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Rossini Opera Festival, un appuntamento arenato a cui serve un cambio di passo

L’aspetto più tipico del Rossini Opera Festival appena concluso (era la 44esima edizione) è stato ancora una volta la sua internazionalità. Il Rof, per quanto numericamente piccolo, è un festival davvero planetario, di gran lunga il più “globale” che si organizzi in Italia. Uno spettatore su due viene dall’estero, non solo dai Paesi dell’Unione europea ma anche dagli Stati Uniti, dalla Thailandia, financo dalla Nuova Caledonia e dalla Costa d’Avorio, per non parlare della Corea del Sud, del Brasile, del Giappone. In tutto, le nazionalità presenti sono state 39; fra le più numerose quella russa, nonostante la guerra. In parallelo, resta molto elevata la copertura mediatica – altra caratteristica “storicizzata” del festival pesarese: accreditati 153 giornalisti provenienti da 23 Paesi, ormai nella maggior parte dei casi attivi in testate online più o meno autorevoli.

L’attenzione del pubblico si è un po’ inceppata

Nonostante il Rossini Opera Festival sia certamente internazionale, dal punto di vista dell’attenzione del pubblico appare però sostanzialmente fermo. Il numero di spettatori del 2023 è infatti quasi sovrapponibile a quello del 2022, l’anno della ripresa e della grande crescita dopo le due edizioni realizzate durante l’emergenza Covid. Nel 2022 gli spettatori erano stati 13.100, quest’anno sono stati poche centinaia di più, 13.576, peraltro “spalmati” in una quarantina di manifestazioni anche secondarie e decentrate nel territorio. La struttura portante della rassegna è però sempre la stessa da tempo: tre opere (con due nuove produzioni) più Il viaggio a Reims affidato ai giovani allievi dell’Accademia Rossiniana “Alberto Zedda”, per un totale di 14 rappresentazioni, a cui si aggiungono sette o otto concerti vocali di alto livello. Sono queste manifestazioni che attirano il grosso del pubblico.

Rossini Opera Festival, un appuntamento arenato a cui serve un cambio di passo
Il viaggio a Reims (foto Amati Bacciardi).

Un difficoltoso ritorno alla normalità post Covid

Solo cinque anni fa, nel 2018, il Rof aveva toccato il suo record di presenze, con 18.260 spettatori, ma già l’anno successivo si era registrato un calo di circa il 10 per cento (16.517). Quindi il crollo causato dalla pandemia, con numeri che ovviamente non fanno testo, ma danno l’idea dell’emergenza causata dalla crisi (meno di 6 mila spettatori nel 2020, 8.500 nel 2021). Due anni più tardi, il ritorno alla normalità appare molto meno semplice e meno scontato di quanto si potesse pensare. Il numero di 13.500 spettatori è tra i più bassi degli ultimi 15 anni e prima del 2022 e di quest’anno è stato toccato solo nel triennio 2009-2011, ma poi sempre anche abbondantemente superato.

Incassi scesi a 750 mila euro, la cifra più bassa dal 2007

A questa tendenza problematica, si aggiunge il dato relativo agli incassi, scesi a 750 mila euro dagli oltre 950 mila dello scorso anno. Si tratta della cifra più bassa dal 2007 (i dati si possono trovare nella sezione “Amministrazione trasparente” del sito ufficiale del festival, fra bilanci e relazioni della Corte dei conti). Non è bastato il livello dei prezzi, quest’anno attestato a 200 euro per le prime e 180 euro per le repliche nei posti migliori, per garantire la tenuta: a quasi parità di pubblico pagante (nel 2022, anzi, un po’ meno numeroso), l’anno scorso l’incasso è stato superiore di 200 mila euro. Visitando poco prima del festival o durante il suo svolgimento il sito Vivaticket, gestore della vendita dei biglietti online, si poteva notare che la disponibilità di posti alla Vitrifrigo Arena – sede delle opere – era sempre ampia, talvolta assai ampia.

Rossini Opera Festival, un appuntamento arenato a cui serve un cambio di passo
Adelaide di Borgogna (foto Amati Bacciardi).

Quest’anno il festival non ha mai fatto registrare il tutto esaurito

La differenza negli incassi rispetto all’anno scorso, a parità di spettatori complessivi, si può quindi forse spiegare con il fatto che quest’anno il pubblico, in larga misura, ha scelto di assistere a manifestazioni con biglietti a prezzi assai più bassi di quelli degli spettacoli operistici. In pratica, nelle sue date principali, quest’anno il Rof non ha mai fatto registrare il tutto esaurito. E lo stesso destino è toccato ai concerti, compreso quello prestigioso di chiusura, con la Petite Messe Solennelle diretta da Michele Mariotti.

Grattacapi per il sovrintendente Palacio e il direttore artistico Flórez

Non mancano dunque i motivi di preoccupazione per il sovrintendente Ernesto Palacio e il direttore artistico Juan Diego Flórez, entrambi cantanti rossiniani di vaglia (il primo ritirato da tempo, il secondo ancora in piena attività). I conti sono in ordine (il bilancio 2022 ha chiuso con un utile di oltre 300 mila euro, che torna buono con i chiari di luna degli incassi 2023), ma per recuperare i 5 mila appassionati che non sembrano più disposti a farsi attrarre dalla sirene rossiniane del festival pesarese, e magari per provare ad aumentarli e superare quota 20 mila, ci vorrebbe un cambio di passo che per il momento Palacio (che è stato un paio di anni fa confermato fino al 2026, avendo iniziato il suo mandato nel 2017) non sembra in grado di garantire.

Regia, scelte improntate a una prudenza eccessiva

Il fatto è che il Rof deve trovare una nuova dimensione dopo il quarantennio glorioso che lo ha posto in prima fila nella Rossini Renaissance, grazie alla sinergia vincente fra gli studi musicologici della Fondazione Rossini e una formidabile spinta propulsiva per quanto riguarda gli spettacoli, attuata del creatore del festival, Gianfranco Mariotti, oggi 93enne, che ha passato la mano proprio a Palacio. Quest’estate, con Eduardo e Cristina, è stato completato il periplo di tutte le 39 opere del Pesarese. Ciò è avvenuto peraltro in un’edizione infarcita di sofisticate rarità, tutta improntata al genere serio, che comprendeva anche Aureliano in Palmira e Adelaide di Borgogna. Forse è semplicistico ritenere che una simile offerta non abbia attirato il pubblico più di tanto, ma certo fino a oggi la gestione Palacio (sempre al netto dei due anni pandemici) da un lato non è mai sembrata in grado di trovare l’equilibrio migliore fra generi e valori drammatici, e dall’altro è sembrata fin troppo conservativa per quanto riguarda le scelte nella realizzazione degli spettacoli. Non tanto sul piano vocale (qui si ascoltano spesso, se non sempre, i migliori specialisti rossiniani), quanto per le regie, con proposte fra il conservativo e l’innovativo che appaiono il più delle volte improntate a una prudenza lontana dalla forza innovativa del festival nei suoi anni più fulgidi.

Rossini Opera Festival, un appuntamento arenato a cui serve un cambio di passo
Aureliano in Palmira (foto Amati Bacciardi).

E il 2024 è l’anno di Pesaro capitale italiana della cultura…

Sintomatico, da questo punto di vista, il programma dell’anno prossimo, irrobustito perché il 2024 è l’anno di Pesaro capitale italiana della cultura, evento che dovrebbe garantire una maggiore attenzione da parte di un pubblico più generalista. Le nuove produzioni resteranno due: Bianca e Falliero ed Ermione. Si tratta di opere fondamentali del serio-tragico rossiniano, assenti entrambe al festival da quasi 20 anni. Lo sforzo produttivo (al netto delle voci: e sarà questione cruciale) si coglie anche nelle scelte per i direttori, bacchette di prestigio e valore come quelle di Roberto Abbado e Michele Mariotti. Per la regia, si passerà dal “rassicurante” francese Jean-Louis Grinda (che quest’estate era di scena nel vicino Sferisterio di Macerata) al tedesco Johannes Erath, che si è messo in luce con spettacoli di forte impatto a Graz e a Francoforte. Evidente la politica dei contrappesi, che si rispecchia anche nella parte dedicata al genere comico, fra l’arcinoto Barbiere di Siviglia (con la ripresa di una regia pesarese del 2018 di Pier Luigi Pizzi) e il minore (molto minore) Equivoco stravagante che per non essere fra i capolavori gode al Rof di una singolare fortuna e torna in scena in media ogni cinque anni.

La routine non si addice a Rossini: qualcuno ha dimenticato la lezione?

Non adeguata, si può dirlo fin d’ora, la celebrazione del quarantennale della prima assoluta del Viaggio a Reims, avvenuta nel 1984, con Claudio Abbado sul podio e Luca Ronconi a firmare la regia. Quello era stato uno spettacolo formidabile da tutti i punti di vista, l’evento unico e straordinario capace di lanciare nel mondo l’appena nato Rossini Opera Festival. Quarant’anni dopo, nessuna nuova produzione di quest’opera geniale, ma una prudenziale esecuzione in forma di concerto affidata a Diego Matheuz. La routine non si addice a Rossini: la lezione di 45 anni di Rof è questa, ma a quanto pare chi lo guida oggi ha idee diverse.

È morto Evaristo Fusar, il fotografo dei grandi del cinema

È morto nella notte tra domenica  20 e lunedì 21 agosto, all’età di 89 anni, Evaristo Fusar, tra i protagonisti del fotogiornalismo italiano. Nato a Milano nel 1934, viveva in Lomellina, a Ottobiano. Conseguito il diploma magistrale, Fusar si appassionò di fotografia e iniziò l’attività di fotoreporter nel 1953 all’agenzia Interpix realizzando reportage come freelance da tutta Europa e risiedendo anche a Parigi, Londra e Madrid.

Fusar: fotografo per i più importanti giornali

Alla fine degli anni Cinquanta fu assunto da L’Europeo, dove rimase fino al 1967 come inviato, documentando grandi avvenimenti, in particolare del mondo dello spettacolo e della musica. Fu sul set di Luchino Visconti nel Gattopardo, di Antonioni nel Deserto Rosso e con Fellini, Germi e Monicelli.  Nel 1967 il passaggio alla Domenica del Corriere, l’illustrato del Corriere delle Sera, per cui fotografò i luoghi e avvenimenti da tutto il mondo. Pubblicò immagini di grandi personaggi americani come John Ford, Rita Hayworth, Groucho Marx e Clint Eastwood, superando le cento copertine. Nel 1986 il cambio alla redazione di Capital per tre anni, tornando poi libero professionista.

