La nuova Topolino, il rapporto con mio padre e i funerali: il racconto della settimana

A Torino questa settimana sono state presentate le due sorelle della 500: quella maggiore, la 600, e quella minore, la Topolino. «Si tratta di due nomi iconici, che rappresentano grande parte della nostra eredità, un’eredità proiettata verso il futuro non solo dell’auto ma della mobilità», ha detto John Elkann all’evento tenutosi al Lingotto. La Seicento fu prodotta intorno alla metà degli Anni 50 per motorizzare l’Italia del miracolo economico, mentre la Topolino fu disegnata addirittura nel 1934 dall’ingegner Dante Giacosa quando Mussolini chiese al senatore Giovanni Agnelli di creare un’automobile economica che non superasse il prezzo di 5.000 lire, sulla falsa riga di quello che accadde negli stessi anni in Germania con Hitler e la Volkswagen Maggiolino. Quando mio padre arrivò in Italia dalla Bulgaria nei primi anni del Dopoguerra ricevette in regalo dalla sua famiglia adottiva proprio una Topolino (che fu successivamente sostituita da una Lancia Flaminia), di cui il vecchio mi parlava sempre. E forse è questo il motivo per cui un paio d’estati fa decisi di portarmi in Grecia da leggere La polvere del mondo, romanzo uscito nel 1963 di Nicolas Bouvier, nel quale lo scrittore e fotografo ginevrino racconta la storia di un viaggio, intrapreso una decina di anni prima, a bordo di una Topolino mezza scassata, in compagnia dell’amico pittore Thierry Vernet. Un reportage straordinario, che si legge come un libro scritto da Kerouac, in cui i racconti dei due giovani tra Belgrado, Istanbul, Tabriz, Teheran, Quetta e Kabul, balzano fuori dalla pagina come accade nei migliori romanzi d’avventura.

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La polvere del mondo di Nicolas Bouvier.

Volente o nolente mio padre mi ha sempre condizionato, anche inconsapevolmente, e credo sia per causa sua, tra le altre cose, che mi sono messo a scrivere, amo leggere e sono un maniaco dell’abbigliamento ossessionato dai posti di lusso. Come spesso mi rimprovera qualcuno. Da quando ho memoria per ricordare, la scrittura viene dal dolore, dalla confusione, dallo stress. Avrei mai iniziato a scrivere senza l’influenza di mio padre? No, sicuramente non lo avrei mai fatto. Lo odiavo, questo è certo e anche oggi credo che parte delle mie nevrosi derivino dal rapporto irrisolto che avevo con lui, oltre che da un’autentica ossessione che ho nei confronti di me stesso. Ogni tanto la gente mi chiede: «Ma è vero che una volta ti sei schiantato in Costa Azzurra a bordo di una Ferrari, seduto sul sedile del passeggero ed eri completamente nudo?». A parte che non ho mai scritto niente del genere, non rispondo mai a queste domande. Come allo stesso tempo sorrido quando sento qualcuno che dice: «Ma quello stemma nobiliare sarà vero? E perché se è così ricco fa il cameriere?». Che poi non ho mai scritto da nessuna parte di essere ricco e al massimo per vivere faccio il barman, non il cameriere, e preparo i migliori Martini in città. Ma cosa vuoi sottilizzare, le persone credono sempre quello che vogliono credere. Amen.

Mica è colpa mia se la mia è una favola scritta alla rovescia, senza lieto fine. Parlo semplicemente di quello che conosco. E ciò non riguarda solo il narcisismo di Andrea Frateff-Gianni, il mio lavoro è paragonabile a un’elegia. È una descrizione dell’angoscia inflitta da un padre indifferente, una testimonianza del dolore dell’amore perduto e un resoconto della frustrazione di un ragazzo che ormai è diventato grande e con questa cosa ci deve fare i conti

Piacerebbe anche a me raccontare la favola dell’ascesa sociale, della scalata, come fanno i rapper. La storia del “vengo dalla strada, non ero nessuno e ora ce l’ho fatta”. Mica è colpa mia se la mia è una favola scritta alla rovescia, senza lieto fine. Parlo semplicemente di quello che conosco. E ciò non riguarda solo il narcisismo di Andrea Frateff-Gianni, il mio lavoro è paragonabile a un’elegia. È una descrizione dell’angoscia inflitta da un padre indifferente, una testimonianza del dolore dell’amore perduto e un resoconto della frustrazione di un ragazzo che ormai è diventato grande e con questa cosa ci deve fare i conti. Oltre a essere, soprattutto, un esorcismo continuo, attraverso i racconti della vita di un alter ego estremo, come del resto la letteratura è piena. Perfino Philip Roth, tanto per citare il più bravo di tutti, ha creato versioni fittizie di se stesso in Zuckerman scatenato e ancora, con un personaggio di nome Philip Roth, in Operazione Shylock. Le star dell’hip-hop lo fanno sempre, presentandosi come più grandi di quello che sono e anche in televisione, il gioco della fama fine a se stessa – una specie di quarto d’ora di celebrità di Andy Warhol dilatato però all’infinito –  era già da parecchio tempo diventata una pratica comune, ancor prima che tutti iniziassimo a trasformare le nostre vite in reality show attraverso i social network. Tornando a mio padre, quando morì, improvvisamente circa un anno e mezzo fa, lasciò dietro di sé un patrimonio ingarbugliato di debiti e altri problemi che pressappoco non valeva un centesimo. Per molto tempo non ci siamo nemmeno parlati ma gli ultimi anni della sua vita gli sono stato parecchio vicino, come se volessi regalarmi una specie di riconciliazione con lui. In fondo credevo di meritarmela.

