Archivio
- Novembre 2024 (39)
- Agosto 2024 (1)
- Dicembre 2023 (73)
- Novembre 2023 (1333)
- Ottobre 2023 (1631)
- Settembre 2023 (1468)
- Agosto 2023 (1417)
- Luglio 2023 (1389)
- Giugno 2023 (441)
- Maggio 2020 (30)
- Marzo 2020 (94)
- Febbraio 2020 (1)
- Gennaio 2018 (10)
I Blur, The Ballad of Darren e la mia vecchia passione Mod: il racconto della settimana
Quando nel 1994 uscì Parklife dei Blur avevo 14 anni ed ero in fissa con Lorenzo 1994 di Jovanotti. I vinili iniziavano ad andare lentamente in disuso a favore dei cd ma ricordo che di quell’album avevo voluto assolutamente il disco che, insieme a una serie di remix di Fargetta e Molella di Nord Sud Ovest Est degli 883, era in riproduzione costante sul piatto dello stereo nel salotto di casa di mia zia in Via dei Transiti. «Andrea! Abbassa il volume!», mi urlava la zia dall’altra stanza mentre io, indiavolato, spingevo Penso positivo con il volume al massimo e ballavo con in testa il mio cappellino degli Yankees portato alla rovescia e con addosso la mia t-shirt dei Bulls con sopra il numero 23.
Era il periodo delle Nike Agassi, delle camicie di flanella alla Kurt Cobain, dei jeans strappati sulle ginocchia e del Deejay Time di Albertino. I dischi all’epoca si andava a comprarli da Wimpy, in viale Monza, e la roba che si sceglieva, anche come estetica, era lontana anni luce da quella rappresentata da un gruppo di fighetti londinesi che vestivano Polo o magliette a righe da indie kids e occhialoni da nerd. Poi gli anni passarono e dopo una sbornia di grunge, mischiato a dosi massicce di hip-hop, arrivò con la svolta mod anche il momento di prendere in considerazione la band di Damon Albarn & co. Band che tra l’altro, oltre a essere presente nella abusatissima colonna sonora di Trainspotting era con Song 2, che andava costantemente in loop con il suo ipnotico “Woo-hoo!”, apriva Fifa 98, il videogioco al quale ci misuravamo ossessivamente alla PlayStation tutti i pomeriggi, rollando spini a raffica. Associo la scoperta dei Blur a un cambio di paradigma che, oltre alle band, comprese anche il look. Nel mio armadio le Fred Perry iniziarono a sostituirsi alle Ralph Lauren, le converse alle Stan Smith, i parka di Woolrich alle giacche da vela di North Sails. La scintilla fu il film Quadrophenia, che un pomeriggio DFA mi portò da vedere in VHS dicendomi: «Fratello, da oggi dobbiamo diventare mods», e mi iniziò a parlare di gruppi di cui conoscevo magari solo il nome o di altre band che non avevo mai sentito nominare, tipo gli Who, gli antesignani Kinks o altri, tipo i Jam di Paul Weller o i Pulp o gli stessi Oasis, due ragazzi di Manchester che, quando non erano troppo occupati a spaccarsi le chitarre in testa a vicenda, suonavano musica della Madonna. I Blur, che degli Oasis all’epoca furono considerati gli acerrimi rivali, si inserirono esattamente in questo contesto. Iniziai ad ascoltarli partendo proprio da Parklife, manifesto mod per eccellenza, in cui nella stessa title track venne assoldato nella parte vocale, una specie di rap, Phil Daniels (l’attore protagonista di Quadrophenia) e proseguii consumando Blur, il primo album senza titolo della loro discografia, uscito nel 1997.