Nel 1974 venne nominato cavaliere della Repubblica

Nominato cavaliere della Repubblica nel 1974, nel 1978 gli è stata conferita anche la grande Medaglia d’oro di Benemerenza della Città di Milano. Nell’aprile 1964 Fusar aveva esposto alla galleria Gianferrari mentre nel 1978 è stato il primo fotografo italiano al quale la Permanente ha dedicato una personale. Dal 1986 è stato presente in gallerie italiane con una mostra itinerante sulla Francia degli anni Sessanta e nel 1988 espose alla galleria d’Arte Cafiso di Milano i suoi Fusarbolli. Nel dicembre 1994 fu alla galleria Il Diaframma Kodak Cultura con la personale dedicata ai cent’anni del cinema e nel 2006 alla mostra I maestri della Fotografia al Guggenheim di Venezia.

Da Moretti a Huppert, la stagione teatrale 2023-24 in 10 spettacoli

Manca sempre meno al via della stagione teatrale 2023-24 in Italia, ormai alle porte. Attesi da Nord a Sud gli spettacoli di grandi registi e attori italiani e internazionali, pronti a far emozionare, sorridere e riflettere. In cartellone non soltanto debutti, ma anche riletture di opere del passato e del mito classico. Spiccano i nomi di Nanni Moretti e Isabelle Huppert, senza dimenticare Ferzan Ozpetek, Cristina Comencini e Roberto Andò, solo per citarne alcuni. Ecco una guida con i 10 più attesi della stagione, partendo da settembre per arrivare ai primi mesi del 2024.

Isabelle Huppert a Roma e Nanni Moretti a Torino, il meglio della stagione teatrale in Italia

Si parte a Roma con Lo zoo di vetro di Tennesse Williams, che vede la partecipazione della diva del cinema francese Isabelle Huppert. Per la regia di Ivo van Hove, arriverà al Teatro Argentina il 23 e il 24 settembre come tappa del Romaeuropa Festival. «Una sfida e un sogno lavorare con una celebrità come Huppert», ha spiegato il regista in un comunicato. La piéce si concentra su una donna e i suoi due figli, fragili e soli come la collezione di animali di vetro che gelosamente custodiscono. Nanni Moretti aprirà invece la stagione del Teatro Stabile di Torino con il suo debutto alla regia teatrale Diari d’amore di Natalia Ginzburg. In scena dal 9 al 29 ottobre, si compone di due commedie che raccontano con sarcasmo valori e costumi della borghesia tra fedeltà e amicizia.

Sempre a ottobre, si volerà a Napoli per la rilettura di Clitennestra di Roberto Andò che aprirà la stagione al Teatro Mercadante. Adattamento del romanzo La casa dei nomi di Colm Tóibín, porta in scena colei che nel poema omerico dell’Odissea era il prototipo di infedeltà e nell’Orestea di Eschilo un’assassina dedita solo alla vendetta. Nei panni della protagonista salirà sul palcoscenico l’attrice Isabella Ragonese. A Pesaro dal 30 novembre al 3 dicembre e poi in tournée italiana ci sarà poi I ragazzi irresistibili di Neil Simon. Umberto Orsini e Franco Branciaroli saranno due anziani attori di varietà che, dopo un lungo sodalizio, si sono divisi per incomprensioni apparentemente insanabili. Richiamati per un’ultima performance in coppia, daranno vita a tanta comicità e un pizzico di malinconia.

Fezan Ozpetek, Cristina Comencini e Massimo Popolizio, ce n’è per tutti i gusti

Fra i migliori spettacoli della stagione teatrale alle porte è impossibile non citare Il caso Kaufmann di Pietro Maccarinelli con ancora una volta Franco Branciaroli. Adattamento del romanzo di Giovanni Grasso, sarà al Teatro Sociale di Brescia dal 17 al 22 ottobre prima di partire in tournée per tutta Italia. Passando al 2024, a gennaio sarà la volta di Oliva Denaro, spettacolo di Giorgio Gallone con protagonista Ambra Angiolini. La storia si ispira al personaggio di Franca Viola che, dopo essere stata vittima di violenza, per la prima volta in Italia si rifiutò di contrarre un matrimonio riparatore. Il debutto è previsto il 18 gennaio al Teatro Giuditta Pasta di Saronno, in provincia di Varese, prima di andare in tournée fino a metà aprile.

Attesi anche Cristina Comencini, Isabelle Huppert e Roberto Andò. I 10 spettacoli da non perdere nella stagione teatrale 2023-24 in Italia.
Ambra Angiolini, attesa a gennaio 2024 a Saronno (Getty Images).

E ancora, a febbraio sarà a Roma Magnifica presenza di Ferzan Ozpetek, in programma all’Ambra Jovinelli dal 7 al 18 febbraio. Adattamento teatrale dell’omonimo film per il cinema, racconta la storia di un giovane catanese che si trasferisce a Roma sognando di diventare un attore. Strane presenze nella sua abitazione, che però lui solo può vedere, complicheranno la sua carriera. Sempre nella Capitale, ma all’Argentina dal 9 febbraio al 3 marzo, ci sarà L’albergo dei poveri di Maksim Gor’kij nella versione di Massimo Popolizio, un dramma corale sul destino umano. Il Teatro Carignano di Torino ospiterà dal 5 al 24 marzo La ragazza sul divano di Jon Fosse per la regia di Valerio Binasco con Pamela Villoresi e Giovanna Mezzogiorno. La scena si concentrerà su una donna di mezz’età che convive con un costante senso di inadeguatezza. Infine, ad aprile a Roma sarà la volta de I turni di Cristina Comencini, dal 10 al 21 al Parioli.

È morto Francesco Alberoni, il “sociologo dell’amore”

Addio al sociologo Francesco Alberoni, morto all’età di 93 anni a Milano. Da alcuni giorni era ricoverato all’Ospedale Maggiore per una complicazione sopraggiunta durante una terapia alla quale era sottoposto per problemi renali. Nella sua lunga carriera ha indagato i movimenti collettivi e le comunicazioni di massa, i fenomeni migratori e la partecipazione politica, ma soprattutto i processi amorosi.

È morto Francesco Alberoni, il “sociologo dell’amore”. Nel 1979 aveva pubblicato il bestseller Innamoramento e amore, tradotto in 25 lingue.
Francesco Alberoni, scomparso a 93 anni (Imagoeconomica).

Il successo di Innamoramento e amore, uscito nel 1979

Nato in provincia di Piacenza il 31 dicembre del 1929, fin dall’inizio della carriera aveva volto lo sguardo ai fenomeni sociali e di costume, studiando i cambiamenti del Paese.  Nel 1958 aveva pubblicato L’integrazione dell’immigrato nella società industriale e nel 1964, anno in cui diventò docente di sociologia all’università di Milano, Consumi e società. Nel 1979 aveva dato alle stampe il saggio Innamoramento e amore, bestseller da un milione di copie tradotto in 25 lingue, in cui analizzava l’innamoramento come un processo in cui due individui si ribellano ai loro legami precedenti dando origine a una nuova comunità. Tra le sue opere più celebri ci sono poi L’erotismo; L’arte del comando; Sesso e amore; Leader e masse; Lezioni d’amore; L’arte di amare. Il grande amore erotico che dura. Ma anche Movimento e istituzione; L’élite senza potere: ricerca sociologica sul divismo: L’Italia in trasformazione.

È morto Francesco Alberoni, il “sociologo dell’amore”. Nel 1979 aveva pubblicato il bestseller Innamoramento e amore, tradotto in 25 lingue.
Francesco Alberoni e Giorgia Meloni (Imagoeconomica).

Dal 1982 al 2011 ha avuto un rubrica sul Corriere della Sera

Membro del consiglio di amministrazione e consigliere anziano facente veci di presidente della Rai nel 2005, Albertoni è stato anche editorialista del Corriere della Sera, che dal 1982 al 2011 ogni lunedì ha ospitato in prima pagina una sua rubrica intitolata Pubblico e privato. Come accademico, Alberoni è stato – oltre che docente – anche rettore dell’Università di Trento dal 1968 al 1970 e della Iulm dal 1997 al 2001. Nel 2019, si era candidato alle Europee con Fratelli d’Italia: ottenne 5.220 voti e non fu eletto.

Treviso: è morta Valentina Soster, stilista di 0-12 Benetton

È morta domenica 13 agosto Valentina Soster, 62 anni, per trent’anni mente creativa del gruppo Benetton per la linea 0-12.  Titolare di Camelia Bakery, situata nel centro storico della città, aveva scoperto la malattia alcuni anni fa, come riportato da Il Corriere del Veneto, affrontandola un giorno dopo l’altro e raccontandola anche sui social. Per le cure aveva scelto un centro oncologico europeo: «Le persone sono qui per guarire o stare meglio, non perché sono malate. Ed è qui la differenza di approccio ed è qui che la paura ti passa».

Imprenditrice nota in città, Valentina Soster ha lavorato per anni come stilista della linea 0-12 Benetton per poi aprire Camelia Bakery.
Creazioni pasticceria, Valentina Soster (Facebook).

Dalla moda ai libri e alla pasticceria

Dopo la lunga esperienza con il  gruppo Benetton per la linea 0-12, nel 2011, ha fondato la casa editrice Biancopanna. Nello stesso periodo ha pubblicato due libri, Mille stelle per Aurelia e London Mood, fashion book ideato proprio per le bambine dai sei ai dodici anni. Nell’ottobre 2015, la svolta: Valentina Soster apre Camelia Bakery, considerato un piccolo gioiello della pasticceria trevigiana. Dopo il primo negozio specializzato in cupcake, è nato a seguire il secondo punto all’interno del negozio Coin, in corso del Popolo. Numerosi i messaggi di cordoglio sui social, che la ricordano come una donna solare, vivace e amante della sua città.

Milano, un murale sui Navigli: l’omaggio a Michela Murgia

«Ci manchi». Un pensiero condiviso sui social e un pensiero dedicato sui Navigli, a Milano: l’artista Cristina Donati Mayer ha postato su Facebook la foto del murale realizzato come omaggio alla scrittrice Michela Murgia, scomparsa il 10 agosto a soli 51 anni. Nell’opera si legge la frase: «A Michela Murgia. Vogliamo piacerci, non compiacervi» dipinta assieme all’immagine della scrittrice che indossa un vestito colorato con un lungo strascico e un turbante verde.

L'opera, comparsa sui Navigli a Milano, è un omaggio alla scrittrice Michela Murgia, scomparsa il 10 agosto a 51 anni.
Uscita feretro, funerali Michela Murgia (Imagoeconomica).

