosa collana Supercoralli, si prosegue con altri due titoli proposti entrambi dalla casa editrice indipendente 66thand2nd, e si conclude con una chicca edita da Neri Pozza di cui si parla un gran bene.
Il Passeggero, la prima tappa dell’ultimo viaggio di McCarthy
Dopo 16 anni di silenzio è tornato in libreria Cormac McCarthy con Il Passeggero, primo titolo di una dittico che si concluderà con Stella Maris, la cui pubblicazione è prevista il prossimo autunno. Per quelli che non conoscessero McCarthy basta dire che, tra gli altri, è l’autore dell’ultra celebrato Meridiano di sangue, che ha scritto il fortunatissimo Non è un paese per vecchi, da cui i fratelli Coen trassero un formidabile film, e che con l’ultimo suo romanzo, La strada del 2006, aveva ottenuto il premio Pulitzer per la narrativa. Un incrocio tra Faulkner e Melville e considerato a oggi uno dei giganti assoluti della letteratura americana. McCarthy, che a luglio avrebbe compiuto 90 anni, è morto lo scorso giugno nella sua casa di Santa Fe, in New Mexico, e questa cosa ha reso la recente pubblicazione de Il Passeggero un evento ancor più straordinario di quanto già non fosse. Romanzo chiacchieratissimo, si narra che McCarthy ci abbia iniziato a lavorare fin dalla metà degli Anni 80 per raccontare una tortuosa saga familiare. Un romanzo sulla paranoia e sull’ossessione dove il thriller hardboiled si mischia con la filosofia e la fisica quantistica.
Il passeggero di Comarc McCarthy (Einaudi).
Lezioni, l’epica di McEwan
Lezioniè invece l’ultimo epico romanzo di Ian McEwan, che narra la vita di un uomo, tale Roland, un musicista nato alla fine degli Anni 40, che attraverso la sua storia racconta tutta la seconda metà del secolo scorso e prosegue fino ai giorni nostri. Sullo sfondo 70 anni di grandi eventi globali, tra cui la crisi missilistica cubana, Chernobyl, la caduta del muro di Berlino e la pandemia di Covid. Un libro complesso che tratta l’esistenza di un uomo comune (che somiglia molto all’autore stesso), tra cadute e fallimenti, imprigionato in un labirinto di agghiacciante dolore. Ossessionato dalle opportunità perdute, Roland cerca conforto attraverso ogni mezzo possibile: musica, letteratura, amici, sesso, politica e, infine, l’amore. Il suo viaggio solleva domande importanti per tutti noi. Possiamo assumerci la piena responsabilità del corso della nostra vita senza causare danni agli altri? In che modo gli eventi globali al di fuori del nostro controllo modellano le nostre vite e i nostri ricordi? E cosa possiamo davvero imparare dai traumi del passato?
Lezioni di Ian McEwan (Einaudi).
Il laureando di Maurizio Amendola, il peso dell’inganno
Nella prefazione di Branchie, fortunato esordio di Niccolò Ammaniti, l’autore racconta che il romanzo nacque «come un tumore di una tesi in biologia». La sua, mai terminata. Ammanniti aveva infatti finto davanti a tutta la sua famiglia di aver concluso il ciclo di esami universitari e, asserragliato nello studio del padre, di trascorrere i pomeriggi nella scrittura della tesi. In realtà stava scrivendo quello che poi diventerà il suo primo romanzo. Parte dallo stesso concetto il libro di Maurizio Amendola, Il laureando, edito da 66thand2nd (nome che richiama l’incrocio tra la 66esima Strada e la Seconda Avenue, a Manhattan, dove gli editori hanno creato il primo nucleo del progetto editoriale) che racconta la storia di Livio Maiorano, studente calabrese di giurisprudenza iscritto all’università di Pisa che sembra essere in procinto di laurearsi ed essere finalmente pronto a raccogliere l’eredità dello studio notarile di famiglia. Ovviamente non sarà così, perché il giovane di esami ne ha sostenuti solamente un paio. Il libro scorre così, seguendo il tremendo inganno e vivendo contemporaneamente l’angoscia di Livio che si interroga su ciò che accadrà quando la verità sarà venuta a galla. Un romanzo spietato che racconta il disorientamento della gioventù, il peso delle ambizioni familiari e che in qualche modo ricorda L’avversario di Emmanuel Carrère senza però avere la coda tremendamente tragica della storia narrata dal romanziere francese.
Il laureando di Maurizio Amendola (66thand2nd).
Millennial protagonisti in Estate caldissima di Gabriella Dal Lago
Sempre 66thand2nd ha appena pubblicato un libro il cui titolo è tutto un programma: Estate caldissimadi Gabriella Dal Lago. Siamo in una delle estati più calde a memoria d’uomo e un gruppo di giovani creativi di una rampante agenzia di comunicazione si ritrova in una casa di campagna prima delle vacanze per provare a formulare una proposta per un cliente. «Come il Decameron, ma senza la peste». Definito dalla critica “il romanzo millennial”, Estate caldissima è non solo adatto a queste temperature roventi ma è capace di restituire a pieno la precarietà delle vite dei ragazzi di oggi, tra l’incertezza di relazioni e un futuro sempre ignoto.
Estate caldissima di Gabriella Dal Lago (66thand2nd).
In Ultima estate a Roccamare Alberto Riva racconta la pineta delle lettere
Ha sempre l’estate nel titolo l’ultimo consiglio letterario. Si tratta di Ultima estate a Roccamare di Alberto Riva ed edito da Neri Pozza. È la storia di una pineta in Maremma a cui il variegato mondo delle lettere deve parecchio. Luogo elettivo, dell’anima direbbero alcuni, in cui si ritrovavano Italo Calvino e Pietro Citati, Carlo Fruttero e Furio Scarpelli, tanto per citare qualche nome. Luogo magico in cui tra cene, bagni e gite in barca, nel giro di alcuni decenni, sono stati scritti romanzi e film, racconti e articoli che hanno segnato la letteratura e la cultura italiane.
Ultima estate a Roccamare di Alberto Riva (Neri Pozza).
Quando nel 1994 uscì Parklife dei Blur avevo 14 anni ed ero in fissa con Lorenzo 1994 di Jovanotti. I vinili iniziavano ad andare lentamente in disuso a favore dei cd ma ricordo che di quell’album avevo voluto assolutamente il disco che, insieme a una serie di remix di Fargetta e Molella di Nord Sud Ovest Est degli 883, era in riproduzione costante sul piatto dello stereo nel salotto di casa di mia zia in Via dei Transiti. «Andrea! Abbassa il volume!», mi urlava la zia dall’altra stanza mentre io, indiavolato, spingevo Penso positivo con il volume al massimo e ballavo con in testa il mio cappellino degli Yankees portato alla rovescia e con addosso la mia t-shirt dei Bulls con sopra il numero 23.
Era il periodo delle Nike Agassi, delle camicie di flanella alla Kurt Cobain, dei jeans strappati sulle ginocchia e del Deejay Time di Albertino. I dischi all’epoca si andava a comprarli da Wimpy, in viale Monza, e la roba che si sceglieva, anche come estetica, era lontana anni luce da quella rappresentata da un gruppo di fighetti londinesi che vestivano Polo o magliette a righe da indie kids e occhialoni da nerd. Poi gli anni passarono e dopo una sbornia di grunge, mischiato a dosi massicce di hip-hop, arrivò con la svolta mod anche il momento di prendere in considerazione la band di Damon Albarn & co. Band che tra l’altro, oltre a essere presente nella abusatissima colonna sonora di Trainspotting era con Song 2, che andava costantemente in loop con il suo ipnotico “Woo-hoo!”, apriva Fifa 98, il videogioco al quale ci misuravamo ossessivamente alla PlayStation tutti i pomeriggi, rollando spini a raffica. Associo la scoperta dei Blur a un cambio di paradigma che, oltre alle band, comprese anche il look. Nel mio armadio le Fred Perry iniziarono a sostituirsi alle Ralph Lauren, le converse alle Stan Smith, i parka di Woolrich alle giacche da vela di North Sails. La scintilla fu il film Quadrophenia, che un pomeriggio DFA mi portò da vedere in VHS dicendomi: «Fratello, da oggi dobbiamo diventare mods», e mi iniziò a parlare di gruppi di cui conoscevo magari solo il nome o di altre band che non avevo mai sentito nominare, tipo gli Who, gli antesignani Kinks o altri, tipo i Jam di Paul Weller o i Pulp o gli stessi Oasis, due ragazzi di Manchester che, quando non erano troppo occupati a spaccarsi le chitarre in testa a vicenda, suonavano musica della Madonna. I Blur, che degli Oasis all’epoca furono considerati gli acerrimi rivali, si inserirono esattamente in questo contesto. Iniziai ad ascoltarli partendo proprio da Parklife, manifesto mod per eccellenza, in cui nella stessa title track venne assoldato nella parte vocale, una specie di rap, Phil Daniels (l’attore protagonista di Quadrophenia) e proseguii consumando Blur, il primo album senza titolo della loro discografia, uscito nel 1997.
Associo la scoperta dei Blur a un cambio di paradigma che, oltre alle band, comprese anche il look. Nel mio armadio le Fred Perry iniziarono a sostituirsi alle Ralph Lauren, le converse alle Stan Smith, i parka di Woolrich alle giacche da vela di North Sails. La scintilla fu il film Quadrophenia, che un pomeriggio DFA mi portò da vedere in VHS dicendomi: «Fratello, da oggi dobbiamo diventare mods»
Nel 1999 mi ero riempito di piercing, indossavo polo Fred Perry di tutti i colori e, quando avevo l’ardore di presentarmi a scuola, sedevo all’ultimo banco con le cuffiette del walkman nelle orecchie, non mi toglievo mai i miei occhiali da sole da donna ultra-glamour e non rivolgevo quasi mai la parola a nessuno. Oltre all’assunzione continua di droghe, la delinquenza e il vandalismo, ero totalmente in fissa con lo stile mod. Le origini del fenomeno risalgono in realtà alla fine degli Anni 40 quando Miles Davis, iniziando a registrare una serie di singoli pionieristici e sperimentali, diede al jazz una nuova direzione. Quelle nuove sonorità provenienti da Oltreoceano folgorarono letteralmente i teenager inglesi al punto che cominciò un vero e proprio processo di studio e imitazione dello stile Ivy League, sfoggiato dai loro idoli immortalati sulle copertine dei dischi. Da quella passione per il modern jazz nacque così l’etichetta modernist, poi abbreviata più semplicemente in mod. Guardavo Quadrophenia in continuazione e più mettevo su la videocassetta più mi sentivo come Jimmy, il protagonista della storia, che nonostante per tutta la durata del film fosse sempre circondato da amici e ragazze, si trovava in un perpetuo stato di solitudine e di tormento.
Mi illudevo che la soluzione a tutti i miei problemi potesse essere Lucilla, una ragazza con cui avevo preso a uscire da qualche mese e che avevo conosciuto l’estate precedente in Grecia, una mattina all’alba davanti al campeggio dove stavamo. Ma con Lucilla c’era sempre qualche problema, lei era sempre distante e anche quando mi impegnavo a scoparla con veemenza, provando in qualsiasi modo a farla venire, finivamo a guardarci, paonazzi ed esausti, senza nulla da dire. La odiavo ma non potevo farne a meno. Un atteggiamento suicida che con le donne si sarebbe protratto per molto tempo e che nel futuro mi avrebbe procurato solo guai. Lucilla aveva le unghie lunghe sempre laccate di bianco, due occhi verde naviglio assolutamente ipnotici e odiava i ragazzi con i berretti da baseball ma se li metteva quando aveva i capelli in disordine o era troppo sconvolta per lavarseli. Io le parlavo di letture audaci, di anfetamine, di party selvaggi ai quali mi sarebbe piaciuto portarla. Oppure mi vantavo dei soldi della mia famiglia e gonfiavo le cifre perché a volte era l’unico modo per avere la sua attenzione, anche se Lucilla sapeva chi era mio padre perché l’aveva visto al telegiornale. Ricordo però che impazziva per Clint Eastwood dei Gorillaz, un pezzo della nuova band di Damon Albarn, che mi aveva passato da qualche giorno il drugo Fede.
I Blur (dal profilo Fb ufficiale).
L’altra sera un ragazzo al bar mi ha detto: «Dovresti pensare di fare qualcosa con questi TaleS, tipo raccoglierli in un libro, però magari provando a dargli un taglio diverso: abbandonando l’alter ego di te giovane e concentrandoti sul te di adesso». Ci penso da qualche giorno a questa cosa e contemporaneamente penso che non sia casuale che proprio in questi giorni stia leggendo la Vedova incinta di Martin Amis e ascoltando in vinile il nuovo disco dei Blur. Disco tra l’altro che esce domani ma che mi sono precipitato a comperare questa mattina da Serendeepity per poterlo sentire immediatamente e, soprattutto, prima di tutti gli altri. «Aver lavorato a questo disco oggi è stato nettamente meno faticoso rispetto agli Anni 90», ha detto di recente Damon Albarn in un’intervista, «più che altro perché consumiamo meno alcol e meno sostanze». The ballad of Darren, uscito a otto anni di distanza dal precedente The Magic Whip, è un disco grandioso, malinconico, riflessivo, sul tempo che passa e sulla perdita di qualcosa. Un disco da ascoltare nella stessa maniera in cui si legge un libro di Amis, magari stesi sul divano, in mutande, con il volume al massimo e i testi sotto mano. Albarn canta i suoi 50 anni guardando al passato nella stessa maniera nella quale Amis nella Vedova incinta raccontava i suoi, rimembrando un’estate (che sembra un film di Guadagnino prima di Guadagnino) di una compagnia di giovanissimi, trascorsa ai bordi di una piscina di una villa in Toscana, tra droghe, sesso e alcol. «È così che succede. Verso i 45 hai la prima crisi di mortalità (la morte non m’ignorerà); e 10 anni dopo, la prima crisi d’età (il mio corpo mormora che già la morte s’interessa a me)», scrive infatti Amis, in apertura. Protagonista della vicenda è Keith Nearing, 20enne inglese, upper class, fighetto, circondato da una cricca di soggettoni aristofreak e da un gruppo di bellissime ragazze. L’estate come metafora della giovinezza che se ne va senza preavviso, lascia Keith solo con il più temuto dei nemici: se stesso.