Associo la scoperta dei Blur a un cambio di paradigma che, oltre alle band, comprese anche il look. Nel mio armadio le Fred Perry iniziarono a sostituirsi alle Ralph Lauren, le converse alle Stan Smith, i parka di Woolrich alle giacche da vela di North Sails. La scintilla fu il film Quadrophenia, che un pomeriggio DFA mi portò da vedere in VHS dicendomi: «Fratello, da oggi dobbiamo diventare mods»
Nel 1999 mi ero riempito di piercing, indossavo polo Fred Perry di tutti i colori e, quando avevo l’ardore di presentarmi a scuola, sedevo all’ultimo banco con le cuffiette del walkman nelle orecchie, non mi toglievo mai i miei occhiali da sole da donna ultra-glamour e non rivolgevo quasi mai la parola a nessuno. Oltre all’assunzione continua di droghe, la delinquenza e il vandalismo, ero totalmente in fissa con lo stile mod. Le origini del fenomeno risalgono in realtà alla fine degli Anni 40 quando Miles Davis, iniziando a registrare una serie di singoli pionieristici e sperimentali, diede al jazz una nuova direzione. Quelle nuove sonorità provenienti da Oltreoceano folgorarono letteralmente i teenager inglesi al punto che cominciò un vero e proprio processo di studio e imitazione dello stile Ivy League, sfoggiato dai loro idoli immortalati sulle copertine dei dischi. Da quella passione per il modern jazz nacque così l’etichetta modernist, poi abbreviata più semplicemente in mod. Guardavo Quadrophenia in continuazione e più mettevo su la videocassetta più mi sentivo come Jimmy, il protagonista della storia, che nonostante per tutta la durata del film fosse sempre circondato da amici e ragazze, si trovava in un perpetuo stato di solitudine e di tormento.
Mi illudevo che la soluzione a tutti i miei problemi potesse essere Lucilla, una ragazza con cui avevo preso a uscire da qualche mese e che avevo conosciuto l’estate precedente in Grecia, una mattina all’alba davanti al campeggio dove stavamo. Ma con Lucilla c’era sempre qualche problema, lei era sempre distante e anche quando mi impegnavo a scoparla con veemenza, provando in qualsiasi modo a farla venire, finivamo a guardarci, paonazzi ed esausti, senza nulla da dire. La odiavo ma non potevo farne a meno. Un atteggiamento suicida che con le donne si sarebbe protratto per molto tempo e che nel futuro mi avrebbe procurato solo guai. Lucilla aveva le unghie lunghe sempre laccate di bianco, due occhi verde naviglio assolutamente ipnotici e odiava i ragazzi con i berretti da baseball ma se li metteva quando aveva i capelli in disordine o era troppo sconvolta per lavarseli. Io le parlavo di letture audaci, di anfetamine, di party selvaggi ai quali mi sarebbe piaciuto portarla. Oppure mi vantavo dei soldi della mia famiglia e gonfiavo le cifre perché a volte era l’unico modo per avere la sua attenzione, anche se Lucilla sapeva chi era mio padre perché l’aveva visto al telegiornale. Ricordo però che impazziva per Clint Eastwood dei Gorillaz, un pezzo della nuova band di Damon Albarn, che mi aveva passato da qualche giorno il drugo Fede.