Il murale visibile sull’alzaia Naviglio Grande

Realizzato sull’alzaia Naviglio Grande, il murale dall’artista Cristina Donati Mayer, ha sin da subito attirato l’attenzione dei passanti. L’ARTivista, come si definisce lei stessa, con le sue opere denuncia da tempo problemi sociali, trattando temi forti come l’immigrazione, il razzismo, l’ambiente, la violenza sulle donne. Tra le sue performance più famose La morte della sposa del 2013, in cui è rimasta appesa in abito da sposa a Porta Romana per rappresentare le vittime di femminicidio. Nel 2018, sempre a Milano, aveva realizzato il murale che ritrae Roberto Saviano con la frase: «Sogno di un ministro in una notte di mezza estate».

Jennifer Lopez regina di Capri, live show per i fan. Il video

Jennifer Lopez è tornata: la diva latino-americana con un debole per Capri è stata protagonista indiscussa della celebre taverna Anema e Core, nella notte tra venerdì 11 e sabato 12 agosto. In mini dress con paillettes argentato e tamburello personalizzato alla mano, JLo, dopo una prima parte della serata trascorsa ad ascoltare il medley di canzoni napoletane intonato da Gianluigi Lembo e l’Anema con Core Band, ha improvvisato un vero e proprio live show.

JLo ha chiesto un microfono per cantare I Will survive  

Sulle note di I Will survive, Lopez ha chiesto un microfono e ha dato il via ad una performance canora tra i fan in visibilio che la invitavano a non smettere di cantare. E così, subito dopo il noto brano di Gloria Gaynor, Jlo ha proseguito con un immancabile Let’s Get Loud, uno dei suoi più grandi successi che aveva regalato al pubblico già durante l’ultima visita alla Taverna caprese.

L’eredità di Michela Murgia e la natura degli intellettuali non allineati

Non esistono intellettuali allineati. Quelli sono cantori, porta idee, intelligenze organiche alle dipendenze di un potere interessato a salvarsi dalla superficialità dei suoi ideali. Gli intellettuali non possono essere simpatici, utilizzano l’irriverenza come motore e osano nella terra che i benpensanti chiamano comunicazione. Gli intellettuali non piacciono. Se piacciono non servono, sono muti. La partenza di Michela Murgia, che molti brigano per contenere nel cassetto degli scrittori, è la testimonianza di un’intellettuale a cui bastano le parole, anche se la scelta di impiegare il proprio mestiere per entrare nel dibattito è sconveniente di questi tempi. Letteralmente, non conviene. Il consiglio è sempre lo stesso: smussati, calmati, lascia perdere, non intervenire. Pensa a scrivere libri, dicono, e non si accorgono di ripetere le stesse parole di chi ti combatte.

Il non piacere a tutti come colpa, banalizzazione dei benpensanti

Qualcuno mi diceva che «scegliere di dividere il Paese non è un buon ufficio», riferendosi a Michela. Il non piacere a tutti come colpa, banalizzazione dei benpensanti che hanno l’immobilità come più alta aspirazione. Ancora questa cretina convinzione che non possano esistere persone libere che prendono posizione per senso di giustizia (verso gli altri e verso se stessi), che tutto debba essere un’incessante valutazione dell’impatto sul pubblico, inteso come ammasso di clienti.

L'eredità di Michela Murgia e la natura degli intellettuali non allineati
Michela Murgia (Imagoeconomica).

Il mondo sui temi che contano è diviso e divisivo, da sempre

Michela Murgia è partita ripetendo che la libertà sta nel non sottostare alla voglia di compiacere. Dice di essere stata utile anche a chi la detesta perché con lei ha avuto l’occasione di autodefinirsi. Non c’è logoramento nelle voci che in queste ore usano il lutto come una clava per esprimere il proprio disprezzo. Il mondo sui temi che contano è diviso e divisivo, da sempre. È diviso tra chi ritiene il fascismo una natura mai sopita e chi ritiene che il fascismo sia storia vecchia. È diviso tra chi ritiene gli ultimi i primi da soccorrere e chi li considera materiale umano di risulta. È diviso tra chi ritene i diritti solo se universali e chi progetta uguaglianze che valgono a cerchi. È diviso tra chi considera il dissenso un obbligo civile e chi lo vorrebbe spegnere chiamandolo tradimento.

La formula dell’intellettuale apolitico e sorridente è una truffa

La formula dell’intellettuale apolitico, sorridente, diligentemente settoriale e compiacente è una delle tante truffe di quest’epoca in cui l’imperativo è normalizzare l’indicibile, renderlo potabile, ungere l’incredibile. La partenza di Michela lascia un’eredità – lei stessa ha usato questa parola – di lotta. Colpire lei, anche adesso, ottiene l’effetto di saldare ancora di più le fila di chi si oppone alla cattiveria indecente come strumento di controllo. Scrive Michela Murgia: «Chi è differente, chi non si adegua (o non si integra, che è lo stesso), è quindi considerato a-normale e la conseguenza dell’a-normalità è sempre la discriminazione. Il contrario di quella brutta idea di identità non è infatti la differenza: è la disuguaglianza, la gerarchia di valore tra la soggettività normata e quella fuori norma. Così la norma bianca vede anormalità nella pelle nera, la norma benestante teme l’incontro con la povertà, la norma maschile riduce a eccezione il femminile e il cristiano impara a vedere nemico il musulmano. Invocare la differenza spiazza queste carte ed esige la molteplicità, perché per essere differenti occorre essere almeno in due. Fondarsi sulla differenza significa fondarsi sulla necessità della relazione ed è per questo che la ricchezza della differenza (e il suo rispetto) sono i fondamenti della democrazia, che senza dialettica tra le differenze non avrebbe ragione di essere». Non esistono intellettuali allineati. Il vostro dispiacere è la loro fortuna. E no, Michela Murgia non lascia solo i libri e le parole. Michela Murgia lascia rapporti saldi e lascia un solco.

Festival Valle d’Itria: nel 2024 Bellini, Rota e Ariodante

10 mila spettatori, il 10 per cento in più rispetto al 2022, sono giunti a Martina Franca dai quattro angoli del mondo per assistere agli eventi del Festival della Valle d’Itria, che il 6 agosto 2023 ha chiuso la sua 49esima edizione e già guarda al prossimo anno, che segnerà mezzo secolo dalla sua nascita.

Il Festival 2024 sarà aperto dalla Norma di Bellini

L’appuntamento, si legge in una nota, è fissato al 17 luglio 2024. Se gli eventi dell’edizione 2023 erano dedicati all’ironia, all’opera buffa e all’operetta, ad aprire il Festival numero 50 sarà la Norma di Vincenzo Bellini, nella versione originaria del 1831. Pensato come un omaggio al passato del festival – che deve la sua reputazione internazionale proprio all’allestimento dell’opera belliniana nella versione proposta da Rodolfo Celletti nel 1977 -, anche l’allestimento del cinquantenario vedrà due soprani interpretare le parti di Norma e di Adalgisa, valorizzando così le intenzioni originarie di Bellini e prendendo le distanze dalla tradizione che ha imposto il timbro del mezzosoprano per la giovane Adalgisa.

Aladino e Ariodante gli altri due titoli in cartellone

Il secondo titolo sarà Aladino e la lampada magica, fiaba lirica in tre atti di Nino Rota, la terza opera del compositore milanese che verrà presentata al festival. Il terzo titolo in cartellone è Ariodante, opera in tre atti composta da Georg Friedrich Händel nel 1734 ispirata a un episodio de L’Orlando furioso di Ludovico Ariosto, scelta anche in occasione del 550esimo anniversario dalla nascita dello scrittore. Con questi tre titoli d’opera – come riporta la nota proveniente dagli organizzatori – il Festival della Valle d’Itria guarda al futuro rinnovando il suo impegno nella valorizzazione, nella diffusione e nella trasmissione ai posteri di una parte oltremodo significativa del repertorio operistico internazionale.

Art Beats, il progetto per incontrare, ascoltare e vedere l’arte

Un progetto diffuso per incontrare, vedere e ascoltare l’arte. È Art Beats, promosso dal Settore Musei Civici di Bologna e da Aeb Industriale, azienda del settore dell’audio professionale, in programma il 16 e 17 settembre 2023 in varie sedi, con ingresso gratuito.

Musei Civici aperti e sette installazioni sonore

I visitatori potranno accedere a sette sedi museali selezionate tra tutte e sei le aree disciplinari in cui si articola il Settore Musei Civici, negli orari di apertura: Museo Civico Archeologico, Museo Civico Medievale, Collezioni Comunali d’Arte, MAMbo – Museo d’Arte Moderna, Museo internazionale e biblioteca della musica, Museo del Patrimonio Industriale, Museo civico del Risorgimento. Oltre che alla visione e al dialogo con l’arte, il pubblico sarà invitato all’ascolto di sette installazioni sonore, ognuna ispirata alle collezioni del museo associato, commissionate da Aeb Industriale ad altrettanti compositori e musicisti, esponenti della poliedrica scena artistica bolognese. La suggestione visiva di questi sette luoghi di cultura della città si trasformerà così in note musicali per offrire una coinvolgente esperienza immersiva ai visitatori. Attraverso la creazione di un Qr Code, ogni composizione resterà a disposizione del museo associato in via permanente per permettere a tutti gli interessati di scaricarle in occasione della loro visita.

La dinastia Wagner e la crisi del Festival di Bayreuth

Sulla Verde Collina di Bayreuth soffiano venti tempestosi. E non sono quelli così genialmente descritti in musica da Richard Wagner nel Preludio dell’opera La Valchiria, prima giornata dell’Anello del Nibelungo.

Intorno al teatro che re Ludwig di Baviera fece costruire per il suo compositore prediletto, e che questi progettò come funzionale scrigno della sua rivoluzionaria drammaturgia, i sussurri polemici sono ormai folate impetuose. Il festival operistico più prestigioso e forse più antico del mondo, fondato da Wagner nel 1876 e sempre esclusivamente dedicato alle sue opere (un evento che ne ha fatto l’epicentro del fenomeno planetario chiamato wagnerismo), fra pochi mesi potrebbe conoscere un cambiamento senza precedenti, la nomina di un direttore artistico che non appartiene alla famiglia del compositore. Un caso mai accaduto in 147 anni.