«Sono fuori di testa per questi autori, fratello», dico a DFA. «Martin Amis, Ian Mc Ewan, Julian Barnes. Li chiamavano Oxford Gang, una sorta di Brat Pack Letterario, però inglese. Roba da uscire pazzi». Siamo seduti uno di fronte all’altro in un ristorante taiwanese in zona Melchiorre Gioia, una birra cinese davanti a noi e lui è appena atterrato da Barcellona, pronto per partire per la Toscana, o la Sardegna, forse. I discorsi per tutta la durata della cena vertono sul tempo che passa, sui sogni infranti, sui progetti futuri, sulle presunte crisi di mezza età. «Ma smettila con questa crisi di mezza età», risponde lui perentorio, «basta farsi pisciare in bocca da un trans e passa tutto». E poi prosegue: «Io tutta questa crisi sinceramente fratello non la vedo. Okay i turni al bar massacranti, la trasmissione radio chiusa e tutto quello che vuoi. Però, fermati a ragionare un attimo. Stamattina eri in prima pagina sul Messaggero con uno dei tuoi articoli. Sei inseguito da mezza Milano per fare progetti creativi. Un week end si e l’altro pure sei in barca a vela a Portofino o in Costa Azzurra. Tra poco parti e ti fai un mese di Grecia come tutte le estati. Io, e te lo dico sinceramente, non conosco nessuno che fa la vita che fai tu. Nemmeno quelli con i soldi. Per non parlare del tuo armadio. A proposito, rispondi a questa domanda: quante paia di Nike hai?». «Mah, non saprei», rispondo, abbassando lo sguardo sulle mie limited edition da 800 euro. «Hai visto? Se ti avessi detto a 19 anni tutte le cose che hai fatto: radio, giornali, vacanze, casa, storia d’amore paura? Cosa avresti fatto, giovane-vecchio Frateff?», mi domanda, alzando gli occhi al cielo. «Probabilmente detta così avrei firmato col sangue», rispondo, stanco, se non stravolto, e poi aggiungo: «Ma erano altri tempi».
Martin Amis (Getty Images).
«Ho appena guardato nella mia vita/E tutto quello che ho visto è che non tornerai», canta Albarn nella canzone di apertura The Ballad, in un misto tra dolore e rimpianto. Poi è quasi mezzanotte e a casa fissando il vinile che gira sul piatto mi rendo conto che ancora mi riecheggiano nella testa le parole di DFA: «Pensa da dove sei partito». «Abbandona l’alter ego di te giovane e concentrati sul te di adesso», mi ha detto l’altro giorno un ragazzo al bar. Continuo a pensarci, e mi domando: «Ma sarebbe realmente interessante?».
Il mondo della musica classica è in lutto per la scomparsa di Massimiliano Damerini, apprezzato musicista genovese. L’artista aveva 72 anni ed è deceduto nel pomeriggio di giovedì 20 luglio 2023.
Morto a Genova lo stimato pianista Massimiliano Damerini
Come riportato da IlSecoloXIX, il pianista è morto nella sua città, dove per anni aveva lavorato come docente di musica da camera presso il Conservatorio Niccolò Paganini. Proprio qui si era diplomato in pianoforte, diventando uno degli esperti dello strumento più amati a livello italiano e internazionale. Damerini era stato in passato studente di due mostri sacri della musica come Martha del Vecchio (per quanto riguarda il pianoforte) e Sergio Lauricella (per la composizione). Aveva dimostrato un talento precoce per lo strumento, che gli ha permesso di costruirsi un’importante carriera in Italia e in giro per il mondo. Numerose le composizioni che Damerini ha interpretato nel corso della sua carriera, da Mozart a Beethoven, passando per il Romanticismo e il Novecento storico. Proprio di recente, a giugno 2023, aveva portato a termine l’incisione delle 32 sonate di Beethoven.
«La musica contemporanea perde uno dei suoi più grandi interpreti»
Con una nota, il governatore della Regione Ligura Giovanni Toti si è voluto esprimere in questi termini sulla scomparsa del musicista: «Esprimiamo vicinanza ai suoi familiari. La musica contemporanea perde uno dei suoi più grandi interpreti, che ha portato i nomi di Genova e della Liguria alti nel mondo, grazie ai concerti nelle sale e nei teatri più importanti in Italia e all’estero, alle sue collaborazioni con le orchestre più prestigiose e alla partecipazione ai più celebri festival e rassegne musicali internazionali». La camera ardente di Damerini è stata aperta quest’oggi, 21 luglio, dalle 16.30 e fino alle 19, nella hall del Teatro Carlo Felice. Sarà possibile rendere l’ultimo omaggio all’artista fino a domani, sabato 22 luglio, dalle 9 alle 14. I funerali si terranno alle 15 di sabato 22 luglio in via XX Settembre. Successivamente, la salma del musicista sarà trasferita al cimitero di Staglieno, dove sarà cremata.
«Gaudio supremo, paradiso, eden, empireo, turris eburnea, vas spirituale, reggia»: Giacomo Puccini non era uno che lesinava le parole, tanto meno quando parlava di Torre del Lago: quello era il suo luogo del cuore, un borgo selvaggio, semideserto («abitanti 120, 12 case»), ideale per comporre e andare a caccia, immerso in un ambiente naturale affascinante e ispirante. Li amava talmente, quel villaggio e quel padule con i loro “tramonti lussuriosi”, da confessare che gli sarebbe piaciuto molto che una sua opera fosse rappresentata lì all’aperto, sulla riva del lago di Massaciuccoli, a poche decine di metri dalla villa che si era fatto costruire. Fin che è vissuto non è accaduto, ma ben presto, dopo la sua morte, quell’antico desiderio ha trovato realizzazione. La prima Bohème a Torre del Lago risale al 24 agosto 1930, sul podio Pietro Mascagni, gran cerimoniere Giovacchino Forzano, il librettista di Suor Angelica e Gianni Schicchi, ben allineato con il regime fascista e infatti forte di un decisivo appoggio del ministero della Cultura popolare per il suo “Carro di Tespi lirico”, nell’ambito del quale era stato organizzato l’omaggio. Era il primo atto di quello che sarebbe diventato, dopo la Seconda Guerra mondiale, il Festival Puccini, il più antico fra quelli italiani dedicati monograficamente al compositore “di casa”, visto che quello rossiniano a Pesaro ha da poco superato le 40 edizioni e quello verdiano a Parma arriverà quest’autunno alla numero 23. Il più antico (l’anno prossimo – nel centenario della morte del musicista – taglierà il traguardo della 70esima edizione), tuttavia lontano dal prestigio e dalla notorietà dei confratelli.
La statua di Puccini a Torre del Lago (dal profilo Instagram del Festival).
L’invasione di campo di Sgarbi e la sceneggiata di Veronesi contro lo spettacolo di Gayral
Quest’anno, poi, problemi e polemiche sono stati particolarmente virulenti e per molti aspetti grotteschi. Qualcuno potrebbe osservare che tutto serve per attirare l’attenzione, per fare marketing, come suole dirsi. Ma è lecito dubitare che sceneggiate come quella attuata venerdì dal direttore d’orchestra Alberto Veronesi durante la serata inaugurale del festival con La Bohème facciano qualcosa per il botteghino oltre che fare – senza dubbio – notizia. La 58enne bacchetta milanese – una carriera mai arrivata ai livelli della unanimemente riconosciuta eccellenza, con una lunga e spesso discussa presenza proprio a Torre del Lago – ha in pratica accolto un assist preparato qualche giorno prima dal sottosegretario alla Cultura Vittorio Sgarbi. L’esponente del governo – in sede di lancio del festival – aveva infatti sparato ad alzo zero in maniera preventiva sullo spettacolo firmato da Christophe Gayral, regista francese al debutto italiano con un curriculum significativo all’Opéra du Rhin a Strasburgo, mai prima alle prese con Puccini. Sgarbi, con una mossa senza precedenti – una vera e propria invasione di campo della politica – aveva aspramente criticato e preventivamente bocciato lo spettacolo di Gayral, in quanto ambientato a Parigi allo sbocciare del Maggio, tra 1967 e 1968, fra pugni chiusi e manifesti del Che. Secondo il sottosegretario, un’ambientazione inaccettabile, tale da “tradire” Puccini. Gayral aveva rimandato al mittente la contestazione in nome della libertà dell’arte, il responsabile musicale dello spettacolo si è invece schierato con il governo (del resto si era candidato alle ultime Regionali in Lombardia con FdI e prima ancora ci aveva provato col Terzo Polo alle Comunali Lucca). E per farlo, invece di scegliere, e sarebbe stato legittimo, di abbandonare la produzione, a sorpresa si è presentato sul podio e ha diretto con una benda nera sugli occhi, «per non vedere quelle orribili scene». Una vera e propria piazzata che ha irritato il pubblico.
Numerose le contestazioni, pesanti gli insulti. Ventiquattr’ore dopo il festival gli ha dato il benservito. Scomposta e quasi incredibile la replica. Secondo quanto ha pubblicato domenica sera il sito www.luccaindiretta.it. il direttore d’orchestra chiede retoricamente al ministero se sia giusto finanziare «arte strumentalizzata nel nome della propaganda politica» e conclude così: «Il pensiero unico di sinistra, sconfitto dalla storia e dalle elezioni, riemerge in forma coatta sotto forma di una regia lirica».
Vittorio Feltri, Daniela Santanchè e Alberto Veronesi, candidato con FdI alle ultime elezioni regionali in Lombardia (Imagoeconomica).
Il sottosegretario e il direttore hanno deciso di schierarsi con la retroguardia
Con tutta evidenza, né Sgarbi né Veronesi (il che è ancora più grave, trattandosi di un addetto ai lavori) hanno mostrato di riconoscere quello che è successo dal punto di vista rappresentativo negli ultimi decenni non soltanto a proposito della Bohème, ma in generale per quanto riguarda il teatro musicale, che finalmente, grazie alla nuova regia, sta archiviando modi rappresentativi frusti e antiquati, tali da minare, in nome di una ottusa fedeltà ai testi librettistici, la ricezione del melodramma da parte del pubblico contemporaneo. In quella che ormai è una polemica pseudoculturale di retroguardia, insomma, politico e direttore hanno deciso di schierarsi con la retroguardia. Che sempre invoca in casi del genere il presunto “tradimento” di Puccini, o di Verdi, o di qualsiasi autore, dilagando sui social network. Non abbiamo visto lo spettacolo di Gayral. Non sappiamo quindi se è riuscito o meno, ma sappiamo per lunga esperienza che l’esito prescinde dagli aspetti illustrativi della vicenda. Conta l’interpretazione, della quale nei casi migliori ciò che si vede è l’efficace funzione. Per questo, demonizzare un’ambientazione diversa da quella indicata nel libretto, postulando preventivamente che ciò sancisca il fallimento dell’allestimento, dimostra una ristrettezza di vedute desolante. Vedi caso, uno degli spettacoli più ammirati ed esaltati dell’ultimo decennio in Italia è stato La bohème ambientata fra giovani delle periferie degradate ai nostri giorni, firmata nel 2018 dal compianto regista Graham Vick al Comunale di Bologna, allestimento che ha ottenuto il premio Abbiati dell’Associazione nazionale dei critici musicali come migliore spettacolo della stagione. «Una lettura», diceva la motivazione, «nuova e autentica, che ha restituito un tempo contemporaneo e insieme assoluto al teatro della giovinezza di Puccini». Era “tempo contemporaneo” anche quello messo in scena allo Sferisterio di Macerata nel 1984 dal celebre, provocatorio e controverso regista cinematografico Ken Russell, in una delle sue rarissime incursioni nel melodramma. Nella sua Bohème, Mimì – in scena una 24enne Cecilia Gasdia – moriva di overdose, mentre intorno sfilava l’opulenza del consumismo, con decine di modelle in pelliccia. Le polemiche furono violente, sempre basate su un punto di partenza sbagliato, la fedeltà alla lettera e non al senso. Ma allora il teatro di regia muoveva i primi passi, o poco più. Oggi, queste posizioni appaiono drammaticamente inattuali.
Vittorio Sgarbi (Imagoeconomica).