L’altra sera un ragazzo al bar mi ha detto: «Dovresti pensare di fare qualcosa con questi TaleS, tipo raccoglierli in un libro, però magari provando a dargli un taglio diverso: abbandonando l’alter ego di te giovane e concentrandoti sul te di adesso». Ci penso da qualche giorno a questa cosa e contemporaneamente penso che non sia casuale che proprio in questi giorni stia leggendo la Vedova incinta di Martin Amis e ascoltando in vinile il nuovo disco dei Blur. Disco tra l’altro che esce domani ma che mi sono precipitato a comperare questa mattina da Serendeepity per poterlo sentire immediatamente e, soprattutto, prima di tutti gli altri. «Aver lavorato a questo disco oggi è stato nettamente meno faticoso rispetto agli Anni 90», ha detto di recente Damon Albarn in un’intervista, «più che altro perché consumiamo meno alcol e meno sostanze». The ballad of Darren, uscito a otto anni di distanza dal precedente The Magic Whip, è un disco grandioso, malinconico, riflessivo, sul tempo che passa e sulla perdita di qualcosa. Un disco da ascoltare nella stessa maniera in cui si legge un libro di Amis, magari stesi sul divano, in mutande, con il volume al massimo e i testi sotto mano. Albarn canta i suoi 50 anni guardando al passato nella stessa maniera nella quale Amis nella Vedova incinta raccontava i suoi, rimembrando un’estate (che sembra un film di Guadagnino prima di Guadagnino) di una compagnia di giovanissimi, trascorsa ai bordi di una piscina di una villa in Toscana, tra droghe, sesso e alcol. «È così che succede. Verso i 45 hai la prima crisi di mortalità (la morte non m’ignorerà); e 10 anni dopo, la prima crisi d’età (il mio corpo mormora che già la morte s’interessa a me)», scrive infatti Amis, in apertura. Protagonista della vicenda è Keith Nearing, 20enne inglese, upper class, fighetto, circondato da una cricca di soggettoni aristofreak e da un gruppo di bellissime ragazze. L’estate come metafora della giovinezza che se ne va senza preavviso, lascia Keith solo con il più temuto dei nemici: se stesso.
«Sono fuori di testa per questi autori, fratello», dico a DFA. «Martin Amis, Ian Mc Ewan, Julian Barnes. Li chiamavano Oxford Gang, una sorta di Brat Pack Letterario, però inglese. Roba da uscire pazzi». Siamo seduti uno di fronte all’altro in un ristorante taiwanese in zona Melchiorre Gioia, una birra cinese davanti a noi e lui è appena atterrato da Barcellona, pronto per partire per la Toscana, o la Sardegna, forse. I discorsi per tutta la durata della cena vertono sul tempo che passa, sui sogni infranti, sui progetti futuri, sulle presunte crisi di mezza età. «Ma smettila con questa crisi di mezza età», risponde lui perentorio, «basta farsi pisciare in bocca da un trans e passa tutto». E poi prosegue: «Io tutta questa crisi sinceramente fratello non la vedo. Okay i turni al bar massacranti, la trasmissione radio chiusa e tutto quello che vuoi. Però, fermati a ragionare un attimo. Stamattina eri in prima pagina sul Messaggero con uno dei tuoi articoli. Sei inseguito da mezza Milano per fare progetti creativi. Un week end si e l’altro pure sei in barca a vela a Portofino o in Costa Azzurra. Tra poco parti e ti fai un mese di Grecia come tutte le estati. Io, e te lo dico sinceramente, non conosco nessuno che fa la vita che fai tu. Nemmeno quelli con i soldi. Per non parlare del tuo armadio. A proposito, rispondi a questa domanda: quante paia di Nike hai?». «Mah, non saprei», rispondo, abbassando lo sguardo sulle mie limited edition da 800 euro. «Hai visto? Se ti avessi detto a 19 anni tutte le cose che hai fatto: radio, giornali, vacanze, casa, storia d’amore paura? Cosa avresti fatto, giovane-vecchio Frateff?», mi domanda, alzando gli occhi al cielo. «Probabilmente detta così avrei firmato col sangue», rispondo, stanco, se non stravolto, e poi aggiungo: «Ma erano altri tempi».
«Ho appena guardato nella mia vita/E tutto quello che ho visto è che non tornerai», canta Albarn nella canzone di apertura The Ballad, in un misto tra dolore e rimpianto. Poi è quasi mezzanotte e a casa fissando il vinile che gira sul piatto mi rendo conto che ancora mi riecheggiano nella testa le parole di DFA: «Pensa da dove sei partito». «Abbandona l’alter ego di te giovane e concentrati sul te di adesso», mi ha detto l’altro giorno un ragazzo al bar. Continuo a pensarci, e mi domando: «Ma sarebbe realmente interessante?».