Wagner e la linea dinastica della rassegna di Bayreuth

La linea dinastica della rassegna di Bayreuth è tutto sommato semplice: dopo la morte di Wagner, avvenuta a Venezia il 13 febbraio 1883, il festival proseguì fino all’inizio del Novecento sotto la supervisione della vedova, Cosima Wagner nata Liszt, e quindi, a partire dal 1908, fu diretto dall’unico figlio maschio del compositore, Siegfried, che morì 61enne nel 1930. Dopo di lui, e mentre il nazismo saliva al potere, le redini passarono alla sua vedova, Winifred, di origine inglese, figlia adottiva di un pianista tedesco, nazista entusiasta, antisemita (come del resto l’illustre suocero e la moglie di lui) e amica personale di Adolf Hitler. Già prima, ma ancor più dopo la presa di potere, il dittatore era di casa nella villa chiamata Wahnfried (più o meno, “la pace dopo le illusioni”), che il compositore si era fatto costruire a poca distanza dal Festspielhaus e nel cui giardino è sepolto. Lì Hitler s’intratteneva con i due figli maschi di Siegfried e Winifred, Wieland e Wolfgang, allora adolescenti. Il Führer aveva un atteggiamento paterno, i due ragazzi secondo le storie di famiglia lo chiamavano zio Adolf. Dopo il 1945, la catastrofe bellica e il pesante coinvolgimento della famiglia Wagner nel nazismo sembravano postulare la fine del Festival di Bayreuth, che invece risorse nel 1951, affidato a Wieland e Wolfgang Wagner. Il primo – regista wagneriano di qualità – morì prematuramente nel 1966. Il secondo ha dominato il festival per oltre mezzo secolo con gestione incontrastata e autocratica, conclusasi nel 2008, all’età di 89 anni. Secondo logica ereditaria, la soluzione dopo il suo ritiro (preceduto da molte polemiche) è stata una “diarchia” formata delle sorellastre Eva e Katharina Wagner, figlie nate dai due matrimoni di Wolfgang, con una differenza di età fra loro di oltre 30 anni. La più giovane è Katharina, nata nel 1978 e diventata direttrice artistica unica del Festival di Bayreuth dal 2015.

La dinastia Wagner e la crisi di Bayreuth
Winifred Wagner, nuora di Richard Wagner, con il figlio Wieland e Hitler (Getty Images).

I contrasti tra Katharina, pronipote del Maestro e direttrice unica del Festival, e il consiglio 

La pronipote di Richard Wagner, in proprio regista d’opera del genere “innovativo” dalla carriera non particolarmente brillante, nei mesi scorsi è entrata in rotta di collisione con il consiglio che sovrintende alla gestione economica del festival. Si tratta di un organismo composto dai rappresentanti dei principali finanziatori della rassegna, il ministero federale tedesco della Cultura, quello del Land della Baviera, la città di Bayreuth e l’associazione degli Amici del Festival, il cui delegato è attualmente il presidente. Occasione del contrasto, dietro al quale pare peraltro di capire esista una storia non breve di incomprensioni e di scarsa fiducia, la nuova e molto attesa produzione del Parsifal che ha inaugurato il festival lo scorso 25 luglio. Lo spettacolo reca la firma di Jay Scheib, 53enne regista americano di Shenandoah, Iowa, considerato una delle punte di diamante dell’innovazione teatrale (con un curriculum peraltro non particolarmente ricco nello specifico campo operistico), docente di Arti della Musica e del Teatro al prestigioso Massachusetts Institute of Technology. La caratteristica che più ha attirato l’attenzione dei media e la curiosità del pubblico è l’impiego durante la rappresentazione di tecnologie per la creazione di realtà aumentata, con l’utilizzo da parte di chi assiste di speciali visori. Di fatto, alla prima la realtà aumentata ha riguardato solo una parte degli spettatori: i presenti erano quasi 2 mila, i dispositivi necessari per questa fruizione poco più di 300. Il limite era stato deciso dal consiglio di gestione per motivi economici (si è parlato di un costo di 1.000 euro per visore) ed è stato letto dagli osservatori come un attacco diretto a Katharina Wagner e alle sue scelte artistiche, che ormai da parecchi anni sono nel mirino della parte più conservatrice non solo del pubblico ma soprattutto degli amministratori, rappresentata dagli Amici del Festival.

La dinastia Wagner e la crisi di Bayreuth
Katharina Wagner (Getty Images).

La difficoltà a riempire la sala e gli eccessi del Regietheater

Al contrasto specifico si è aggiunto un motivo di discussione nuovo e del tutto inedito per il festival wagneriano: a quanto pare, la leggendaria difficoltà di procurarsi i biglietti– anni di lista d’attesa a causa del perenne tutto esaurito – non esiste più. Anzi, ci sono spettacoli che non riempiono la sala. A differenza che in passato, adesso gli appassionati possono sperare di comperare i preziosi tagliandi al volo su Internet, registrandosi sul sito. Katharina Wagner non ha negato problemi, ma li ha addebitati a difficoltà organizzative, mentre autorevoli esponenti del mondo musicale tedesco, come ad esempio l’anziano ex sovrintendente dell’Opera di Vienna, Ioan Holender, hanno indicato una causa ben diversa: il pubblico sarebbe sempre più sconcertato dagli spettacoli che si vedono a Bayreuth e per questo sarebbe portato ad “astenersi”. Secondo questa tesi, la contrarietà agli eccessi del cosiddetto Regietheater – che pure vide la luce proprio nel teatro sulla Verde Collina, con l’innovativo Ring messo in scena nel 1976 da Patrice Chéreau – sarebbe passata dai discorsi più o meni accesi durante gli intervalli delle rappresentazioni, dalle contestazioni a fine spettacolo, dalle dispute sui social network, a una vera e propria forma di boicottaggio concreto. Al di là di quella che nel mondo dei melomani è ormai una vera e propria questione ideologica, i numeri a festival concluso diranno se la crisi dei biglietti è vera o solo presunta. Ma resta il fatto che il bilancio artistico di Katharina Wagner è tutt’altro che esaltante. E le sue scelte sono state spesso molto criticate specialmente per quanto riguarda la Tetralogia – costituita dalle opere L’oro del Reno, La Valchiria, Sigfrido e Il crepuscolo degli dèi, che sono affidate unitariamente alla stessa squadra teatrale e musicale. Il tema è centrale: il teatro di Bayreuth nacque proprio per realizzare la rappresentazione ravvicinata e coerente delle quattro opere che costituiscono L’anello del Nibelungo. Già nel 2013 un enorme clamore era stato suscitato dalla regia del tedesco Frank Castorf, oggi 72 anni, direttore per oltre un ventennio della Volksbühne di Berlino, invitato dalla pronipote di Wagner a “re-immaginare” l’epico ciclo dei Nibelunghi. Ne era uscito uno spettacolo in cui l’oro causa di tutto diventava petrolio e la storia si svolgeva fra il Texas e il Mar Caspio. Titolo della recensione pubblicata dal New York Times: “Le figlie del Reno della Route 66”. Allora, peraltro, solo l’autorevolezza del direttore d’orchestra Kirill Petrenko, debuttante a Bayreuth (è l’attuale direttore stabile dei Berliner, e averlo chiamato va a merito di Katharina Wagner), aveva bloccato il regista, che voleva mettere le mani sul testo poetico-musicale e inserire nella rappresentazione brani di altri compositori. Come aveva commentato il critico Anthony Tommasini, «chi si lamenta dello spettacolo pensi che poteva andare peggio».

La dinastia Wagner e la crisi del Festival di Bayreuth
Il teatro di Bayreuth (Getty Images).

Allestimenti criticati e prezzi dei biglietti esorbitanti

Il Ring successivo è quello pure molto controverso tuttora in produzione, firmato dal 34enne austriaco Valentin Schwarz, che doveva debuttare nel 2020 ma è stato bloccato per un anno dal Covid. Qui il racconto mitico e allegorico di Wagner, popolato di dei e guerrieri, nani e giganti, misteriose fanciulle che vivono nelle profondità del Reno, uccellini parlanti e draghi che sputano fuoco sparisce a favore di un immaginario legato alla più stretta attualità, con la rappresentazione di una fatua società con l’orrore di invecchiare. E la parabola sul potere e sull’oro causa di ogni male diventa eco della cronaca peggiore: l’anello che tutti bramano è in realtà un bambino rapito. Nessun elemento magico, assente la Natura. È questo allestimento che a quanto pare fatica a trovare chi compri i biglietti. Una tendenza nella quale l’aumento dei prezzi deve anche avere il suo ruolo: adesso i posti migliori nello scomodo ma carismatico anfiteatro wagneriano costano intorno ai 450 euro ciascuno. Quanto al Parsifal inaugurale di quest’anno, secondo l’Associated Press è stato contestato dal 5-10 per cento del pubblico e alla fine applaudito per un quarto d’ora, che per le abitudini tedesche non è neanche molto. Si sa che Wagner amava e inseguiva gli effetti speciali e rivoluzionò anche il modo di inscenare l’opera e di assistervi (oggi – solo per dire – il buio in sala è ovvio, ma quando il compositore tedesco lo impose nel 1876 era una novità assoluta), ma le prime recensioni sembrano revocare in dubbio che la realtà aumentata sia un elemento utile a rileggere questo complesso “dramma sacro”. La minuziosa descrizione che ne abbiamo letto lascia in effetti un po’ interdetti. Figure evanescenti che si dissolvono in fiamme, armi che fluttuano nell’aria, teschi sorridenti, immagini di uccelli o altri animali…Pare di capire che anche senza costosi visori (per il pubblico pagante, un centinaio di euro oltre al prezzo del biglietto) non si perda poi granché.

La dinastia Wagner e la crisi di Bayreuth
L’apertura del Festival di Bayeruth nel 2007 (Getty Images).

Katharina Wagner può anche vantare notevoli successi, naturalmente, come ad esempio i magnifici Maestri cantori di Norimberga in scena nel 2017 con la regia dell’innovativo regista australiano Barrie Kosky. Uno spettacolo che è piaciuto a tutti, ambientato all’inizio nella villa di Wagner e nell’ultimo atto nella cornice del processo di Norimberga. A dimostrazione che il teatro di regia non è negativo in quanto tale: quando funziona diventa rivelatorio molto più di uno spettacolo tradizionale. In ogni caso, il destino della direttrice artistica del teatro sulla Verde Collina si deciderà nei prossimi mesi. Secondo varie fonti tedesche, l’impegno finanziario degli Amici del Festival sarebbe destinato a ridursi, lasciando spazio a maggiori contributi da parte del libero Stato di Baviera, il cui ministro della Cultura sostiene la linea della continuità. Lei si proclama disposta a lasciare senza problemi, se necessario, ma intanto rilancia, parla della necessità di un lavoro massiccio sul marketing, di un’organizzazione diversa, di realizzare nel 2026 – a 150 anni dall’inaugurazione – la prima rappresentazione a Bayreuth del Rienzi, finora sempre escluso – come tutte le opere giovanili – dal “canone” del festival. Resta il fatto che pesa ancora la rottura con uno dei maggiori specialisti wagneriani, il direttore d’orchestra Christian Thielemann, mentre la qualità degli spettacoli, regnante la pronipote di Wagner, è spesso, se non sempre una scommessa. Di sicuro, un direttore artistico che dura più di 15 anni è una rarità dappertutto. Ma Bayreuth resta un altro mondo.