Venezi propone a Lucca l’Inno a Roma, lo stesso che Mussolini impose alle scuole elementari e usato da Almirante nei suoi comizi
E inattuale, ma anche capziosa, appare pure l’altra querelle pucciniana e toscana che aggiunge calore polemico a questa estate già abbastanza calda per conto suo. Ne è protagonista una collega di Alberto Veronesi, molto più giovane di lui, molto più visibile di lui (in virtù della sua attività di testimonial pubblicitaria e più di recente per il ruolo politico di consigliere per la musica del ministro della Cultura), ma come lui finora non protagonista di una carriera ad alto livello, né considerata dalla critica dotata di un talento pari alle iperboli che ne accompagnano le iniziative, iperboli del resto provenienti quasi esclusivamente dai suoi sostenitori politici. Pochi giorni prima della Bohème di Torre del Lago, la 33enne Beatrice Venezi – fresca di un insensato tentativo di veto di carattere politico a Nizza, mentre sarebbe stato significativo, semmai, uno stop artistico – ha diretto a Lucca il concerto inaugurale delle celebrazioni pucciniane, spiazzando e irritando gli organizzatori quando ha proposto, al momento dei bis, l’Inno a Roma. È questa una delle pagine meno felici del compositore. Non lo dice chi scrive, ma lo stesso autore: nella primavera del 1919, quando ci stava lavorando su commissione del sindaco di Roma, Puccini definiva questo lavoro «una bella porcheria» in una lettera alla moglie Elvira, e «disgraziato Inno» in uno scambio epistolare con il musicologo Domenico Alaleona. Se ne potrebbe dedurre che non sarebbe stato granché contento di sentire eseguito questo pezzo nella sua Lucca, ma non è questo il punto: si tratta di una creazione pucciniana e come tale va considerata. Il punto è che quando Venezi dice che è l’Inno a Roma «è un inno patriottico composto nel 1919. Continuare a leggere queste cose sotto un profilo ideologico lo trovo vetusto e superato», dice due cose giuste (la data di composizione, prima dell’avvento del fascismo, e il carattere dello spartito) e una tendenziosamente sbagliata, perché trascura l’evidenza storica. L’Inno fu infatti fatto proprio dal fascismo e inserito per volere di Mussolini nell’innario delle scuole elementari, quindi imposto a tutti i bambini italiani. Nel Dopoguerra il suo ritornello («Sole che sorgi, libero e giocondo…») continuò la sua carriera politica come sigla dei comizi del fondatore e segretario del Msi, Giorgio Almirante. Quindi il problema non è se Puccini era fascista o meno (non lo era), ma è proprio il quasi secolare uso ideologico a senso unico di questa musica minore, sino a farne un simbolo di appartenenza politica. Venezi dice di voler cancellare questa connotazione, ma non può non sapere quanto essa sia tuttora viva e vitale. Dato che l’Inno non è affatto un gioiello nascosto da riportare alla luce, meglio sarebbe lasciarlo ai convegni musicologici o alle rarità editoriali e discografiche. In una serata con 5 mila spettatori, come quella di Lucca, l’effetto è completamente diverso. E difficilmente esclude l’ideologia.
The Bansky Story, nuovo podcast di Bbc Radio 4, potrebbe rivelare un importante e inedito dettaglio sul noto street artist di identità ignota: la sua voce. Presenta infatti una registrazione risalente al marzo 2005 in cui lo stesso artista britannico ha parlato di alcune opere allora esposte al Metropolitan Museum of Art di New York. In appena tre minuti, dopo aver affermato di ritenersi un «pittore e disegnatore», Banksy si è però divertito a lasciare il suo intervistatore nel dubbio. «Siamo certi che tu sia veramente chi dici di essere?», ha chiesto a un certo punto il giornalista. «Oh no, assolutamente non puoi averne alcuna garanzia».
Banksy: «La mia arte è illegale? Non puoi fare una frittata senza rompere qualche uovo»
Nel corso della breve intervista, il presunto Banksy ha spiegato anche le motivazioni che lo spingono a dare vita alle sue opere in vari luoghi del mondo. «Nessuno vuole rimanere bloccato nello stesso posto per tutta la vita», ha affermato lo street artist ricordando di aver disegnato anche sulle pareti del Louvre. «Se aspetti che gli altri si accorgano di quello che fai, potresti attendere tutta la vita». La sua determinazione lo ha spinto anche a mettere da parte ogni paura e sfidare le leggi. «È ciò che rende il mio lavoro molto divertente», ha infatti spiegato Banksy. «Non puoi fare una frittata senza rompere qualche uovo. Ovviamente non voglio essere arrestato, ma proverò ad andare avanti finché potrò». Quasi 20 anni dopo, le sue opere attirano ancora milioni di appassionati, spuntando improvvisamente su edifici di tutto il mondo.
Un’opera di Banksy realizzata nel Regno Unito (Getty Images).
«È la vera voce di Bansky», si chiede alla fine del podcast l’autore del servizio. «Non lo so, ma se dovesse essere realmente lui, è la prima e unica registrazione che abbiamo». Intanto anche nel 2023 lo street artist continua a far parlare di sé. Dopo aver svelato alcune opere dedicate all’Ucraina, a marzo ha presentato al mondo la sua ultima creazione, Morning is broken, soltanto dopo averla demolita. Il murale, realizzato sulla finestra di una fattoria di Herne Bay, nel Kent britannico, raffigurava un adolescente intento a spalancare la tenda di una stanza. Peccato solo che, come testimoniano le foto condivise sui social, l’opera fosse stata già distrutta con l’intera fattoria.
Per gli amanti del genere bio e autobiografico, Lettera43 segnala quattro libri da infilare in valigia in vista delle ferie: dalla discesa all’inferno di Birgit Hamer che ripercorre la battaglia per dare giustizia al fratello Dirk morto dopo essere stato colpito da un proiettile sparato da Vittorio Emanuele di Savoia sull’isola di Cavallo (storia da cui è stata tratta la fortunata serie Netflix diretta da Beatrice Borromeo Casiraghi), alla biografia di Berlusconi scritta da Paolo Guzzanti, fino al testamento letterario di Martin Amis e al racconto fotografico di Paul McCarney che ricostruisce i mesi a cavallo tra il 1963 e il 1964 in cui i Beatles divennero i Fab Four.
Il principe, viaggio all’inferno di Birgit Hamer
Dietro la serie Il principe prodotta da Netflix e girata da Beatrice Borromeo Casiraghi – godibile come uno dei migliori film dei Vanzina in versione aristo-chic se dietro non ci fosse una tragedia – c’è l’omonimo libro scritto da Birgit Hamer, la sorella di Dirk, il turista tedesco morto mesi dopo essere stato colpito da un proiettile esploso da Vittorio Emanuele di Savoia sull’isola di Cavallo nell’agosto 1978.
Edito da poco da Aliberti con una prefazione scritta dalla stessa Borromeo e una postfazione del giornalista del Fatto Quotidiano Gianni Barbacetto, il libro – scevro dai vari “champagnini”, dal solito “italiani di merda” e da frasi come: «Il caso fu riaperto perché un avvocato monarchico sentì dire qualcosa a qualcuno in un bar di Portofino» – è un racconto parecchio dettagliato del viaggio all’inferno di una donna che a un certo punto andò contro tutti, compresa parte della sua stessa famiglia, per ottenere giustizia. La narrazione parte con il racconto di un’estate a Porto Rotondo, prima che il borgo diventasse una roccaforte berlusconiana. In un pomeriggio d’agosto un gruppo di giovani pariolini decise di fare una gita con tre barche nella vicina isola di Cavallo per sfuggire al tedio e alla calura sarda di quei giorni. Seguiranno: una morte lenta che si trasformò in un’agonia, indagini insabbiate, custodie cautelari e scarcerazioni, fino al raggiungimento di un regolare processo a Parigi che si concluderà con la totale assoluzione del «principe sparatore», come Vittorio Emanuele fu definito dalla stampa dell’epoca. Hamer ricostruisce dettagliatamente le responsabilità del Savoia insistendo inoltre sulla clamorosa svolta del caso, avvenuta nel 2006, in seguito ad un’intercettazione ambientale in cui Vittorio Emanuele (rinchiuso in una cella del carcere di Potenza con l’accusa di vari reati da cui verrà prosciolto), si vanterà con i compagni di cella di «aver fregato» i giudici parigini e di essere il colpevole della tragica morte del giovane turista tedesco, mimando addirittura in un video il momento dello sparo. Essendo già stato assolto però Vittorio Emanuele non potè essere perseguito per il delitto. Un libro che è anche indirettamente una sorta di biografia di un uomo, il principe, che nonostante l’esilio, per tutta la vita si è sentito re.
Il Principe di Birgit Hamer (Aliberti).
Silvio, Berlusconi visto da Paolo Guzzanti
Restando su uomini che per tutta la vita “si sentirono re”, sempre Aliberti ha pubblicato quasi in contemporanea al libro di Hamer la biografia di Silvio Berlusconi, scritta dal giornalista Paolo Guzzanti. Uscito a pochi giorni dalla scomparsa del Cav, racconta per filo e per segno cosa abbia rappresentato B per l’Italia: l’uomo dei miracoli per i sostenitori adoranti, il male in persona per tutti altri. Intitolato semplicemente Silvio, il libro di Guzzanti è una riedizione della biografia uscita nel 2009, Guzzanti vs Berlusconi, aggiornata agli eventi del 2023, con l’aggiunta di due lunghe interviste alla madre Rosa e a Berlusconi stesso più il resoconto dettagliato dell’ultimo incontro tra i due avvenuto ad Arcore nel marzo del 2023, quando ormai «l’autunno del Cavaliere aveva assunto i colori più cupi dell’imminente distacco». Un ritratto molto personale e disincantato dell’uomo su cui tutto è stato detto e scritto e su cui Guzzanti aveva affidato – vanamente – il sogno di una rivoluzione liberale. Intorno le donne, il calcio, le barzellette scollacciate, le gaffe, i processi, le costruzioni immobiliari e la tv.
Silvio di Paolo Guzzanti (Aliberti).
La grandezza di Amis in La storia da dentro
Lettura imperdibile è La storia da dentro, l’ultimo romanzo di Martin Amis che si può tranquillamente considerare una specie di testamento letterario dell’autore inglese recentemente scomparso. Raramente il mercato offre libri così straordinariamente grandi, scritti in maniera divina e la cui lettura risulta essere un’esperienza totalizzante. La storia da dentro è tutte queste cose assieme e molto altro. Un romanzo, un’autobiografia, una lunga meditazione sulla scrittura dove Amis ovviamente recita la parte del protagonista in compagnia però di personaggi del calibro di Saul Bellow, Philip Larkin e Christopher Hitchens, cui sono dedicate pagine struggenti. Volume mastodontico (oltre 600 pagine di pura meraviglia) che si congiunge idealmente a Esperienza al quale risulta indissolubilmente legato, La storia da dentro è un monumento all’eccezionalità della figura dello scrittore: un adulto costretto in uno stato di immaturità permanente che si guadagna da vivere vendendo storie del tutto inventate e che inoltre, spesso e volentieri, si trova nella condizione di poter scrivere esattamente qualsiasi cosa gli passi per la testa. Un regalo postumo a tutti quelli che amano la letteratura scritto da un’autentica rockstar che è stata capace di far viaggiare parallelamente letteratura e vita.
La storia da dentro di Martin Amis (Einaudi).
La genesi del fenomeno Beatles alla lente di Paul McCartney
1964. Gli occhi del ciclone, edito da La nave di Teseo, racconta attraverso 275 scatti e riflessioni di Sir Paul McCartney la genesi della leggenda Beatles. Scattate con una macchina 35mm, le foto inedite catturano il periodo tra la fine del 1963 e l’inizio del 1964, lo stesso in cui la band divenne un fenomeno mondiale, cambiando per sempre la storia della musica. McCartney, che all’epoca aveva solo 21 anni, ha scattato la maggior parte di queste foto – inclusi alcuni autoritratti allo specchio – durante i mesi frenetici passati tra Liverpool, Londra, Parigi, New York, Washington DC e Miami. «Si potrebbe pensare», scrive McCartney, «che ci siamo sentiti come animali in gabbia. Posso parlare solo per me stesso, ma non mi sentivo così. Era qualcosa che avevamo sempre desiderato, quindi quando è successo davvero, quando i poliziotti a cavallo hanno trattenuto la folla fuori dal Plaza, mi sono sentito come se fossimo le star al centro di un film molto emozionante. E la cosa buona era che non c’era mai malizia. Le persone che ci correvano dietro volevano solo vederci, volevano solo salutarci, volevano solo toccarci».
1964. Gli occhi del ciclone di Paul McCartney (La nave di Teseo).
«L’arte è per noi inseparabile dalla vita: diventa arte-azione e come tale è sola capace di forza profetica e divinatrice», scriveva nel 1919 in Democrazia futurista, Filippo Tommaso Marinetti. Lo storico dell’arte tedesco Konrad Fiedler andava oltre paragonando l’artista al «pensatore rivoluzionario che si oppone all’opinione dei contemporanei e annuncia una nuova verità». Può dunque l’arte prescindere dalla crisi climatica, una delle vere emergenze che stiamo vivendo? Lettera43 crede di no e per questo vi propone tre opere da visitare che ruotano attorno alla tutela del nostro habitat.
Cataste&Canzei, la poesia della montagna a Mezzano di Primiero
Ai piedi delle Pale di San Martino, a 90 chilometri da Trento, si trova Mezzano di Primiero, borgo che ha scommesso sulla creatività per valorizzare la montagna e le sue tradizioni. Le tipiche cataste di legna sono state trasformate in vere e proprie installazioni: sono ormai una trentina le sculture realizzate con i ciocchi, talvolta colorati, che ripropongono momenti e oggetti legati alla quotidianità contadina, come il telaio, la fisarmonica, i fiori, le pannocchie, la clessidra, le scene evocate dalle canzoni popolari. Le opere sono collocate nei fienili, accanto alle abitazioni, nei prati, lungo i vicoli, nella piazzetta. Al percorso di Cataste&Canzei, termine dialettale che descrive l’insieme di ceppi, si è appena aggiunto Benvedersi Gli autori Renzo Zugliani e Holz Primiero hanno realizzato una sorta di cornice che invita a farsi un selfie, promettendo di “benvedersi” quando la si ritroverà in un posto differente. Tutto rigorosamente in legno (www.mezzanoromantica.it).