«Sei una superstar, ormai», mi aveva detto Giulio l’ultima volta che lo avevo visto, prima che iniziasse a stare male, un pomeriggio incontrato per caso in mezzo alla strada in via Morgagni, «devi essere orgoglioso di te stesso». Una frase che mi è rimasta impressa e che mai mio padre, né nessuno della mia famiglia, forse, ha mai nemmeno pensato

Questi pensieri mi girano per la malata scatola cranica anche adesso, seduto in seconda fila, nella Chiesa del Santissimo Redentore in via Palestrina a Milano, al funerale del padre del drugo Fede. Seduto in sesta fila nella navata sinistra, con a fianco Ale Cash, indosso un abito blu di lino e una camicia oxford button down a righe bianche azzurre. Trovo i funerali una cosa straziante però ammetto che su di me, che per motivi familiari ne ho visti tanti, hanno da sempre esercitato un certo fascino come se gli riconoscessi una sorta di sacralità. Oltre ad avere una funzione terribilmente pratica: in una città in cui le riunioni e gli amici e gli appuntamenti sfuggono continuamente, ed è tutto un rimandare e un perdersi, i funerali sono spesso l’unico luogo per ritrovarsi. Non fa eccezione il funerale dell’avvocato Giulio P., che in vita è stato un grand’uomo, di quelli che in giro non capita di vedere tanto spesso. Nella navata sinistra ci sono i famigliari: di fianco alla moglie Silvana si stringono i figli Fede e Alex con la nipote, la piccola Lea. Intorno un po’ di amici, gente che non vedevo da un secolo, altri che non conosco. La cerimonia è sobria, retta da un giovane don molto smart, che ricorda Giulio in maniera affettuosa e garbata. «Era un grande», dico sottovoce ad Ale Cash, e per qualche istante pare impossibile non commuoversi.

La nuova Topolino, il rapporto con mio padre e i funerali: il racconto della settimana
Con il drugo fede a Ios, Grecia 1998 (la foto è di Dario Flores d’Arcais).

Per un lungo periodo da ragazzi con il drugo Fede siamo stati inseparabili, ci chiamavano Boldi & De Sica dal tempo che passavamo assieme. A Milano ai tempi del liceo insieme 24h, ci separavamo solo per dormire. D’estate in giro per l’Europa: ad Amsterdam, in Grecia, a Cadaqués, Barcellona, in Costa Azzurra o a casa dei suoi a Sestri Levante. In inverno da lui a Bologna, mentre frequentava il Dams, o a qualche rave a Zurigo e robe del genere. Ci pensavo casualmente settimana scorsa, ascoltando un podcast di Radio Raheem, Forgotten Tapes, del giornalista e dj Giorgio Valletta, realizzato con vecchie interviste registrate su cassette che risalgono alla fine degli Anni 80 e inizio dei 90, quanto il drugo Fede mi abbia insegnato anche musicalmente. Valletta intervista gente come Aphex Twin, Damon Albarn, Massive Attack, Chemical Brothers, Radiohead. Tutti nomi di gruppi che all’epoca conobbi grazie al drugo Fede, gente che lui e suo fratello Alex ascoltavano in heavy rotation in casa, in macchina, nel walkman, ovunque. Entrambi per me all’epoca rappresentavano un’avanguardia culturale sotto parecchi punti di vista: musica, cinema, letteratura; se mi guardo indietro mi rendo conto che tra i miei amici sono quelli che negli anni mi hanno influenzato maggiormente. E anche la loro famiglia, negli anni della tardo-adolescenza (come già era successo in precedenza con quella di Dodo e di DFA), per un periodo mi aveva in un certo modo quasi adottato. La storia del piccolo orfanello sbandato in fondo ha sempre commosso tutti. Io li guardavo e tra me e me mi dicevo: «Deve essere bello avere una famiglia così unita», e provavo una sensazione quasi di invidia, come quando in quello stesso periodo osservavo Federica, la fidanzata storica del drugo Fede, e mi ripetevo «la vorrei anch’io una donna così», stanco di relazioni tossiche e maleodoranti come quelle che invece capitavano a me, molti anni prima che arrivasse Ofelia. La frase TU SEI SOLO mi si parava continuamente davanti alla faccia.

«Sei una superstar, ormai», mi aveva detto Giulio, l’ultima volta che lo avevo visto, prima che iniziasse a stare male, un pomeriggio incontrato per caso in mezzo alla strada in via Morgagni, «devi essere orgoglioso di te stesso». Una frase che mi è rimasta impressa e che mai mio padre, né nessuno della mia famiglia, forse, ha mai nemmeno pensato. Poi la cerimonia si conclude, il feretro esce dalla chiesa e quando prima di andarmene mi avvicino per abbracciare Silvana, con gli occhi lucidi, lei mi prende le mani e mi dice: «Andrea, sarebbe stato contento di vederti qui. Gli piacevi molto, ti voleva un gran bene». «Anch’io a lui, Silvana. Anch’io a lui».

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