Tre mostre sul dialogo tra classico e contemporaneo

Dialogare con il passato e trarne ispirazione per creare nuove forme d’arte. È quello che accade nei lavori di Fabio Viale ospitate all’aeroporto di Malpensa, nelle opere di Claudio Palmieri esposte a Naxos e nella mostra di Matisse al Man di Nuoro. Lettera43 vi accompagna in questo viaggio nel tempo tutto agostano.

I marmi tatuati di Fabio Viale a Malpensa

Sono tatuati, i marmi di Fabio Viale, ospitati alla Porta di Milano, al terminal 1 di Malpensa. Dal buio profondo della sala, così diversa dagli altri ambienti dell’aeroporto, risaltano le opere monumentali dell’artista che fonde mitologia, memoria e linguaggi contemporanei. Nella mostra Monumentum lo scultore cuneese cita icone che vanno dalla Venere di Milo al gruppo ellenistico di Laocoonte, dall’antico Torso Belvedere al David di Michelangelo. Tutti tatuati, appunto, con motivi orientali o come i rapper. E la Mano, che riproduce l’arto di una statua romana di grandi dimensioni, è “disegnata” da scarabei e teschi, che rientrano nel vasto repertorio figurativo criminale. È un’opera in cui si incontrano il passato e il presente, la monumentalità classica, sinonimo di armonia, e un vocabolario attuale, che comunica invece minaccia, aggressività, controllo, sete di potere. (www.malpensanews.it Ingresso libero. Fino al primo settembre).

Le rovine contemporanee di Palmieri a Naxos

Un faccia a faccia spettacolare tra contemporaneo e rovine archeologiche? A Naxos, Taormina, con le opere di Claudio Palmieri. Che con 19 fra sculture e installazioni ripropone 36 anni di sperimentazione su una materia lavorata fino a ricordare rinvenimenti fossili e lontane ere geologiche. L’artista romano, che si forma guardando al Futurismo per poi accostarsi all’Informale, è anche pittore e fotografo. I pezzi esposti nella radura davanti al Museo per la rassegna Pieghe del tempo dialogano con il parco archeologico, che testimonia la prima colonia greca fondata in Sicilia nel 734 a.C.. Il metallo di Architettura naturale, con la sommità accartocciata su due lunghissimi steli, ha una struttura stilizzata che rimanda al volo di un animale senza tempo. I colori virano dall’oro al verde, passando per il blu cobalto, ma mentre il tipo di patina è assolutamente moderno, i toni richiamano quelli dei minerali, come in un confronto continuo fra l’oggi e un passato remoto. (www.parconaxostaormina.com Fino al 30 settembre).

A Nuoro le Metamorfosi di Matisse scultore

Un volto diverso, quello che di Matisse offre il Museo Man di Nuoro. Pensando all’artista vengono subito in mente i quadri con colori vivaci, figure appiattite e contorni marcati. Ma nella rassegna Metamorfosi sono esposte le sculture, che consentono di ripercorrere la ricerca formale che il francese conduce soprattutto sul corpo umano, in rapporto con lo spazio e il tempo. Il Nudo disteso, che riprende l’’iconografia classica femminile, è un esempio della sintesi a cui giunge l’esponente dell’avanguardia Fauves: fianchi abbondanti, forme generose, restituite attraverso superfici non sempre levigate, sono al tempo stesso frutto di stilizzazione e di uno sguardo alla plastica arcaica, con donne dal volto non definito. (www.museoman.it Fino al 12 novembre).

Maurizio Mannoni, ufficiale l’addio a Linea Notte

Ha scelto il suo profilo Twitter, Maurizio Mannoni, per confermare la notizia e pubblicare il suo sfogo: «Cari amici, non che la notizia sia di particolare interesse, me ne rendo conto… ma dal momento che molte persone si domandano se tornerò alla conduzione di Linea Notte, ebbene la risposta purtroppo è no. La Rai non ha trovato il modo di farmi fare un’ultima stagione».

«È stato bello percorrere questa lunghissima strada assieme»

Un mese fa il conduttore di Linea Notte su Rai3 aveva concluso la sua esperienza salutando il suo pubblico così: «È stato bello percorrere questa lunga strada, lunghissima, assieme… Magari qualcosa succederà o forse nulla. Su questo francamente non so cosa dirvi». E adesso qualcosa da dire lo ha trovato. Lanciato da Sandro Curzi, Maurizio Mannoni, classe 1957 originario di La Spezia, ha lavorato per anni al Tg3 e curato diversi programmi di informazione e di approfondimento giornalistico fra cui Ultimo minutoPrimo piano e Un giorno per sempre.

A Milano chiude l’Odeon, primo multisala della città

Ha quasi 100 anni, per la precisione 94, ma non arriverà a compiere un secolo di vita il cinema Odeon di Milano, a due passi da piazza del Duomo. La storica multisala con 10 sale di proiezione e oltre 2 mila posti a sedere, la prima della città, chiuderà i battenti da martedì 1 agosto 2023. Gli ultimi spettacoli sono quelli in programma oggi, 31 luglio, fino alle 22:45 (ora a cui inizierà l’ultima proiezione). È la fine di un’epoca perché la multisala è aperta, prima come teatro e poi come cinema, dal 1929 con la sua architettura unica in stile Art déco.

I milanesi già nostalgici: «Vengo qua da quando ero bambina»

Al suo posto nascerà un centro commerciale, anche se a pochi passi da lì c’è già La Rinascente. Nell’ultimo giorno di proiezioni i milanesi si sentono un po’ orfani dell’Odeon. Come Lorena, che ha 46 anni e parla di questo cinema con commozione prima di entrare a vedere il film Barbie: «A Milano e soprattutto in centro stanno chiudendo tutti i cinema, io vengo qua da quando ero bambina. I miei genitori mi portavano a vedere i cartoni animati della Disney e da grande ci sono sempre venuta con le amiche. Anche per Nicolas «è una bella botta la chiusura dell’Odeon. Quanti ricordi in queste sale e per cosa? Per l’ennesimo centro commerciale di cui non abbiamo bisogno».

Fuortes, le sfide al San Carlo e un bilancio del suo lavoro a Roma e Verona

La designazione dell’ex ad della Rai, Carlo Fuortes, come prossimo sovrintendente del San Carlo è una vittoria del sindaco di Napoli Gaetano Manfredi, resa possibile da un assist governativo. Tale appare il decreto che ai primi di maggio ha messo fuori gioco per motivi anagrafici Stéphane Lissner, il quale ha compiuto 70 anni lo scorso gennaio e decade dall’incarico a causa della sua età. Salvo l’esito del ricorso alla magistratura: udienza l’11 settembre. Fuortes, inizialmente in apparenza non interessato, si è fatto convincere nel giro di un paio di mesi e Manfredi ha potuto annunciare con toni trionfalistici il suo prossimo arrivo. Manca solo il decreto di nomina del ministro della Cultura, che non sembra in dubbio. Quasi generale l’apprezzamento per la designazione approvata dal Consiglio di indirizzo. Solo il rappresentante della Regione si è astenuto, ma per una posizione critica sulla gestione precedente, non ancora chiarita. L’unica nota di prudente attendismo è venuta quindi dai rappresentanti sindacali dei dipendenti della Fondazione del Teatro di San Carlo.

Fuortes, le sfide al San Carlo e un bilancio del suo lavoro a Roma e Verona
Stéphane Lissner (Getty Images).

Il braccio di ferro con il coro e l’orchestra dell’Opera di Roma e la rottura con Muti

La storia di Fuortes, 64 anni a settembre, è in effetti quella di un dirigente culturale che ha improntato le relazioni sindacali a un forte e spesso conflittuale decisionismo. Passato a dirigere l’Opera di Roma dopo una ultra-decennale gestione del Parco della Musica, il manager approdò su tutte le prime pagine ai primi di ottobre del 2014. Fu allora che il consiglio di indirizzo del Costanzi approvò la clamorosa e inedita strategia proposta dal sovrintendente, in carica da neanche un anno: licenziamento in tronco del coro e dell’orchestra, 180 persone in tutto, e passaggio all’esternalizzazione per queste funzioni. Decisione inevitabile, disse Fuortes, appoggiato dall’allora ministro della cultura Dario Franceschini, per cominciare a mettere ordine nei disastrati conti della Fondazione lirico-sinfonica romana che aveva un debito sopra i 30 milioni di euro e bilanci non in ordine. La decisione mandava un segnale molto forte a masse artistiche che avevano costellato l’estate romana (spettacoli a Caracalla) con ripetute iniziative sindacali di rottura, collegate a richieste soprattutto economiche, fino a incrinare il rapporto con Riccardo Muti, che sembrava destinato ad assumere un ruolo centrale nella programmazione e che invece se ne andò sbattendo la porta e rinunciando all’Aida inaugurale, prevista per la fine di novembre. L’atto di forza durò poco: un mese e mezzo dopo, i licenziamenti furono annullati sulla base di un accordo che vedeva gli stipendi di orchestrali e coristi ridotti in media del 5-10 per cento. Ma che poneva d’altro canto le basi per un forte aumento della produttività artistica.

Fuortes, le sfide al San Carlo e un bilancio del suo lavoro a Roma e Verona
Carlo Fuortes (Imagoeconomica).

La parentesi a Verona come commissario straordinario della Fondazione Arena

Un anno e mezzo più tardi, ad aprile del 2016, Franceschini avrebbe inviato Fuortes a Verona come commissario straordinario della Fondazione Arena sull’orlo della liquidazione, voluta dall’allora sindaco Flavio Tosi. In questo caso non furono annunciati licenziamenti: il piano-Fuortes (che rimase in carica solo sei mesi e a Verona si fece vedere un paio di volte) era basato sull’abolizione del corpo di ballo e sul taglio temporaneo delle retribuzioni dei dipendenti, ridotti al minimo da un’adeguata campagna di pensionamenti anticipati e agevolati. In pratica, fino alla fine del 2018 è stato in funzione un part-time verticale costituito dal blocco di 52 giornate lavorative all’anno: di fatto una serrata di due mesi, con la Fondazione chiusa in ottobre e in novembre. In questo modo, i compensi dei dipendenti – che tuttavia avevano dato il loro assenso al piano – sono stati ridotti di due mensilità, taglio solo parzialmente compensato dalla cassa integrazione. Una riduzione superiore al 10 per cento.