Gioca tutto sul confronto fra materiali e colori il percorso Tellurica, allestito alla Gam di Roma con opere site-specific. Se Pino Genovese utilizza legno di recupero, raccolto nel sottobosco o sulle spiagge, Alberto Timossi ricorre a Pvc rosso. I due artisti, che hanno in comune il gusto di creare all’aperto e su ampia scala, hanno progettato un itinerario verso l’interno del museo. All’ingresso è collocata Innesto, in cui si incrociano un elemento vermiglio e un ramo che tendono verso l’alto. Si arriva poi al corridoio delle sculture, con fotografie dal fondo rosso su cui si stagliano delle fronde, e quindi all’installazione del chiostro giardino, pensata per dialogare con l’ambiente cinquecentesco: partendo dalla convivenza fra materiale naturale e sintetico, l’opera lignea tondeggiante, con qualche colata carminio, si pone fra dimensione arcaica e contemporanea. (www.galleriaartemodernaroma.it Fino al 15 ottobre).
Tellurca, alla Gam di Roma (dal sito).
Massi erratici al Parco di Capodimonte, l’arte nel recupero
Mixa memoria e ambiente Massi erratici, il lavoro monumentale esposto dal 12 luglio alle Praterie di Porta Caccetta, al Parco Reale di Capodimonte (Napoli). L’installazione, a cui l’artista partenopea Marisa Albanese stava lavorando nel 2021 prima di morire, è una sorta di totem realizzato con pietre e resti dei bombardamenti subiti dalla città nel 1943, emersi all’interno del Bosco durante i lavori di restauro del giardino storico. Un’opera che è un inno al recupero, e dà nuova vita a elementi di scarto in piena sintonia con la natura e l’ambiente circostante. Fra le pietre, che disposte in orizzontale e in verticale formano una struttura dinamica e slanciata verso l’alto, spiccano due combattenti, una in marmo di Carrara e l’altra in marmo bardiglio (capodimonte.cultura.gov.it).
Arrivati a Portofino da Milano con il treno delle 6 e 10 e con tre ore di sonno alle spalle, ordino un caffè doppio al cameriere del bar Mariuccia in piazzetta senza togliermi gli occhiali da sole e con ancora indosso la felpa rossa con il cappuccio tirato su anche se si muore già di caldo. Mi guardo intorno, tormento la copertina carta da zucchero del piccolo libro di Julien Green pubblicato da Adelphi intitolato Parigi che mi sono portato dietro, accendo l’ennesima Gauloises rossa, la terza, anche se non sono ancora le nove del mattino. La piazzetta è ancora deserta, non ci sono a quest’ora le orde di turisti che tutto il giorno, incessantemente, si riversano nel borgo sputati fuori dalle love-boat, con le bottiglie di plastica di acqua minerale e i panini nello zaino. «Che poi questa cosa non l’ho mai capita. Che cosa ci vengono a fare i turisti qui a Portofino?», chiedo a Ofelia. «Non ci si abbronza, non si nuota, non si fanno tuffi. Non c’è una striscia di sabbia a pagarla oro, un pattino, un ombrellone. Nada». «Esatto», risponde lei caustica, «infatti vedo in giro solo qualche marinaio di qualche equipaggio e un paio di miliardari con l’artrosi scesi da qualche yacht». Tutt’intorno a perdita d’occhio solo una giungla di alberi e di scafi, che tra poco molleranno gli ormeggi diretti verso la Sardegna o altre mete, come accadrà tra poco a noi due, pronti a imbarcarci su una barca a vela presa a nolo e fare rotta verso la Francia. «Pensa che la prossima volta che toneremo qui a Portofino», le dico, «probabilmente avranno ribattezzato Piazza Martiri dell’Olivetta Piazza Silvio Berlusconi. Leggevo l’altro giorno sul Messaggero che sarà il primo Comune a intitolare una via al Cav. Probabilmente sarà una piccola strada che porta al cancello di una villa qui sopra dove stava quando veniva da queste parti. Villa dell’Olivetta, per la precisione. La inaugureranno a settembre, nel giorno del suo compleanno». «Non mancherò per nessun motivo al mondo», risponde lei, ancor più acida, alzandosi dal tavolo e, contemporaneamente, chiedendo il conto al cameriere. «Andiamocene».
«Pensa che la prossima volta che toneremo qui a Portofino probabilmente avranno ribattezzato Piazza Martiri dell’Olivetta Piazza Silvio Berlusconi. Leggevo che sarà il primo Comune a intitolare una via al Cav. La inaugureranno a settembre, nel giorno del suo compleanno»
Avevamo salpato l’ancora alle nove del mattino precise e l’equipaggio, oltre allo skipper e la sua fidanzata che ricopriva il ruolo di hostess, era così composto: io & Ofelia, la mia amica Stella e mia cugina Rebecca più i loro rispettivi fidanzati, Carlo e Leonardo. Per tutta la durata del giorno il mare si era mantenuto calmo e per vaste estensioni la superficie delle acque era trasparente e tiepida. Arrivati a destinazione, dopo quasi nove ore di navigazione filate, intorno alle sei di sera nella baia di Villefranche, erano state stappate diverse bottiglie di vino, soprattutto etichette francesi tipo Chablis e Muscadet, e l’aperitivo andò avanti finché tutte le bottiglie non furono vuote. Quasi tutti gli italiani che arrivano in barca qui in Costa Azzurra da Sanremo, Alassio o dalla stessa Portofino, preferiscono generalmente compiere la prima tappa nel porto di Monaco. Noi come il mese scorso abbiamo deciso invece di fermarci in rada davanti al bellissimo porticciolo di Saint Jean-Cap Ferrat, una piccola penisola rocciosa e immersa nel verde, a pochi chilometri da Montecarlo, in cui la vita scorre lenta, e dove è del tutto normale vedere la gente passeggiare con la baguette sottobraccio o sorseggiare rosè in spiaggia all’ora del tramonto. Leopoldo II del Belgio, che da queste parti possedeva 50 ettari di terreno, la definiva «la proiezione terrestre del Paradiso». Imponenti recinzioni, sistemi d’allarme e guardie del corpo difendono quello che succede all’interno delle ville delle due punte. «Quando venivamo qui da piccoli con i miei, prima che comprassimo la casa in Sardegna», dice mia cugina Rebecca, mentre ci beviamo una birra seduti uno di fronte all’altra al solito Le Cadillac, «ricordo che tutta la vita di giorno si svolgeva in mezzo al mare, sulle barche, perché in alto, nella zona delle ville, praticamente non c’è spiaggia. I condomini per i comuni mortali come noi, invece, stanno tutti qui intorno».
Cap Ferrat.
Mentre parla la osservo, ancora bellissima come è sempre stata, con le gambe nude e una felpa con il cappuccio blu, e mi rendo conto che da tempo non è più la bambina che tenevo sulle ginocchia ma una donna di 35 anni, con tre figli e le idee chiare. Mentre penso a tutte queste cose mi accorgo che due tavoli di fianco a noi è seduto un ragazzo di Milano che conosco: il Duca. È in compagnia di una ragazza, tra di loro, appoggiata in un secchiello del ghiaccio sul tavolo, troneggia una bottiglia di Tattinger. «Andrea Spider!», urla appena mi vede, «cosa ci fai da queste parti?», mi domanda incredulo, e quando mi alzo per andargli incontro e salutarlo sorridiamo entrambi, perché ci rendiamo conto quasi in contemporanea di essere vestiti esattamente nella stessa maniera: t-shirt bianca, bermuda beige, scarpe da barca. «Come diceva lo scrittore inglese William Somerset Maugham, che qui era di casa, cos’è la Costa Azzurra se non un luogo soleggiato per gente losca? Ciao Duca, come te la passi? Lei è mia cugina Rebecca», gli dico. «Ah scusatemi, che maleducato, lei è Valentine», mi risponde lui, alzandosi a sua volta dal tavolo e indicando la ragazza seduta di fronte. «Conosco il Duca dal 1998», dico a mia cugina, «siamo finiti insieme un anno al liceo in una di quelle scuole private per disadattati che facevano recupero anni e poi abbiamo lavorato assieme per parecchio tempo nei locali. Era il periodo delle discoteche minorili, delle one night, delle serate. È grazie a lui che ho cominciato a parlare al microfono dalle consolle di mezza Milano», aggiungo. «Eri già Andrea Spider, una star delle pubbliche relazioni dei pomeriggi milanesi», risponde lui e poi continua, «io ho fatto solo in modo che diventassi una street legend. All’epoca erano in pochi quelli che parlavano al microfono. Poi sei arrivato tu e la cosa di colpo è diventata cool. Da quel momento in poi tutti i ragazzini volevano farlo». Poi ci sediamo al tavolo tutti e quattro assieme, il Duca ordina un’altra bottiglia di Tattinger e il discorso scivola inevitabilmente su Apache e l’Apophis, la discoteca dove è iniziata la brutta storia che per tutta questa settimana ha occupato le prime pagine dei giornali. «Cosa ne pensi?» chiedo al Duca. «Dove vuoi arrivare? Dimmelo subito». «Mah, non voglio arrivare da nessuna parte e nemmeno entrare nei dettagli della vicenda. Però devo dirti che la storia mi ha parecchio incuriosito, a prescindere dal cognome dell’indagato, fondamentalmente per due motivi. Primo, perché il fatto sarebbe avvenuto praticamente davanti a casa mia. Secondo, perché l’Apophis è un locale che non ho mai sentito nominare e la cosa mi ha fatto sentire terribilmente fuori dal giro. Oltre che, ovviamente, tremendamente vecchio». «I tempi cambiano Spiderino, è normale».
L’Apophis è un locale che non ho mai sentito nominare e la cosa mi ha fatto sentire terribilmente fuori dal giro. Oltre che, ovviamente, tremendamente vecchio
Tra l’università e la biblioteca Sormani c’è una piccola stradina che si chiama via Merlo. In fondo, quasi all’angolo con via San Bernardino, sormontato da una verandina blu navy con sopra un serpente stilizzato c’è l’ingresso dell’Apophis, un piccolo club di 180 mq tra i più esclusivi in città. Disegnato da un noto studio di architettura il locale è una bomboniera da 200/300 persone. Solito giro milanese di pierre e deejay che organizzano feste e one night, all’Apophis ci vanno i figli dei politici, dei professionisti, degli industriali. I cognomi in vista della Milano che conta, insomma. Hanno più o meno tutti intorno ai 20 anni, hanno frequentato i migliori licei e le più esclusive scuole ambrosiane, il Parini, il Berchet, il San Carlo, il Leone XXIII e solitamente fanno avanti e indietro da Londra, dove studiano economia o design. Per entrare bisogna essere soci, la tessera annuale costa intorno ai 500 euro e si dice che tra i suoi divani di velluto raso, oltre a fiumi di vodka e caviale Beluga, giri anche parecchia cocaina. Così dicono i giornali, stupendosi quasi della cosa, come fosse strano che nelle discoteche del centro giri della droga e come fosse inconsueto che i rampolli delle famiglie bene milanesi frequentino certi locali. Succedeva anche ai miei tempi con il Madame Claude, con lo Yachting Club, con lo Stage di via Manzoni, con il Propaganda e compagnia bella, anche se a essere totalmente sincero io di droga ne ho vista sempre più a scuola che nei locali. Come all’Oppenheimer ad esempio, dove si basava cocaina nei bagni e dove al cambio dell’ora per 10 mila lire potevi farti una riga lunga quanto la diagonale del diario dell’istituto. E anche in quanto alla violenza, a parte qualche sparuto gruppo di pistoleri figli di avvocati e notai che giocavano a fare i cow-boy, sotto le luci strobo delle discoteche frequentate da certi giri, non ce n’è mai stata granché. Ci si sfogava più che altro sulle cose che sulle persone. Si vandalizzavano le feste, si depredavano gli appartamenti patrizi, si distruggevano salotti e camere da letto dei genitori di qualche malcapitato che aveva avuto l’ardore di festeggiare il compleanno a casa. Null’altro. Di stupri e robaccia simile in tanti anni non ne ho mai sentito parlare. Nemmeno una volta. Non era roba per noi. Mai si sarebbe messa della droga nel bicchiere di una ragazza per portarsela a letto. Se c’era della droga volevamo spararcela tutta noi, qualsiasi essa fosse.
Io in hangover nel 1999.