Al San Carlo Fuortes trova bilanci in equilibrio, risultati di esercizio positivi e un debito cospicuo ma sotto controllo

In realtà, Fuortes non trova a Napoli (dovrebbe insediarsi a settembre: stipendio al massimo consentito dalla legge 248 mila euro all’anno) una realtà neanche lontanamente paragonabile a quelle di Roma nel 2014 e di Verona nel 2016. Secondo gli ultimi dati (la relazione semestrale del commissario straordinario del governo per le Fondazioni lirico-sinfoniche), la situazione è al momento ordinata: bilanci in equilibrio, con risultati di esercizio positivi da 10 anni a questa parte, debito sempre cospicuo (la Fondazione San Carlo è fra le numerose ammesse ai benefici della Legge Bray del 2013, che ha concesso ai teatri musicali importanti finanziamenti a tassi agevolati) ma sotto controllo, intorno ai 25 milioni, grande ritorno del pubblico dopo la pandemia.

Fuortes, le sfide al San Carlo e un bilancio del suo lavoro a Roma e Verona
Il San Carlo di Napoli (Getty Images).

Al netto dell’inizio burrascoso, l’ex ad Rai ha portato il Costanzi a un livello di qualità toccato raramente nella sua storia

Al di là delle preoccupazioni sindacali, la designazione chiude la non esaltante parentesi di Fuortes in Rai e lo riporta sul terreno che gli è più congeniale, nel quale ha da tempo dimostrato di sapersi muovere non solo con chiara visione delle problematiche gestionali, ma con ricchezza di idee e solido bagaglio culturale. Dopo la tumultuosa annata iniziale, per certi aspetti nonostante questo esordio problematico, il suo lavoro ha in effetti portato il Costanzi – secondo parere critico pressoché unanime – a un livello di qualità toccato raramente nella sua storia ultracentenaria. Decisive, in questo senso, scelte di programma di notevole interesse, non necessariamente attente solo al grande repertorio, ma sempre alla dimensione storico-culturale con uno spazio importante per la musica del Novecento; e decisiva la nomina come direttore musicale di una figura di indiscusso alto livello internazionale come Daniele Gatti, alla guida dell’orchestra nel triennio 2019-2021. Significativo il fatto che in questo periodo, coinciso in larga parte con l’emergenza pandemica, con la chiusura dei teatri o con il loro utilizzo solo parziale, la programmazione dell’Opera di Roma si sia segnalata per originalità e creatività. Il riferimento è in particolare ai film-opera trasmessi in tv e realizzati nel teatro deserto da Mario Martone con Gatti sul podio: Il Barbiere di Siviglia (dicembre 2020) e La Traviata (febbraio 2021). Nell’aprile del 2022 il progetto si era poi concluso con La bohème diretta da Mariotti, quando da poco al Costanzi era subentrato Francesco Giambrone. Proposte di alto valore teatrale, oltre che musicale e vocale, con una continua interazione fra il linguaggio della scena e quello della cinepresa. Del resto, alla prima e solo temporanea ripresa dell’attività, nel mese di giugno del 2020, l’Opera di Roma si era messa in evidenza con un Rigoletto al Circo Massimo, affidato alla regia di Damiano Michieletto, nome di punta della nuova regia operistica internazionale.

Carlo Fuortes, le sfide al San Carlo
Carlo Fuortes e Virginia Raggi alla presentazione della stagione 2021-2022 dell’Opera di Roma (Imageconomica).

Le prime scelte circa la direzione musicale e artistica faranno capire cosa attende la scena napoletana

Il glorioso e antico Teatro di San Carlo (si avvicina ai tre secoli, essendo stato aperto nel 1737) per vari aspetti appare in questo momento – più ancora della Scala, alla quale il nome di Fuortes era stato accostato nei mesi scorsi – come il luogo ideale di una progettualità che si è sempre dimostrata capace di coniugare la riflessione sul teatro per musica di tutte le epoche con la sua realizzazione all’insegna delle nuove idee nella regia. La prossima stagione è già pronta, e quindi l’impronta di Fuortes si vedrà soprattutto a partire dal 2024-2025. Ma già nei primi mesi, le scelte per la direzione musicale e quella artistica faranno capire che cosa attende la scena operistica di Napoli nei prossimi anni. Che Riccardo Muti ritorni a dirigere nella città dov’è nato 82 anni fa, come spera il sindaco Manfredi, oppure no.

Libri: quattro classici da scoprire in vacanza

Come si sa d’estate si legge di più. Il marketing delle case editrici è incessante e con il tempo si è creato un vero e proprio filone di libri estivi, gialli/thriller leggeri che accompagnano le ore pigre sotto il solleone ideali per essere letti sotto l’ombrellone. E se si sovvertisse questo format e si decidesse di dedicare il tempo alla lettura estiva recuperando grandi classici mai presi in considerazione durante i frenetici mesi invernali? Ve ne consigliamo quattro. Immensi, magnifici, straordinari. Imperdibili.

I detective selvaggi di Roberto Bolaño (Adelphi)

Di Bolaño molto si è detto e altrettanto si è scritto. Trasformato dalla critica nello scrittore maledetto per antonomasia, «il Jim Morrison della letteratura», quasi ignorato in vita, è diventato autore di culto dopo la sua prematura scomparsa, a soli 50 anni, per una cirrosi epatica non curata. Per chi volesse addentrarsi nella sua opera, il consiglio è quello di partire da I detective selvaggi, pubblicato in Italia da Adelphi, un fluviale romanzo attraverso il quale Bolaño narra l’epopea di un’intera generazione: la sua. Popolato da fantasmi e allucinazioni nella Città del Messico degli Anni 70, I detective selvaggi è la storia di un gruppo di poeti scalcagnati, adepti di un’improbabile ed estrema avanguardia, il “realvisceralismo”, raccontati da centinaia di punti di vista differenti. Al centro c’è la grandezza di Arturo Belano (alter ego di Bolaño) e del poeta Ulises Lima, un po’ i Kerouac e i Dean Moriarty di On the road, però narrati alla maniera di Citizen Kane di Orson Wells.

Libri: quattro classici da scoprire in vacanza
I detective selvaggi di Bolaño (Adelphi).

2. Sotto il vulcano di Malcolm Lowry (Feltrinelli)

Una sorta di «Divina Commedia ubriaca», come fu definita dallo stesso autore, Sotto il vulcano (consigliato nella nuova traduzione di Marco Rossari) narra l’ultimo giorno di vita di Geoffrey Firmin, ex console britannico nella città immaginaria di Quauhnahuac. Siamo nel 1938 ed è la mattina del giorno dei morti. È la vigilia della Seconda Guerra mondiale. Il console, stremato da una sessione alcolica da Guinness dei primati, trascorre l’ultimo giorno della sua vita barcollando disastrosamente da un drink all’altro, accompagnato dal fratellastro Hugh e dalla moglie Yvonne. «Ancora in abito elegante, non particolarmente scompigliato una ciocca di capelli biondi che gli ricadeva sugli occhi e una mano stretta nella barba corta e appuntita, sedeva di traverso con un piede sulla ringhiera di uno sgabello adiacente al piccolo bancone di destra, mezzo chinato su di esso e parlava apparentemente tra sé». Il racconto è uno schizofrenico delirio mentale di Lowry, in parte autobiografico, alimentato da vino, birro, tequila e mezcal. Un viaggio lungo 12 capitoli, corrispondenti alle ultime 12ore di vita del console, durante i quali succederà di tutto. Un libro che fu scritto con grande fatica, accolto tiepidamente dalla critica ma che oggi è considerato un romanzo di culto. Un classico riconosciuto tale solamente dopo la morte dello stesso Lowry per alcolismo nel 1957. Come fare un trip di Lsd però da sobri.

Libri/ quattro classici da scoprire in vacanza
Sotto il vulcano di Malcolm Lowry (Feltrinelli).

3. Cuore di tenebra di Joseph Conrad (Feltrinelli)

Un capolavoro che è l’esatta rappresentazione della natura umana, Cuore di tenebra di Conrad è un piccolo libro che esplode come una granata nelle mani del lettore. Il romanzo (perennemente presente nella lista dei 100 libri più belli di tutti i tempi) racconta gli sforzi di Marlow, il protagonista, per risalire il fiume Congo nell’Africa nera per conto del suo datore di lavoro, al fine di riportare alla vita un commerciante di avorio disonesto, il misterioso Kurtz. Cuore di tenebra deve molto della sua fortuna ad Apocalypse Now, magistrale trasposizione cinematografica di Francis Ford Coppola che però ambientò la storia in Vietnam. Il regista conservò il messaggio centrale del romanzo, ovverosia che tutti gli esseri umani possono cadere nell’oscurità interiore e macchiarsi di atti riprovevoli. Entrambe le storie si confrontano anche con il razzismo che permea il pensiero imperialista, criticando la disumanizzazione del popolo africano e vietnamita.

Libri/ quattro classici da scoprire in vacanza
Cuore di tenebra di Joseph Conrad (Feltrinelli).

4. Viaggio al termine della notte di Louis-Ferdinand Céline (Corbaccio)

La recente pubblicazione di quel capolavoro ritrovato che è Guerra, edito in Italia da Adelphi, ha riacceso l’attenzione su Louis-Ferdinand Céline. Autore discusso, antisemita tanto da macchiarsi di connivenze con i nazisti, alcune sue opere però restano dei capisaldi della letteratura. Per iniziare a conoscerlo si consiglia vivamente la lettura di Viaggio al termine della notte, in cui lo scrittore francese racconta lo smarrimento esistenziale di un reduce della Grande Guerra nei primi Anni 20. Un romanzo che è allo stesso tempo una cronaca fredda e lucida della Francia dell’epoca e che contemporaneamente è il grido di rivolta – letterario e sociale – di un eterno sopravvissuto. Si narra la storia di Ferdinand Bardamu che dopo aver combattuto nella Grande guerra, va in Africa e successivamente negli Stati Uniti. Torna in Francia, dove diventa medico e apre uno studio in un degradato sobborgo di Parigi, per poi finire a lavorare presso un istituto di igiene mentale. Un racconto magistrale sulle miseria della vita e sulle vicissitudini di un uomo, disperato, costretto per tutta la sua esistenza ad arrangiarsi. Un pugno nello stomaco, una riflessione sorprendentemente lucida e crudele sullo stare al mondo.

Libri/ quattro classici da scoprire in vacanza
Viaggio al termine della notte di Céline (Corbaccio).

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Cambiamento climatico, le profezie dei cyberpunk

Nel 1994 il mondo era decisamente diverso da oggi. Non c’era l’euro, Kurt Cobain cantava il disagio della Generazione X, i social vivevano ancora solo dentro le intuizioni degli scrittori cyberpunk, come del resto era già accaduto con internet e la virtuale tutto. Proprio in quell’anno usciva Atmosfera mortale (oggi in libreria in una nuova edizione dal titolo Atmosfera Letale), romanzo di colui che, insieme al matematico Rudy Rucker, è sempre stato considerato l’ideologo dei cyberpunk: Bruce Sterling.

Così Sterling nel 1994 raccontò l’emergenza climatica che stiamo vivendo oggi

Il titolo oggi suona quantomeno profetico. Si parla, lasciando da parte i meccanismi da thriller che erano tipici di un genere ormai divenuto un classico, di un clima impazzito per qualcosa di non troppo diverso dal riscaldamento del Pianeta che oggi fa sì che – per restare all’Italia – Milano venga devastata da un tornado con venti a 110 all’ora, grandine grossa come bombe a mano e alberi divelti manco fossero margherite lungo un sentiero, mentre il Sud sia circondato dalle fiamme, senza luce e acqua, e le coste dell’Adriatico, non esattamente il mare più aperto che il Bel Paese ha a disposizione, siano colpite da mareggiate in stile mini-tsunami – Hokusai dove sei? – che non hanno neanche la decenza di lanciare un minimo di preavviso: pochi secondi e il cielo si fa nero, il mare sale e si porta via tutto. Nella trama del romanzo, c’è ovviamente lo sviluppo di una azione – il cyberpunk era una sorta di costola rivoluzionaria e molto rock’n’roll della ormai calcificata fantascienza – si parla del Progetto Tempesta, un gruppo di simil ghostbuster all’inseguimento non di fantasmi ma di fenomeni atmosferici feroci a partire dal famigerato Tornado Alley, ma è lo scenario d’insieme a essere davvero aderente a quella che ormai è la cronaca quotidiana con cui ci troviamo a fare i conti. Esattamente come era capitato a William Gibson con Neuromante, capitolo della sua trilogia dello Sprawl che comprende Giù nel ciberspazio e Monna Lisa Cyberpunk nei quali si profilava appunto un futuro non troppo diverso dal nostro presente, fatto di rapporti a distanza, connessioni, virtualità.

Cambiamento climatico, le profezie dei cyberpunk
Bruce Sterling (Getty Images).

Il futuro raccontato da Gibson è una versione appena rivista del presente

Del resto, Gibson ha nel corso degli anni, e delle trilogie – dopo quella dello Sprawl è arrivata quella del Ponte, poi quella di Bigend e ora, sembra, sia in corso quella di Jackpot, Inverso (al momento anche una serie su Prime Video) e Agency – provato a mappare la contemporaneità giocando sempre su un futuro che tanto futuro non era, quanto piuttosto una versione appena rivista del presente, mettendo in campo di volta in volta l’ingresso nelle nostre vite dell’Intelligenza artificiale, dello straripante potere delle multinazionali, del marketing che si fa via via sempre più pervasivo e arrogante. Per questo parlare di lui come di un autore di fantascienza potrebbe quasi risultare sviante. Come è sviante farlo per Sterling, suo compare sin dai tempi di Mirrorshades, l’antologia con Mozart in occhiali a specchio in copertina, che raccoglieva un manipolo di autori del tutto intenzionati a raccontarci il domani usando una lingua nuova.

Cambiamento climatico, le profezie dei cyberpunk
William Gibson.

I visionari a cui bisognerebbe dare ascolto: da Alan Moore a Ridley Scott

Se pensiamo agli States devastati dalla guerra civile di Caos USA, balcanizzazione scoppiata dopo l’innalzamento degli oceani a causa dei cambiamenti climatici, il romanzo è del 1998, o alla pandemia che ha cambiato gli equilibri del mondo in Fuoco Sacro, del 1996, solo per fare un paio di titoli, è chiaro come gli scritti degli autori cyberpunk andrebbero letti con attenzione, e non solo dai nerd assoldati dalla Nasa per spulciare tutti i romanzi di fantascienza, visto mai che qualcuno di questi pazzi visionari non intuisca qualcosa di utile. Del resto, proprio a proposito di pandemia, Contagion di Soderbergh, film che se non fosse stato girato nel 2011 potrebbe essere tranquillamente un documentario sulla storia del Covid 19, ci dice molto di come i visionari che immaginano mondi altri rispetto al nostro svelandoci però grandi verità sull’esistenza andrebbero presi sul serio, volendo anche alla lettera. Penso a romanzieri, fumettisti come Alan Moore, registi come le sorelle Wachowski o Christopher Nolan, o cantanti, da Grimes a Janelle Monae, fino alla stessa Lady Gaga. Del resto già nel Blade Runer di Ridley Scott, tratto dal romanzo iconico di Philip K Dick padre putativo proprio del cyberpunk e cyberpunk ad honorem Anche gli androidi sognano le pecore elettriche, l’atmosfera è satura di piogge acide e le intelligenze artificiali, spauracchio dei giorni nostri, si credono al pari degli umani e il presente è quasi sempre oscuro e privo di orizzonti. Uomo avvisato…

Il mio viaggio in treno verso Malpensa con i lanzichenecchi: il racconto della settimana

La vigilia di Natale sono entrato nella libreria del mio quartiere per cercare una guida di Tangeri da regalare ad Ofelia per un viaggio in Marocco che avevamo in programma e che in realtà non abbiamo mai fatto. Mi ero lasciato conquistare dall’idea di rifugiarmi qualche giorno tra la casbah e la Medina marocchina suggestionato dalla letteratura che in quel periodo mi era capitata tra le mani. Ero rimasto stregato dalle suggestioni che quella città internazionale che profumava di kif e marijuana, di spie, di bar tenuti da espatriati molto simili all’Humphrey Bogart di Casablanca mi regalava. Mi vedevo già con il mio completo di lino beige coloniale e il mio panama Montecristo da 2K avvinghiato al mio triplo gin tonic, come Ian Fleming mentre scriveva il suo ennesimo James Bond, seduto ai tavolini dell’Hotel Minzah. «Quest’anno, non si va a Cap Ferrat», sentenziò  una volta la scrittrice americana Gertrude Stein fissando negli occhi il giovane e biondo Paul Bowles, «si va a Tangeri!». Anche se poi in realtà con Ofelia siamo andati due volte a Cap Ferrat e nessuna a Tangeri. D’altronde né io né lei abbiamo mai conosciuto Gertrude Stein. Tuttavia quel pomeriggio della vigilia di Natale, girovagando per gli scaffali della libreria del mio quartiere, rimasi rapito dalla copertina di un’altro libro: la monumentale biografia, scritta da Blake Bailey, di Philip Roth, sopra la quale troneggiava una fantastica foto in bianco e nero dello scrittore americano, adagiato mollemente, in una posa pensosa davanti ad una finestra. Così lo presi in mano, iniziai a sfogliarlo, a soppesarlo e a prendere confidenza con quella carta ruvida e profumatissima di oltre mille pagine. L’equivalente cartaceo di un maglione di cachemire. «Fanculo a Tangeri», mi dissi, e senza pensarci troppo lo tirai su. Anche se di Philip Roth non avevo mai letto niente in vita mia. Tre giorni più tardi ero già alla Rizzoli in Galleria Vittorio Emanuele a comperare Lamento di Portnoy e Pastorale americana, due tra i più acclamati capolavori di Roth, con l’aggiunta di un libro di racconti di Woody Allen, solo perché avevo letto da qualche parte che i due si erano sempre detestati e l’idea di metterli insieme nella stessa busta e portarli a casa, così per fare a entrambi un dispetto, mi divertiva parecchio.

Raramente si è folgorati dai libri, specialmente per noialtri che con i libri ci lavoriamo, ma mi ricordo che Portnoy riuscì nell’impresa di mandarmi letteralmente fuori di testa come ai tempi accadde con Il giovane Holden, Arancia Meccanica, Bastogne o American Psycho. Il romanzo è un lungo monologo di Alexander Portnoy, l’ebreo americano protagonista del titolo, rivolto al suo psicoanalista. Un po’ come Woody Allen, (sempre lui), in Annie Hall tracciava, durante il racconto della sua storia con Annie, un perfetto percorso psicologico, così Roth faceva con Portnoy, riportando per filo e per segno il suo torrenziale vaniloquio. La cosa mi fece immedesimare a tal punto che mentre il tipo parlava delle peggiori nefandezze, del tormentato rapporto con la madre e di tutte le sue nevrosi ebraico-newyorkesi,  vedevo dall’altra parte ad ascoltarlo la faccia del mio psycho (90 euro a seduta). Natalia Ginzburg in una sua recensione su La Stampa del 22 marzo 1970 scrisse: «L’analista non ha voce, e non ha consistenza né dimensione. Potrebbe tacere sempre – come tace – ed essere però una presenza. Potrebbe avere una sua oscura e misteriosa realtà. Non ne ha nessuna. È una sedia vuota. Certo l’autore non aveva in testa, per questo analista, nessun volto umano. Se avesse un volto, lo sentiremmo respirare nell’ombra. Invece no. In quel vuoto, si avverte invece l’autore con una sua volontà cartacea, la volontà di metter là un analista perché la confessione di Portnoy sembri più vera». Io pensavo esattamente il contrario.