Il giorno dopo in rada a Cap Ferrat il sole in cielo era una palla di fuoco e il caldo africano rendeva incandescente perfino il ponte in tek della barca. Anche l’acqua del mare era troppo bollente per offrire un vero sollievo: lavava via il sudore ma non riusciva a raffreddare il sangue che scorreva dentro i nostri corpi. Di tanto in tanto qualche piccola onda increspava di verde smeraldo l’orizzonte, riflettendo la luce del sole con malcelata eleganza e rallentando il turbine di pensieri che si avvicendavano per la malata scatola cranica. Le ragazze stavano a prua, stese su teli color turchese e io le osservavo seduto sono il tendalino al centro del pozzetto, mentre scrivevo con l’iPad sulle ginocchia con indosso una t-shirt con sopra la faccia di Notorious BIG e un cappellino da baseball degli Yankees portato con la visiera a rovescio. Hip-hop anche in barca a vela. Sottocoperta sventolava maraglia la bandiera verde smeraldo della Giraglia con al centro il simbolo giallo della Rolex e mancavano meno di quattro ore alla partenza del treno che da Nizza ci avrebbe riportato a Milano. Fu proprio in quel momento che l’iPhone iniziò a vibrare e aprendo whatsapp si materializzò un’immagine di me, 19enne, appena sveglio in pieno hanghover, in mutande e con indosso la t-shirt dello Stage di via Manzoni, davanti alla portafinestra dell’appartamento di mia zia in Piazza Adigrat. A corredo un messaggio del fido Baj, uno degli amici di una vita: «Guarda nei meandri di una vecchia scatola di scarpe cosa ho trovato? Estate 1999. Ciao!». «Andrea Spider», penso, «la street legend». Già, la street legend che non esiste più.
Secondo le informazioni diffuse da Le Monde, un’anfora a fondo nero, datata al V secolo a.C. custodita nella galleria Campana nel museo Louvre a Parigi, è rivendicata dallo Stato italiano insieme ad altri sei reperti archeologici. L’opera è attribuita al pittore di Berlino, artista mai identificato, pilastro della ceramica ellenica, e appartiene alla collezione che fu acquisita da Napoleone III. Dopo un restauro, le sale della galleria erano state riaperte al pubblico all’inizio del mese di luglio.
La rivendicazione dei sette pezzi della collezione
L’acquisto della collezione composta da sette pezzi, da parte del museo, era avvenuto tra il 1982 e il 1998. Già nell’autunno di quest’anno potrebbe esserci un accordo tra Italia e Francia per riportare le opere in patria. Si apprende inoltre dal quotidiano francese che «sono passati circa dieci anni dai primi sospetti su questi pezzi e dall’inizio del dialogo tra i due Paesi».
Le indagini degli archeologi e l’origine incerta delle opere
Secondo le indagini degli archeologi gli oggetti della collezione, tra cui l’anfora del pittore di Berlino e il vaso antico del pittore di Ixion, avevano un’origine incerta, forse saccheggiati illegalmente. La direttrice del Louvre, Laurence des Cars, ha dichiarato a Le Monde che le opere dubbie sono «una macchia sulle collezioni del museo» e promette la massima collaborazione per risolvere la controversia. Sempre secondo la direttrice, «lo studio della provenienza è oggi una questione delicata, dal punto di vista scientifico, simbolico e politico». Una portavoce del Louvre ha rivelato inoltre ad AFP che una lista con altre opere era già stata inviata a febbraio dal ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano. L’elenco non è mai stato reso pubblico.
Una prima edizione di Harry Potter e la pietra filosofale è stata venduta in Gran Bretagna alla cifra di 10.500 sterline, pari a circa 11.700 euro. Il volume è uno dei 500 esemplari in prima tiratura in copertina rigida e l’asta per accaparrarselo è stata serrata. Il primo romanzo della serie scritta da J.K. Rowling è stato pubblicato dalla casa editrice Bloomberg nel 1997. La copia è in ottime condizioni ed era stata acquistata per 25 sterline da un collezionista nel 1998. All’interno anche la firma dell’autrice, che ne ha aumentato il valore. Non si tratta però di un record. Nel 2019 è stato venduto un altro dei 500 volumi della prima tiratura per circa 54 mila euro da una casa d’aste di Londra. L’anno dopo, nel 2020, a Dallas ne è stato acquistato un altro per 98 mila euro.
Una prima edizione di Harry Potter e la pietra filosofale esposta in un museo (Getty).
La famiglia pensava di aver perso il libro
La vendita del libro non è stata affatto semplice. La sorella del collezionista, scomparso a inizio 2023, pensava di aver perso la copia di Harry Potter e la pietra filosofale. La famiglia era consapevole del valore del libro ma sembrava ormai perduto, a causa di un trasloco avvenuto nel 2019 in cui il collezionista ha spostato tutti i libri nello Straffordshire. La donna ha raccontato alla Bbc: «Sapevamo che possedeva quel libro, ma se gli chiedevi di localizzarlo non ne era in grado». A trovarlo è stata la casa d’aste Winterton, che lo ha poi messo in vendita per conto della famiglia stessa. Ad accaparrarselo è stato un acquirente di Los Angeles, la cui identità non è stata svelata.
Le caratteristiche della prima edizione
Diversi i requisiti della prima edizione. Per essere identificato come tale, il libro deve avere la copertina rigida e laminata, con il disegno di Thomas Taylor in cui Harry è davanti al treno per Hogwarts. Poi la casa editrice, Bloomsbury, scritta in fondo alla pagina del titolo e la data del copyright, il 1997. Inoltre, occhio ai numeri della linea di stampa: nella pagina dei diritti d’autore bisogna leggere tutti i numeri da 10 a 1, in ordine decrescente, con l’ultimo a indicare la stessa stampa. E poi c’è anche un errore da rintracciare a pagina 53. Harry riceve da Hogwarts la lista con il materiale da acquistare e nella prima edizione c’è scritto due volte «1 bacchetta». La ripetizione è stata corretta nella seconda stampa, ma poi è riapparsa in altre stampe successive. La saga ha venduto più di 500 milioni di copie ed è stata tradotta in 80 lingue.
Numeri da record per la prima settimana di incassi al Pantheon con ingresso a pagamento. La conferma arriva anche dal ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano: «I numeri relativi alla prima settimana di ingressi a pagamento al Pantheon sono decisamente positivi. Oltre 50 mila i visitatori per un incasso di quasi 200 mila euro». I biglietti per l’ingresso al monumento hanno un costo pari a cinque euro.
Controllo biglietti all’ingresso del Pantheon (foto Imagoeconomica).
Il «sorpasso» dei pagamenti web su quelli fisici
Un altro dato emerso nella settimana è la scelta effettuata dai visitatori per la modalità di acquisto del biglietto di ingresso, per il quale Sangiuliano ha espresso soddisfazione: «È importante il sorpasso degli acquisti su piattaforma rispetto a quelli alla biglietteria fisica, segno di un progressivo affermarsi del neonato sistema di pagamento tramite web. Un dato che mi rende felice riguarda, inoltre, i 4.830 ingressi ridotti, giovani tra i 18 e i 25 anni che hanno scelto di visitare, nell’arco degli ultimi sette giorni, uno dei monumenti antichi meglio conservati al mondo».
Charlie Watts, storico batterista dei Rolling Stones morto a 80 anni il 24 agosto 2021, era anche un appassionato collezionista. Parte del suo ‘tesoro’ andrà all’asta il 28 e 29 settembre da Christie’s, dopo essere stato esposto fra Usa e Regno Unito. Fra i pezzi più pregiati dozzine di rare prime edizioni letterarie, tra cui romanzi di Agatha Christie e Arthur Conan Doyle. «Apprezzava il tempo a casa e leggeva per strada», ha ricordato alla Bbc Paul Sexton, autore della biografia Charlie’s Good Tonight. «Non ha fatto questi acquisti pensando al loro valore, ma solo per passione e per la soddisfazione nel possederli». Oltre ai libri, della collezione fanno parte anche dischi, pezzi di argenteria vintage e cimeli della Guerra civile americana.
Dai libri ai dischi jazz, la collezione privata di Charlie Watts
Fra i pezzi più preziosi della biblioteca privata di Charlie Watts spicca una rara prima edizione de Il grande Gatsby, il cui valore è stimato tra le 200 e le 300 mila sterline (240-350 mila euro circa). All’interno la dedica dell’autore Scott Fitzgerald ad Harold Goldman, sceneggiatore con cui lavorò per Un americano a Oxford nel 1938. All’asta anche una prima edizione de Il mastino di Baskerville di Arthur Conan Doyle. Non mancano rare copie dei romanzi di Agatha Christie e James Joyce, oltre a una bozza primaria di Ritorno a Brideshead di Evelyn Waugh. Si tratta di una versione mai arrivata in commercio, in quanto l’autrice cambiò il finale e i nomi di alcuni protagonisti prima di consegnarlo all’editore.
Charlie Watts al centro di Ronnie Wood e Keith Richards sul palco nel 2019 (Getty Images).
Oltre ai libri, Watts ha collezionato anche numerosi Lp di musica jazz. Iniziò ad acquistarli già prima di arrivare al successo con gli Stones, spendendo tutti i suoi risparmi per i dischi di Johnny Dodds, Charlie Parker e Dizzy Gillespie, solo per citarne alcuni. Uno dei suoi album preferiti però era Walkin’ Shoes del Gerry Mulligham Quartet con Chico Hamilton alla batteria. Cercò più volte di imitarlo suonando lo strumento con alcune spazzole metalliche. «Fu incredibilmente influenzato dal jazz», ha proseguito Sexton. «Non solo dal ritmo, ma anche dal look. Voleva persino le magliette indossate dai cantanti nelle foto di copertina dei dischi». All’asta di Christie’s ci sarà anche la colonna sonora di Porgy and Bess. Firmata e annotata da George Gershwin, potrebbe fruttare fra 10 e 15 mila sterline (circa 11-23 mila euro).
Celebrare il centenario della morte di Giacomo Puccini(Bruxelles, 29 novembre 1924) per i teatri lirici italiani è una sinecura. In linea di massima, non occorreva fare nulla di più del solito. Si parla infatti di un compositore che ha avuto (per restare agli ultimi cinque anni, dati del sito specializzato operabase) quattro titoli fra i 10 più rappresentati, e due sul podio, visto che in questa classifica La bohème è seconda e Tosca terza (la Butterfly figura al settimo posto, Turandot al nono). E infatti, se si dà una scorsa alle stagioni 2023-24 delle Fondazioni lirico-sinfoniche si nota che non si discostano di molto dalla consuetudine: Puccini c’è sempre, più o meno in risalto nei cartelloni per i cast, le direzioni, gli allestimenti. Però, quasi sempre con i soliti titoli, quelli che abbiamo appena citato.
Il Regio di Torino presenta il Puccini meno battuto: da La Rondine alla Fanciulla del West e Le villi
L’eccezione più significativa è data dal Regio di Torino, dove giustamente devono avere preso molto sul serio il ruolo di questo teatro come incubatoio della grande affermazione pucciniana (qui nacquero Manon Lescaut, La bohème e in sostanza il mito pucciniano). Al netto dell’inevitabile opera di Mimì, infatti, in un calendario che gioca in largo anticipo (inaugurazione il 21 settembre con la rara La Juive di Halévy, regia del richiestissimo Stefano Poda, “firma” della controversa Aida areniana di quest’estate) troviamo una buona parte del Puccini che nel repertorio non c’è. Cioè quello della lunga traversata dalla Butterfly a Turandot, un ventennio di riflessioni, elaborazioni, tentativi che più di tutti collocano il musicista lucchese nella modernità novecentesca. E dunque, spazio alla singolare incursione pucciniana nei dominî dell’operetta con La Rondine (dal 17 al 26 novembre), firmata per la regia da Pierre-Emmanuel Rousseau: uno spettacolo, è stato annunciato, ambientato nel 1973, «per rendere omaggio al cinquantenario del nuovo Regio e per evocare il fascino degli anni di Yves Saint-Laurent, Brigitte Bardot, Romy Schneider e Alain Delon». Ma spazio anche all’ancora più rara Fanciulla del West, “nata” al Met di New York nel 1910, anche qui con regia d’autore, quella di Valentina Carrasco (22 marzo – 2 aprile); e perfino alla derelitta opera prima, Le villi, che al Regio non era mai più stata rappresentata dopo il 1884.
La locandina della prima rappresentazione italiana della Rondine.
Solo a Torino in scena il Trittico nella sua struttura originale
Nel calendario torinese (in cui spicca il nome di Riccardo Muti, unica presenza operistica italiana dal 21 febbraio al 3 marzo, sul podio per il verdiano Un ballo in maschera) figura anche il Trittico, composto come si sa dai tre atti unici Il tabarro, Suor Angelica e Gianni Schicchi. Le singole parti sono – ciascuna per conto suo – piuttosto presenti nel repertorio (specialmente l’ultima, unica incursione di Puccini nel comico) in ogni sorta di “accoppiamento” con altri titoli. Tutto insieme, il Trittico è cosa da festival (Salisburgo l’anno scorso, Taormina Arte in questi giorni) e piuttosto raramente da teatro lirico: nella prossima stagione lo si potrà ascoltare e vedere nella struttura originale solo a Torino, con la direzione di Pinchas Steinberg e la regia nuova di Tobias Kratzer (21 giugno – 4 luglio ’24). All’Opera di Roma, procede infatti dalla scorsa stagione un progetto che vede i singoli atti unici separati e accompagnati da altri titoli, e si avrà quindi Gianni Schicchi insieme a L’heure espagnole di Maurice Ravel, “farsa amorosa” in qualche sintonia con la grottesca vicenda dantesca (7-16 febbraio). Singolare poi la scelta del Comunale di Bologna, che inaugurerà la sua stagione con Manon Lescaut (nuovo allestimento di Leo Muscato, sul podio Oksana Lyniv, dal 27 al 31 gennaio) e avendo deciso di proporre anche il Trittico in una nuova produzione di Pier Francesco Maestrini, diretta da Roberto Abbado, lo farà a serate separate, una per ciascun atto unico, dal 3 al 19 luglio ‘24.
Il Teatro Regio di Torino (Getty Images).
Le proposte pucciniane della Scala: la Rondine firmata da Irina Brook e la Turandot di Livermore
Resta da dire delle proposte pucciniane della Scala. Si tratta di due nuove produzioni piuttosto intriganti: una Rondine affidata a Irina Brook (la figlia del grande Peter Brook) che il direttore musicale Riccardo Chailly ha riservato alla sua bacchetta, e una Turandot che sarà firmata da Davide Livermore e vedrà sul podio il prossimo direttore stabile di Santa Cecilia, Daniel Harding (dal 25 giugno al 15 luglio ’24). Protagonisti vocali Anna Netrebko (soprano che non si dà limiti di repertorio) e il tenore consorte Yusif Eyvazov. Verrà eseguito il tradizionale completamento del finale (come si sa, mancante per la morte del compositore) scritto negli Anni 20 da Franco Alfano. Peccato sia stato abbandonato quello realizzato da Luciano Berio a fine Anni 90, che pure Chailly aveva adottato in una precedente produzione scaligera. Come ha chiarito Virgilio Bernardoni nell’ultima monografia dedicata a Puccini, uscita per il Saggiatore a fine maggio, si tratta di «un’operazione ermeneutica che ci illumina sul senso possibile del teatro di Puccini nel nostro tempo». In altre parole, un capolavoro per il capolavoro.
La Scala di Milano (Getty Images).
Al Piermarini tra il Rosenkavalier di Strauss e il Cappello di paglia di Firenze di Rota. Oltre al Don Carlo inaugurale
Fuori dal pianeta Puccini, uno sguardo d’insieme alla prossima stagione dei principali teatri operistici italiani conferma tendenze antiche e recenti in cartelloni decisamente ampi e diversificati. Fra questi teatri, per il momento è giocoforza togliere Firenze, non per una scelta di chi scrive ma perché la devastante crisi arrivata a un passo dalla liquidazione della Fondazione fa sì che non ci sia traccia di programmi oltre la metà di luglio. Nell’assai ricco cartellone della Scala – una forza produttiva (cioè economica) di gran lunga ineguagliabile, con una decina di nuove produzioni – faticherete a trovare musica del Novecento. Lo è, paradossalmente, quella di entrambe le opere di Puccini inserite in stagione, poi si trova lo Strauss del Rosenkavalier (1911), che segnerà peraltro il debutto al Piermarini di Kirill Petrenko, il direttore stabile dei Berliner (12-29 ottobre ’24). E, quasi come un divertissement, il grazioso Cappello di paglia di Firenze che Nino Rotacompose nel 1945 e portò in scena solo un decennio più tardi, dalla deliziosa qualità comunicativa (dal 4 al 18 settembre ’24). Troverete invece molti titoli fondamentali di altre epoche, non necessariamente nel grande repertorio (a partire dal Don Carlo verdiano inaugurale, seconda parte della riflessione sul potere aperta lo scorso 7 dicembre dal Boris Godunov di Musorgskij), con nomi di primo piano sia per il podio che per i cast vocali e gli allestimenti. Ci sarà una nuova regia di Damiano Michieletto per la Medée di Cherubini (14 – 28 gennaio), una di Chiara Muti per il Guillaume Tell rossiniano (20 marzo – 10 aprile), una dello straordinario Robert Carsen per la secentesca Orontea di Antonio Cesti, affidata alla bacchetta specialistica di Giovanni Antonini e al controtenore Carlo Vistoli (26 settembre – 5 ottobre ’24).
A Wagner pensa anche la ‘sua’ Bologna con la direzione di Oksana Lyniv
Ultima tappa della prossima stagione l’avvio di una nuova edizione del Ring wagneriano con la regia di David McVicar e la direzione di uno specialista del calibro di Christian Thielemann (28 ottobre – 10 novembre ’24). A Wagner pensa anche la “sua” Bologna (qui avvennero tante prime italiane delle sue opere), ma deve limitarsi – le risorse non sono le stesse della Scala – alla forma di concerto. Peraltro, con la direzione di Oksana Lyniv, la direttrice ucraina che è stata la prima donna nella storia a salire sul podio a Bayreuth. L’oro del Reno verrà eseguito all’auditorium Manzoni di Bologna il 12 e 13 giugno. Il 17 e 19 ottobre 2024 toccherà a Die Walküre.
La grande tradizione protagonista al San Carlo di Napoli
Eguale dedizione alla storia dell’opera meno vicina a noi si trova nell’ampio cartellone del Teatro di San Carlo a Napoli, che sarà inaugurato il 9 dicembre prossimo da una nuova Turandot firmata dal giovane regista russo Vasily Barkhatov, che fa così il suo debutto italiano. I titoli sono una dozzina, oltre la favola cinese di Puccini solo un paio novecenteschi: Elektra di Strauss (27 settembre – 3 ottobre ’24), e Il castello di Barbablù di Bela Bartók (24 – 30 maggio), che sarà proposto in accoppiata con La voix humaine di Poulenc affidato alla massima interprete odierna di questa partitura, Barbara Hannigan. Per i vociomani, da annotare La gioconda di Ponchielli con la coppia Netrebko-Kaufmann (10 – 17 aprile) e la verdiana Traviata con l’eccellente Lisette Oropesa (14 – 30 luglio ’24). Per il resto, spazio a Mozart, Bellini e Donizetti, con titoli noti e amati, senza trascurare la Carmen di Bizet. La grande tradizione, insomma.
Il San Carlo di Napoli (Getty Images).
La Fenice apre con Contes d’Hoffmann di Offenbach
Il cartellone della Fenice di Venezia, che sarà aperto con una coproduzione internazionale (con Sydney, Londra e Lione) dei Contes d’Hoffmann di Jacques Offenbach firmata dal veneziano Damiano Michieletto e diretta da Antonello Manacorda, con il basso-baritono Alex Esposito fra i protagonisti (24 novembre – 2 dicembre). A seguire il repertorio e le proposte originali anche inedite si equilibrano in un programma in 14 titoli con nove nuovi allestimenti. Si va dal barocco del Tamerlano di Vivaldi affidato allo specialista Diego Fasolis (7 – 15 giugno) al ritorno del Pinocchio, opera per ragazzi scritta da Pierangelo Valtinoni nel 2001 e ampliata nel 2006, già in scena a Venezia nel 2019 (18 – 24 gennaio); si riuniscono Luigi Nono e Arnold Schönberg, nella vita genero e suocero, con La fabbrica illuminata ed Erwartung (13 – 22 settembre 2024), si rende omaggio a una figura cruciale della musica italiana del ‘900 come il veneziano Gian Francesco Malipiero, scomparso nel 1973, proponendone La vita è sogno da Calderón de la Barca (31 ottobre – 9 novembre ‘24); si offre una duplice prospettiva sul neoclassicismo fra Strauss e Respighi, fra Ariadne auf Naxos (regia di Paul Curran, 21 – 30 giugno) e la rarità della stagione costituita da Maria Egiziaca (1932), che il compositore bolognese scrisse nei primi Anni 30 rivisitando a modo suo, non senza intense pagine sinfoniche, lo stile del gregoriano e del Rinascimento. La regia reca la firma di Pier Luigi Pizzi (8 – 16 marzo). In cartellone ci sono naturalmente Puccini, Rossini e Mozart. Manca invece Verdi, e questa è una notizia – non necessariamente negativa – per un teatro al quale l’autore della Traviata fu sempre molto legato, facendovi debuttare cinque opere fondamentali nel suo catalogo.
La Fenice di Venezia (Getty Images).
Attesa per il Mefistofele di Boito all’Opera di Roma e alla prima assoluta de L’ultimo viaggio di Sindbad,
Verdi entra di stretta misura nel calendario dell’Opera di Roma, solo con un Otello in scena dall’1 al 12 giugno per la regia di Allex Aguilera della Fura dels Baus. L’inaugurazione del 27 novembre prossimo è affidata a Mefistofele di Arrigo Boito (presenta anche alla Fenice nel prossimo aprile) con la regia di Simon Stone, 39enne australiano già di casa a Salisburgo e a New York, dove ha fatto scalpore con una Lucia di Lammermoor ambientata in tempi moderni nella cosiddetta Rust Belt, l’area un tempo sede della grande industria pesante americana, da tempo in crisi. Sarà un debutto italiano destinato a fare discutere. La regia d’autore caratterizza peraltro tutto il cartellone del Costanzi, spesso con debutti nel nostro Paese. Si tratta di una stagione caratterizzata da autori importanti con titoli cruciali nella modernità come la Salome di Richard Strauss per la regia del grande Barrie Kosky (7 – 16 marzo), la Jen?fa di Janá?ek con regia di Claus Guth, spettacolo vincitore nel 2022 dell’Olivier Award per la migliore produzione operistica (2 – 9 maggio), il Peter Grimes di Benjamin Britten secondo la premiatissima regista inglese Deborah Warner (11 – 19 ottobre ‘24), che vedrà sul podio il direttore musicale dell’Opera di Roma, Michele Mariotti, al debutto in questo titolo. Segnalato che Britten sarà anche il protagonista dell’inaugurazione di stagione al Carlo Felice di Genova, con l’infrequente e sofisticato A Midsummer Night’s Dream da Shakespeare, affidato alla bacchetta di Donato Renzetti e alla regia di Laurence Dale (13 – 19 ottobre), mette conto segnalare che a Roma andrà in scena anche una prima assoluta. Parliamo de L’ultimo viaggio di Sindbad, da un testo di Erri De Luca, che il Costanzi ha commissionato alla 48enne compositrice Silvia Colasanti, in programma dal 16 al 23 ottobre 2024. Una prima assoluta, ma solo per l’Italia, è invece la rarità in cartellone al Regio di Torino fra aprile e maggio: si tratta di The Tender Land dell’americano Aaron Copland (1954), opera con vista sul profondo Sud degli States durante la Grande Depressione, emblematica di quanto il teatro musicale viva (anche) parlando di quello che ci accade intorno.
Si intitola Edoardo, L’intruso tra gli Agnelli, il libro appena pubblicato da Aliberti, che il giornalista Marco Bernardini ha dedicato al primogenito e unico figlio maschio dell’Avvocato. Edoardo Agnelli è morto suicida all’età di 46 anni. Il suo corpo venne trovato senza vita il 15 novembre 2000, dopo un volo di oltre 80 metri, con indosso una giacca di velluto portata sopra il pigiama, sul greto del torrente Stura, lungo l’autostrada che collega Torino al mare della Liguria. «Se mai ti dovesse capitare racconta qualcosa di me», è scritto in epigrafe.
Edoardo e il rapporto speciale con il cugino ed erede designato Giovannino
Bernardini tiene fede alla parola data, e all’amicizia durata 15 anni con Edoardo Agnelli, tracciando un ritratto impeccabile e particolarmente affettuoso del mancato erede della dinastia che decise di mettere fine alla propria vita «come in un urlo di protesta». Bernardini e Agnelli si conobbero in occasione di un’intervista che il giovane rampollo rilasciò all’allora giornalista di Tuttosport circa i suoi progetti, dalla Juventus (poco tempo prima si era consumata la tragedia dell’Heysel) alla Fiat. «Suo papà si arrabbiò molto, chiese al figlio di dire che avevo travisato le sue parole, lui fu onesto, disse: “Bernardini non ha cambiato una virgola”», ha raccontato Bernardini al Corriere. «Era un uomo coraggioso Edoardo». Inquieto, sensibile, colto, estremamente fragile, Edoardo Agnelli fu sicuramente il più irregolare dell’intera dinastia, un tipo che i suoi compagni di studi in America chiamavano “Crazy Eddie”. Bernardini non tralascia nulla. Dentro ci sono i tormentati rapporti con le donne, tra i quali spicca la storia d’amore con una ragazza di nome Francesca che a un certo punto rimane incinta ma di un figlio non suo. L’anaffettività dei genitori: la madre che preferisce curare i propri giardini e presta maggiore attenzione ai cani husky, il padre che una sera lo fa chiamare, gli dice di prepararsi per andare a vedere assieme la partita allo stadio, e poi non si presenta. Lo stretto rapporto che lo legava al cugino (ed erede designato) Giovanni Alberto detto Giovannino, una specie di John John Kennedy torinese, morto anche lui giovanissimo per un cancro fulminante: «Se oggi fosse vivo Giovannino, lo sarebbe sicuramente anche Edoardo». Una vita trascorsa ai margini, in totale riservatezza, fino all’episodio di Malindi, quando Edoardo venne arrestato in Kenya, trovato con addosso dell’eroina e riportato in fretta e furia a casa da un paio di uomini di fiducia della famiglia tra cui un misterioso personaggio «dall’impeccabile blazer blu». Una storia triste, un romanzo senza lieto fine, quello scritto da Bernardini, che racconta la parabola sofferta di un uomo considerato dalla sua stessa famiglia inadatto, unfit, a guidare l’impero.
La copertina del libro di Bernardini edito da Aliberti.
La nuova vita di Lapo Elkann
Quella di Edoardo Agnelli non è l’unica storia di rampolli infelici e maledetti. Sempre in casa Agnelli, ad esempio, Lapo Elkann, figlio di Margherita (sorella di Edoardo) ed Alain Elkann, è finito spesso al centro delle cronache a causa dei demoni con cui da sempre si è trovato a combattere. «La mia sensibilità e la mia grande forza di volontà mi hanno aiutato. Non ho paura delle mie fragilità», ha dichiarato tempo fa a Vanity Fair. «Ho imparato ad accettare me stesso e a chiedere aiuto. C’è voluto del tempo ma oggi sto bene con chi sono». E sembra che finalmente Lapo sia riuscito a far pace con se stesso. Anche grazie anche alla moglie Joana Lemos, ex pilota di rally, con la quale l’ex enfant terrible si è sposato il giorno del suo 44esimo compleanno.
Lapo Elkann e Joana Lemos sul red carpet di Venezia nel 2022 (Getty Images).
La ‘maledizione’ dei Kennedy
Non tutte le storie di questo tipo però hanno un lieto fine. Basta ricordare i Kennedy. Intorno al nome della celebre dinastia americana sono sorte dicerie, fino a parlare di vera e propria maledizione. I due fratelli John Fitzgerald e Robert morirono assassinati nel 1963 e 1968. l figlio di JFK e di Jacqueline John John morì con la moglie Carolyn Bessette e la cognata Lauren in un incidente aereo nel 1999. Michael Kennedy, il sesto degli 11 figli di Robert ed Ethel, morì nel 1997 a causa di un incidente sulle piste da sci del Colorado. Suo fratello David era morto di overdose nel 1984. E la lista, tra incidenti e morti più o meno accidentali, potrebbe continuare.
John F. Kennedy Jr con la moglie Carolyn (Getty Images).
La tragica fine di John Paul Getty III
Altrettanto tragica fu la fine di John Paul Getty III, nipote dell’allora uomo più ricco del mondo e fondatore della Getty Oil, che morì nel 2011 a 54 anni, triste e solo, nella sua tenuta nel Buckinghamshire. Erede della dinastia di petrolieri americani visse la sua intera vita all’ombra della sua stessa famiglia. Rapito a Roma nell’estate del 1973 nella zona di Piazza Farnese da una cosca della ‘Ndrangheta calabrese venne rilasciato dopo cinque mesi di prigionia con un orecchio mutilato. Alla richiesta del riscatto il nonno rispose: «Ho 14 nipoti e se pago per uno, prima o poi, mi rapiscono anche gli altri». Poi il vecchio pagò la cifra record di 2,9 milioni di dollari, che prestò al figlio chiedendone la restituzione con un tasso d’interesse del 4 per cento. Costretto su una sedia a rotelle dall’età di 24 anni, dopo un micidiale cocktail di oppio, valium e metadone che lo aveva reso anche cieco, Getty jr non uscì mai dal tunnel imboccato dopo il rapimento. La sua storia è raccontata nel film del 2017 Tutti i soldi del mondo, diretto da Ridley Scott e dalla serie Trust, diretta dal regista britannico Danny Boyle.
Blanco tiene il suo primo concerto allo stadio Olimpico di Roma, diventando coi suoi 20 anni l’artista più giovane a aver mai calcato quel palco. A leggere i commenti sui social, a parte quelli entusiasti dei tanti e tante ragazzini e ragazzine accorsi per ascoltare il proprio beniamino, sembrerebbe che i genitori che li accompagnavano, a loro volta tanti, seppur lo stadio fosse lontano dall’essere pieno, non abbiano letteralmente capito una parola di quelle cantate dall’artista bresciano. E non certo per una questione geografica, Blanco, come buona parte dei suoi coetanei e più in generale dei cantanti della nuova generazione, tende a usare uno slang di difficile comprensione, e a mangiarsi buona parte delle sillabe, si pensi a Madame, per dire, ma anche a uno qualsiasi dei trapper.
Blanco all’Olimpico (dal suo profilo Instagram).
Tra Zeta, Alpha e nativi digitali è ormai il caos generazionale
La prima volta che molto probabilmente avete sentito parlare di Generazione X è stata con la pubblicazione del primo romanzo di Douglas Coupland, uscito nel 1991. In realtà il termine esisteva già, ma è in quel preciso momento, con questo libro, che si comincia a parlare di Generazione X per i nati tra il 1965 e il 1980. Generazione precedente alla generazione dei cosiddetti Baby Boomer, i boomer ormai divenuti popolarissimi grazie ai vari meme che costellano i social, nati a cavallo della Seconda Guerra mondiale e che del boom economico erano stati artefici o comunque avevano beneficiato. Le generazioni, così ci avevano spiegato a scuola, si alternavano ogni 25 anni circa, in sostanza il lasso di tempo nel quale una persona divenuta adulta potesse diventare genitore, ma non avevano nomi esotici, a parte forse la Lost Generation che Hemingway ha raccontato in Festa mobile. Come a voler dare un senso al sottotitolo del romanzo di Coupland, “racconti per una cultura accelerata”, da quel momento i tempi tra una generazione e l’altra hanno cominciato ad assottigliarsi, al punto che oggi si parla di generazioni anche a distanza di cinque, sei anni. Dopo la Generazione X, infatti, c’è stata la Y, meglio nota come quella dei Millennials, coloro che in pratica sono diventati maggiorenni intorno al 2000, per poi dare spazio alla Generazione Z, o Centennials, cioè i nati tra la fine dei 90 e gli Anni 10 del nuovo millennio, seguita dalla Generazione Alpha che ha negli attuali 12enni i rappresentanti più ‘anziani’. Metteteci poi i nativi digitali e davvero il quadro d’insieme si fa sempre più confuso, sia per chi di queste categorie fa parte, ma tanto più di chi ne è semplice spettatore. Non dovrebbe del resto sorprenderci che oggi, nell’era di TikTok e dei social, ci sia una categoria di bambini che viene già indicata come una precisa generazione. Non a caso sono loro il target più vezzeggiato dall’industria dell’intrattenimento. Pensate al cinema, tra Pixar, Marvel e Me contro te. E non è un un caso che il video con più views della storia, oltre nove miliardi e mezzo e in continua crescita, sia quella Baby Sharkche un tempo avrebbe potuto ambire al massimo a vedersela con Le tagliatelle di Nonna Pina e Il coccodrillo come fa.
La cosiddetta Generazione Alpha (Getty Images).
I 15 minuti di notorietà di Warhol si sono ristretti a 15 secondi
Nel 1968, quando internet non era ancora stata inventata né predetta dagli scrittori di fantascienza e quando a dirla tutta ancora l’uomo non era neanche andato sulla Luna, sempre in tema di fantascienza, Andy Warhol ebbe a dire la famosa massima su un futuro prossimo nel quale chiunque avrebbe potuto ambire a 15 minuti di notorietà. Ignorava, l’artefice più pop della popart, che quei 15 minuti sarebbero stati decisamente troppi rispetto ai canoni iperaccelerati che TikTok, oltre 50 anni dopo, avrebbe imposto: 15 secondi e via, chi c’è c’è. Tutto a portata di giovanissimi, la Generazione Alpha di cui sopra, al limite la Generazione Z, sempre che non siano già troppo vecchi. Una sorta di strapotere infantile, a discapito dei numeri che vogliono, almeno in Italia, le generazioni più anziane assai più popolate di quelle degli adulti di domani, e anche a discapito di una inesistente capacità economica di chi, evidentemente, non lavora, quindi non guadagna. In questa iperaccelerazione che ha letteralmente reso la realtà evaporata, frammentaria – altro che Bauman – la soglia di attenzione è ridotta sempre più all’osso e la capacità e anche voglia di approfondire sono ai minimi termini. La tendenza è guardare a se stessi e al proprio gruppo/generazione di appartenenza in maniera assolutistica, come se il nostro mondo fosse il mondo e basta, finendo per non riuscire più neanche a concepire un confronto col passato, quindi con chi c’è stato e ancora c’è da più tempo di noi. Si accusano le altre generazioni di non comprendere, in questo sì potremmo ravvisare una trasversalità comune, si addossano a chi è venuto prima le colpe di un presunto disagio presente o futuro, si tende a liquidare ogni critica come una calcificata impossibilità di mettersi nei panni degli altri.
Blanco a Firenze (dal suo profilo Instagram).
La trasformazione della lingua e l’appiattimento sul parlato
Lasciamo momentaneamente da parte le generazioni, e parliamo di linguaggio. Nel Dopoguerra, di pari passo con l’invenzione dei giovani (leggetevi l’omonimo libro di Jon Savage, a proposito, L’invenzione dei giovani, edito da Feltrinelli) come categoria di riferimento del marketing, coi loro desideri e quindi le loro necessità che sarebbero presto diventati prodotti per il mercato, in Italia è iniziata una operazione di diffusione di massa dell’italiano come lingua comune, questo anche grazie alla televisione, ricordiamo il programma del maestro Manzi, Non è mai troppo tardi, andato in onda dal 1060 e il 1968. Fino a quel momento l’italiano era lingua per pochi eletti, della borghesia, e quella delle istituzioni. La gente comune ne parlava una versione geograficamente connotata, dialettale. Con la televisione la lingua si è diffusa e ha attecchito. Questo ha fatto sì che, col tempo, la lingua formale abbia cominciato a cambiare, divenendo sempre più simile a quella parlata. L’influenza della lingua dei media ha reso lo scritto sempre più simile all’orale. Tutti abbiamo iniziato a parlare una lingua nuova, e così quella lingua nuova è finita dentro i libri, dentro le canzoni, ovunque. Chiaramente coi social media questa accelerazione ha avuto un’impennata, lasciando che la lingua dei nostri padri, ottocentesca, finisse per uscire definitivamente di scena. Prendiamo ora la musica. E nello specifico la forma canzone. Mai come oggi le liriche delle canzoni attingono dal parlato, un parlato in un codice slang, come del resto succede un po’ in ogni contesto, almeno in ogni contesto che non sia quello statico dei verbali stradali o delle circolari ministeriali. Un tempo si leggevano libri scritti anche nell’Ottocento e li si leggeva così come erano stati scritti, non certo tradotti in un linguaggio più contemporaneo. Erano comprensibili a tutti. A scuola, nei temi, si usava una lingua piana, che non era certo la medesima che si usava oralmente. Di conseguenza esisteva un linguaggio per ogni situazione. Oggi si tende a spalmare su tutto, e quindi a omologare, una lingua unica, che diventa la medesima che si usa sui social, nei temi in classe, negli articoli come nelle canzoni. Una lingua fortemente orientata verso il parlato, quasi uno slang che, ovviamente, è incomprensibile a chi non fa parte della cerchia che quello slang ha creato. Capita così di ascoltare tracce trap di cui non si comprende una singola parola. E non si parla di Thasup che si è inventato letteralmente una lingua propria, sia chiaro.
Ogni epoca ha la controcultura che si merita. E oggi abbiamo Blanco in mutande Calvin Klein
Cercare di essere compresi da chi non parla la stessa lingua non è evidentemente una necessità di chi adotta questa forma. La quasi totalità dei cantanti trap cercano di comunicare ai coscritti, tagliando fuori tutti gli altri. Forse è solo un modo diverso di ammazzare i padri, quella forma di contestazione che proprio nel 1968, quando Andy Warhol parlava di un futuro anche troppo ottimistico, il maestro Manzi riteneva ormai concluso il suo lavoro di alfabetizzazione della nazione e la rivolta giovanile trovava la sua prima incarnazione nelle barricate parigine. Ogni epoca ha la controcultura che si merita, si potrebbe chiosare. Oggi abbiamo Blanco in mutande Calvin Klein che si mangia le sillabe prendendo a calci le rose (del pane, al momento, nessuna notizia). Prossima tappa a San Siro il 20 luglio, gli adulti portino il traduttore simultaneo.
A Torino questa settimana sono state presentate le due sorelle della 500: quella maggiore, la 600, e quella minore, la Topolino. «Si tratta di due nomi iconici, che rappresentano grande parte della nostra eredità, un’eredità proiettata verso il futuro non solo dell’auto ma della mobilità», ha detto John Elkann all’evento tenutosi al Lingotto. La Seicento fu prodotta intorno alla metà degli Anni 50 per motorizzare l’Italia del miracolo economico, mentre la Topolino fu disegnata addirittura nel 1934 dall’ingegner Dante Giacosa quando Mussolini chiese al senatore Giovanni Agnelli di creare un’automobile economica che non superasse il prezzo di 5.000 lire, sulla falsa riga di quello che accadde negli stessi anni in Germania con Hitler e la Volkswagen Maggiolino. Quando mio padre arrivò in Italia dalla Bulgaria nei primi anni del Dopoguerra ricevette in regalo dalla sua famiglia adottiva proprio una Topolino (che fu successivamente sostituita da una Lancia Flaminia), di cui il vecchio mi parlava sempre. E forse è questo il motivo per cui un paio d’estati fa decisi di portarmi in Grecia da leggere La polvere del mondo, romanzo uscito nel 1963 di Nicolas Bouvier, nel quale lo scrittore e fotografo ginevrino racconta la storia di un viaggio, intrapreso una decina di anni prima, a bordo di una Topolino mezza scassata, in compagnia dell’amico pittore Thierry Vernet. Un reportage straordinario, che si legge come un libro scritto da Kerouac, in cui i racconti dei due giovani tra Belgrado, Istanbul, Tabriz, Teheran, Quetta e Kabul, balzano fuori dalla pagina come accade nei migliori romanzi d’avventura.
La polvere del mondo di Nicolas Bouvier.
Volente o nolente mio padre mi ha sempre condizionato, anche inconsapevolmente, e credo sia per causa sua, tra le altre cose, che mi sono messo a scrivere, amo leggere e sono un maniaco dell’abbigliamento ossessionato dai posti di lusso. Come spesso mi rimprovera qualcuno. Da quando ho memoria per ricordare, la scrittura viene dal dolore, dalla confusione, dallo stress. Avrei mai iniziato a scrivere senza l’influenza di mio padre? No, sicuramente non lo avrei mai fatto. Lo odiavo, questo è certo e anche oggi credo che parte delle mie nevrosi derivino dal rapporto irrisolto che avevo con lui, oltre che da un’autentica ossessione che ho nei confronti di me stesso. Ogni tanto la gente mi chiede: «Ma è vero che una volta ti sei schiantato in Costa Azzurra a bordo di una Ferrari, seduto sul sedile del passeggero ed eri completamente nudo?». A parte che non ho mai scritto niente del genere, non rispondo mai a queste domande. Come allo stesso tempo sorrido quando sento qualcuno che dice: «Ma quello stemma nobiliare sarà vero? E perché se è così ricco fa il cameriere?». Che poi non ho mai scritto da nessuna parte di essere ricco e al massimo per vivere faccio il barman, non il cameriere, e preparo i migliori Martini in città. Ma cosa vuoi sottilizzare, le persone credono sempre quello che vogliono credere. Amen.
Mica è colpa mia se la mia è una favola scritta alla rovescia, senza lieto fine. Parlo semplicemente di quello che conosco. E ciò non riguarda solo il narcisismo di Andrea Frateff-Gianni, il mio lavoro è paragonabile a un’elegia. È una descrizione dell’angoscia inflitta da un padre indifferente, una testimonianza del dolore dell’amore perduto e un resoconto della frustrazione di un ragazzo che ormai è diventato grande e con questa cosa ci deve fare i conti
Piacerebbe anche a me raccontare la favola dell’ascesa sociale, della scalata, come fanno i rapper. La storia del “vengo dalla strada, non ero nessuno e ora ce l’ho fatta”. Mica è colpa mia se la mia è una favola scritta alla rovescia, senza lieto fine. Parlo semplicemente di quello che conosco. E ciò non riguarda solo il narcisismo di Andrea Frateff-Gianni, il mio lavoro è paragonabile a un’elegia. È una descrizione dell’angoscia inflitta da un padre indifferente, una testimonianza del dolore dell’amore perduto e un resoconto della frustrazione di un ragazzo che ormai è diventato grande e con questa cosa ci deve fare i conti. Oltre a essere, soprattutto, un esorcismo continuo, attraverso i racconti della vita di un alter ego estremo, come del resto la letteratura è piena. Perfino Philip Roth, tanto per citare il più bravo di tutti, ha creato versioni fittizie di se stesso in Zuckerman scatenato e ancora, con un personaggio di nome Philip Roth, in Operazione Shylock. Le star dell’hip-hop lo fanno sempre, presentandosi come più grandi di quello che sono e anche in televisione, il gioco della fama fine a se stessa – una specie di quarto d’ora di celebrità di Andy Warhol dilatato però all’infinito – era già da parecchio tempo diventata una pratica comune, ancor prima che tutti iniziassimo a trasformare le nostre vite in reality show attraverso i social network. Tornando a mio padre, quando morì, improvvisamente circa un anno e mezzo fa, lasciò dietro di sé un patrimonio ingarbugliato di debiti e altri problemi che pressappoco non valeva un centesimo. Per molto tempo non ci siamo nemmeno parlati ma gli ultimi anni della sua vita gli sono stato parecchio vicino, come se volessi regalarmi una specie di riconciliazione con lui. In fondo credevo di meritarmela.
«Sei una superstar, ormai», mi aveva detto Giulio l’ultima volta che lo avevo visto, prima che iniziasse a stare male, un pomeriggio incontrato per caso in mezzo alla strada in via Morgagni, «devi essere orgoglioso di te stesso». Una frase che mi è rimasta impressa e che mai mio padre, né nessuno della mia famiglia, forse, ha mai nemmeno pensato
Questi pensieri mi girano per la malata scatola cranica anche adesso, seduto in seconda fila, nella Chiesa del Santissimo Redentore in via Palestrina a Milano, al funerale del padre del drugo Fede. Seduto in sesta fila nella navata sinistra, con a fianco Ale Cash, indosso un abito blu di lino e una camicia oxford button down a righe bianche azzurre. Trovo i funerali una cosa straziante però ammetto che su di me, che per motivi familiari ne ho visti tanti, hanno da sempre esercitato un certo fascino come se gli riconoscessi una sorta di sacralità. Oltre ad avere una funzione terribilmente pratica: in una città in cui le riunioni e gli amici e gli appuntamenti sfuggono continuamente, ed è tutto un rimandare e un perdersi, i funerali sono spesso l’unico luogo per ritrovarsi. Non fa eccezione il funerale dell’avvocato Giulio P., che in vita è stato un grand’uomo, di quelli che in giro non capita di vedere tanto spesso. Nella navata sinistra ci sono i famigliari: di fianco alla moglie Silvana si stringono i figli Fede e Alex con la nipote, la piccola Lea. Intorno un po’ di amici, gente che non vedevo da un secolo, altri che non conosco. La cerimonia è sobria, retta da un giovane don molto smart, che ricorda Giulio in maniera affettuosa e garbata. «Era un grande», dico sottovoce ad Ale Cash, e per qualche istante pare impossibile non commuoversi.
Con il drugo fede a Ios, Grecia 1998 (la foto è di Dario Flores d’Arcais).
Per un lungo periodo da ragazzi con il drugo Fede siamo stati inseparabili, ci chiamavano Boldi & De Sica dal tempo che passavamo assieme. A Milano ai tempi del liceo insieme 24h, ci separavamo solo per dormire. D’estate in giro per l’Europa: ad Amsterdam, in Grecia, a Cadaqués, Barcellona, in Costa Azzurra o a casa dei suoi a Sestri Levante. In inverno da lui a Bologna, mentre frequentava il Dams, o a qualche rave a Zurigo e robe del genere. Ci pensavo casualmente settimana scorsa, ascoltando un podcast di Radio Raheem, Forgotten Tapes, del giornalista e dj Giorgio Valletta, realizzato con vecchie interviste registrate su cassette che risalgono alla fine degli Anni 80 e inizio dei 90, quanto il drugo Fede mi abbia insegnato anche musicalmente. Valletta intervista gente come Aphex Twin, Damon Albarn, Massive Attack, Chemical Brothers, Radiohead. Tutti nomi di gruppi che all’epoca conobbi grazie al drugo Fede, gente che lui e suo fratello Alex ascoltavano in heavy rotation in casa, in macchina, nel walkman, ovunque. Entrambi per me all’epoca rappresentavano un’avanguardia culturale sotto parecchi punti di vista: musica, cinema, letteratura; se mi guardo indietro mi rendo conto che tra i miei amici sono quelli che negli anni mi hanno influenzato maggiormente. E anche la loro famiglia, negli anni della tardo-adolescenza (come già era successo in precedenza con quella di Dodo e di DFA), per un periodo mi aveva in un certo modo quasi adottato. La storia del piccolo orfanello sbandato in fondo ha sempre commosso tutti. Io li guardavo e tra me e me mi dicevo: «Deve essere bello avere una famiglia così unita», e provavo una sensazione quasi di invidia, come quando in quello stesso periodo osservavo Federica, la fidanzata storica del drugo Fede, e mi ripetevo «la vorrei anch’io una donna così», stanco di relazioni tossiche e maleodoranti come quelle che invece capitavano a me, molti anni prima che arrivasse Ofelia. La frase TU SEI SOLO mi si parava continuamente davanti alla faccia.
«Sei una superstar, ormai», mi aveva detto Giulio, l’ultima volta che lo avevo visto, prima che iniziasse a stare male, un pomeriggio incontrato per caso in mezzo alla strada in via Morgagni, «devi essere orgoglioso di te stesso». Una frase che mi è rimasta impressa e che mai mio padre, né nessuno della mia famiglia, forse, ha mai nemmeno pensato. Poi la cerimonia si conclude, il feretro esce dalla chiesa e quando prima di andarmene mi avvicino per abbracciare Silvana, con gli occhi lucidi, lei mi prende le mani e mi dice: «Andrea, sarebbe stato contento di vederti qui. Gli piacevi molto, ti voleva un gran bene». «Anch’io a lui, Silvana. Anch’io a lui».
Sta già diventando virale la gaffe del ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano durante la cerimonia di assegnazione del Premio Strega, il più importante riconoscimento letterario italiano che quest’anno è stato vinto da Come d’aria di Ada d’Adamo, scrittrice morta ad aprile 2023. Durante uno scambio di battute con la conduttrice Geppi Cucciari, ha infatti fatto intendere di non aver letto i libri della cinquina finalista. Nulla di grave se non fosse che, per via del suo incarico, era uno dei giurati deputati a scegliere il vincitore.
La gaffe di Gennaro Sangiuliano alla cerimonia del Premio Strega
Dopo aver elogiato le presentazioni dei testi, Sangiuliano ha affermato: «Proverò a leggerli». Una frase che suggerisce che non abbia ancora ultimato la lettura dei libri nonostante sia stato chiamato a esprimere la propria preferenza – si ricorda che la giuria dello Strega è composta da 660 persone così suddivise: 400 Amici della domenica, 220 tra studiosi, traduttori e intellettuali italiani e stranieri e 20 lettori forti a cui si aggiungono 20 voti collettivi espressi da scuole, università e gruppi di lettura. «Ah, non… non li ha letti?», ha chiesto Geppi al ministro, non nascondendo lo stupore per la sua affermazione. Pronta la risposta di Sangiuliano: «Sì, li ho letti perché ho votato però voglio, come dire, approfondire questi volumi». La conduttrice ha quindi concluso con una battuta prima di smorzare l’imbarazzo chiedendo un applauso:«Cioè oltre la copertina… Dentro. Un bell’applauso al nostro ministro».
Premio Strega. Il ministro della cultura Sangiuliano spiega che leggerà i libri DOPO aver votato come giurato. pic.twitter.com/ma8rMLhW0x
— Selvaggia Lucarelli (@stanzaselvaggia) July 7, 2023
La classifica dei finalisti: al secondo posto Rosella Postorino
La cerimonia di assegnazione del riconoscimento è stata trasmessa in diretta su Rai 3 ed è disponibile in streaming su RaiPlay. Questa la classifica finale, con il punteggio che hanno ottenuto i singoli libri in concorso:
Ada D’Adamo – Come d’aria (Elliot) – 185 voti
Rosella Postorino – Mi limitavo ad amare te (Feltrinelli) – 170
Andrea Canobbio – La traversata notturna (La nave di Teseo) – 75
Maria Grazia Calandrone – Dove non mi hai portata (Einaudi) – 72
Romana Petri – Rubare la notte (Mondadori) – 59
Renzi attacca: «Ho capito perché ha cancellato la 18App»
Tra i primi ad attaccare Sangiuliano, c’è il leader di Italia Viva, Matteo Renzi. Su Twitter scrive: «Ho capito perché il Ministro Sangiuliano ha scelto di cancellare la 18App: lui i libri non li legge. Li scrive, li giudica ma non li legge. Ieri al Premio Strega è accaduta questa scena. Ministro, fatti perdonare: restituisci ai diciottenni la Card per i consumi culturali. Leggere serve!».
Ho capito perché il Ministro Sangiuliano ha scelto di cancellare la #18App: lui i libri non li legge. Li scrive, li giudica ma non li legge. Ieri al Premio Strega è accaduta questa scena. Ministro, fatti perdonare: restituisci ai diciottenni la Card per i consumi culturali.… pic.twitter.com/34VelVA9Hf
Ada d’Adamo è la vincitrice dell’edizione 2023 del premio Strega: il libro autobiografico Come D’Aria (Elliot) ha conquistato la giuria con ben 185 voti. La proclamazione è avvenuta al Ninfeo di Villa Giulia a Roma. L’autrice esordiente è prematuramente scomparsa il primo aprile scorso, all’età di 55 anni, due giorni dopo essere entrata nella dozzina dello Strega.
Premio Strega 2023 (foto Facebook).
Come D’Aria, un libro che «fruga dentro il cuore del lettore»
Il premio e? stato consegnato da Andrea D’Angelo, vicepresidente di Strega Alberti, azienda che fin dalla prima edizione sostiene l’organizzazione del riconoscimento letterario, ad Alfredo Favi, Loretta Santini e Elena Stancanelli, rispettivamente marito, editrice e amica della scrittrice scomparsa lo scorso primo aprile. Il libro premiato, romanzo d’esordio dell’autrice, racconta la storia di due donne: Daria, disabile dalla nascita a causa di malattia cerebrale, e Ada, sua madre, che la assiste. Il testo aveva già conquistato lo Strega Giovani, oltre allo Strega Off, coinvolgendo la giuria di ragazze e ragazzi di 91 scuole secondarie. La stessa Stancanelli ha definito il lavoro letterario Come D’Aria un libro che «fruga dentro il cuore del lettore».
Premio Strega 2023, la cerimonia e i voti
La cerimonia è stata trasmessa in diretta tv e condotta per Raitre da Geppi Cucciari. La classifica totale ha visto ripartiti 561 voti, di cui 185 per d’Adamo; 170 per Mi limitavo ad amare te (Feltrinelli) di RosellaPostorino; 75 ad Andrea Canobbio per La traversata notturna (La nave di Teseo); 72 a Maria Grazia Calandrone per Dove non mi hai portata (Einaudi); 59 a Romana Petri per Rubare la notte (Mondadori).