Quel pomeriggio di luglio cambiai lo sguardo su mio padre che, per la prima volta, vidi davanti a me per quello che era: non più un supereroe ma un semplice essere umano di 84 anni. Fino a allora mi aveva generato, criticato, distrutto. Quel giorno usciti dallo studio del mio psicologo decisi che non glielo avrei mai più permesso

La prima volta che entrai nello studio del mio strizza lui riceveva ancora al piano terra di un caseggiato in una piccola via dietro Porta Venezia. Doveva essere il 2008, credo. Mia zia era morta da un paio d’anni, mio padre viveva all’estero ormai da un’eternità, con Allegra andava sempre più di merda e la mansarda dove abitavo in via Tiepolo “puzzava stabilmente di marijuana e freebase”. Ricordo che come prima cosa mi diede una matita in mano e mi fece fare un cerchio su un foglio con un piccolo puntino al centro, chiedendomi di inserire all’interno della circonferenza le persone che più erano importanti per me. Io diligentemente presi la matita e, senza pensarci troppo, prima inserii i nomi di tutti i miei amici e poi, sparsi qui e là, dentro e fuori dal cerchio, quelli di qualche ragazza. Ricordo che rimase sbalordito quando si rese conto che nell’elenco non era stato messo nessuno dei miei famigliari. In definitiva, consigliato da DFA, avevo deciso di rivolgermi a lui non tanto per analizzare la mia disastrosa condizione esistenziale ma per un motivo più pratico: da circa un paio di settimane ero vittima di violenti e continui attacchi di panico e mi arresi rapidamente al fatto che per risolvere la questione avevo bisogno di aiuto. Sorprendentemente l’apporto dello strizza fu quasi miracoloso e in breve tempo gli attacchi di panico così come erano arrivati se ne andarono. Se mi guardo indietro considero il 2008 per una serie di motivi una sorta di spartiacque, come fosse l’inizio della mia svolta personale che probabilmente senza il mio strizza non sarebbe mai avvenuta.

Arrivavo da anni di devastazione rigorosa e sistematica, fisica e mentale. Orari folli, alimentazione sballata, inconcludenza totale. E così, durante quell’anno terribile, ci furono l’inevitabile programma di disintossicazione, le infinite seconde possibilità, le continue ricadute, le scivolate nell’abisso dell’orrore, il panico e, infine, l’esplosione. Dopo un anno di sedute però sentivo di stare un po’ meglio e probabilmente fu per questo che risalii immediatamente la china. Se dovessi segnare due punti cardinali del periodo della terapia sicuramente sceglierei come primo la risoluzione del problema degli attacchi di panico e, immediatamente dopo, l’incontro che avvenne un pomeriggio di luglio del 2009, nel quale mio padre spiegò la finanza degli Anni 80 al mio psicologo. Papà si trovava casualmente in città non ricordo bene per quale motivo e sorprendentemente accettò di presentarsi all’appuntamento con me e il mio strizza. «Se è importante per te vengo volentieri», mi rispose al telefono un paio di giorni prima e nonostante il caldo soffocante si presentò davanti allo studio nella piccola via dietro Porta Venezia, vestito di tutto punto, con tanto di completo estivo blu di Brooks Brothers e cravatta a pois di Marinella, e oltretutto in perfetto orario. Per tutta la sua vita mio padre aveva quasi sempre lavorato in apnea, senza mai venire in superficie. In tutta la sua carriera non ha mai rilasciato un’intervista completa, di peso. Non una parola ai giornalisti sui suoi affari, sulle sue passioni, sui suoi programmi. Non fosse stato per le inchieste collegate alla Montedison e a Raul Gardini, il suo nome sarebbe rimasto nell’ombra. Un po’ finanziere e un po’ brasseur d’affaires, molto bocconiano e di buona famiglia, raccontò tutta la sua vita al mio strizza quel pomeriggio di luglio del 2009 partendo dal giorno in cui finiti gli studi in via Sarfatti decise di mettersi a vendere film. «Non avrei mai pensato di mettermi a lavorare con la finanza», disse a un certo punto. Parlò poco di noi, ma si soffermò parecchio sul giorno in cui fu costretto a chiudere il suo ufficio, l’attico giungla pieno zeppo di ficus Benjamin, 650 metri quadrati affacciati su Piazza San Babila, e di opere che aveva collezionato negli anni e che andarono all’asta. «Le valutarono 4 miliardi e mezzo. La passione di una vita», disse, «quasi tutta messa insieme nella seconda metà degli Anni 80». Non una parola sulle case intestate a mio fratello che costrinse con l’inganno a farsi cedere per poi vendere. Non un accenno al fondo fiduciario lasciato a me da mia madre che gestì con la complicità delle banche e che svuotò completamente. La sua difesa, agguerrita e convinta, si basò completamente sulla tesi che «per fare affari bisognava stare a certe regole e giocare in serie A non era come partecipare a un pranzo di gala». Per quanto la seduta non toccò mai per tutto il tempo l’argomento del rapporto tra padre e figlio risultò per me sorprendentemente risolutiva, perché quel pomeriggio di luglio cambiai lo sguardo su mio padre che, per la prima volta, vidi davanti a me per quello che era: non più un supereroe ma un semplice essere umano di 84 anni. Fino ad allora mio padre mi aveva generato, criticato, distrutto. Quel giorno usciti dallo studio del mio psicologo decisi che non glielo avrei mai più permesso.

Il mio viaggio in treno verso Malpensa con i lanzichenecchi: il racconto della settimana
Il doc girato all’Elba.

Non tornai nello studio del mio psicologo, che nel frattempo si era trasferito nella più centrale via del Torchio, per circa nove anni. Fino al giugno del 2018. Ricordo che in quel periodo stavano girando un documentario su di noi e sulla nostra idea di radio itinerante. La troupe ci aveva seguito fino all’Isola d’Elba dove avevamo progettato una serie di trasmissioni in barca a vela. I pirati, ci chiamavano. Eravamo deejay ma anche giornalisti d’assalto, io avevo 38 anni e Alb 35 e in cuor nostro, finalmente, credevamo di avercela fatta davvero. Per me era come vivere una seconda giovinezza e la naturale evoluzione di quando a 24 anni divenni famoso come “il vocalist dell’anno”, cosa che comportò articoli sui giornali, interviste in programmi televisivi in seconda serata e la trasformazione del mio personaggio, fatto tutto di apparenze, punk e ribellione, in una storia sexy da raccontare agli amici o a qualche cena con i propri familiari. Nel 2004 tornato da un’estate trascorsa a Tenerife al Royal Country Club per un breve periodo mi fidanzai con quattro ragazze contemporaneamente e tutte le porte in città mi si spalancavano davanti. Con Allegra ci mettemmo praticamente insieme durante quella vacanza alle Canarie e una volta tornati in città diventammo la coppia più chiacchierata del momento. Tipo Pete Doherty & Kate Moss. Ma con più droga. C’erano sempre altre ragazze e soprattutto altri ragazzi. Allegra diceva che la sua attrazione per “i cattivi soggetti” era come una droga e che la mia “imprendibilità” la eccitava. Poi le luci della ribalta si spensero e seguirono due aborti, un overdose e gli attacchi di panico di cui sopra. Poi passarono gli anni, arrivò Ofelia e grazie a lei mi gettai a capofitto nella nuova vita che mi veniva offerta. Ripartii da zero e mi illusi che in quella estate del 2018, all’Isola d’Elba, le luci della ribalta che volevo assolutamente riottenere si fossero riaccese per sempre. Evidentemente mi sbagliavo, ancora una volta. Ero diventato una persona molto diversa da quella che ero stata in precedenza. Consapevole, matura, affidabile. Avevo lavorato sodo per ottenere quel poco che avevo e non avevo nessuna intenzione di rinunciarci. In realtà anche quella volta ero semplicemente perso nei sogni su me stesso e nonostante tutto la realtà mi era sfuggita di mano.

Il mio viaggio in treno verso Malpensa con i lanzichenecchi: il racconto della settimana
In Grecia.

Fortunatamente c’era Ofelia e c’era il lavoro al bar a tenermi ancorato a terra. Ma non bastavano. La mia vita attuale nonostante tutto mi opprimeva. Fu per questo che decisi di tornare dal mio strizza, o forse anche solo per dimostrargli quanta strada avevo fatto nei nove anni in cui non ci eravamo visti. Dopo un paio di sedute partii per la Grecia e passai le vacanze bevendo bloody mary nella super-villa da 10 mila euro al mese che la famiglia di Ofelia aveva affittato a Sèrifos. Leggevo romanzi di autori americani o giapponesi, continuamente, per tutto il giorno steso al sole ed ero “totalmente fuori di testa” & “troppo concentrato su me stesso”. Perciò poteva essere semicomprensibile che Ofelia mi  lasciasse e che dopo avermi definito uno «stronzo egoista» filasse via sulla Porsche presa a nolo da sua sorella Cleopatra. E invece no. Paradossalmente quella fu l’estate in cui ci ritrovammo e ci legammo l’uno all’altra ancora di più. «Dio è greco!», urlavo in mezzo alla strada a pochi metri dalla spiaggia che avevamo sotto casa e il giorno in cui finirono le vacanze ricordo che piansi come un bambino. Non volevo più tornare indietro. Fosse stato per noi saremmo rimasti lì in eterno, in quel non-luogo sospeso dalla realtà. Durante l’inverno invece ce ne tornammo a New York. Perché era lì che dovevo stare per capire come evolvermi ancora e perché era lì l’epicentro musicale e culturale della wave che volevo seguire. Affittammo un appartamento sulla Quinta, tra il Flatiron e Union Square, e il giorno di Natale, quando andammo da Whole Foods a fare colazione con addosso i nostri maglioni in shetland e i nostri parka pesanti, ricordo che eravamo così felici che ci sembrava di stare nel posto più bello del mondo.

Il mio viaggio in treno verso Malpensa con i lanzichenecchi: il racconto della settimana
A New York.

Penso a tutto questo mentre in treno scorro le foto sull’iPhone e rivedo parte dei momenti che vi ho raccontato, uno dopo l’altro, con lo slow-motion, mentre sto per partire per le vacanze. Nella testa le immagini si mischiano a un sacco di altri pensieri che vanno dal romanzo che mi sono messo in testa di scrivere al podcast letterario che ho intenzione di produrre l’anno prossimo, agli articoli che devo consegnare ai giornali entro fine mese, alla casa per settembre da prendere in affitto a Camogli. Trovo incredibile che al giorno d’oggi non ci sia una fottuta prima classe sul treno da Milano Centrale a Malpensa e si debba essere costretti a viaggiare in compagnia di un gruppo di Lanzichenecchi con in testa cappellini da baseball con visiere a tesa larga e musica assordante sparata nelle orecchie. Io nonostante il caldo indosso un vestito di lino tutto stazzonato e una camicia leggera e Ofelia, di fronte a me, un vestito a fiori di Lisa Corti, dal sapore vagamente indiano. Quando c’è classe regaz, che ve lo dico a fare. Meno male che ho la mia cartella di cuoio marrone dalla quale non mi separo mai, nemmeno sotto la doccia, dove custodisco gelosamente la mia mazzetta di giornali che comprende il New York Times, anche se non parlo una parola d’inglese, Le Monde, anche se non so il francese, e una mezza dozzina di quotidiani italiani che non nomino perché, a parte ovviamente quelli per cui lavoro, fanno così decisamente cacare che li compro tanto per darmi un tono ma non li apro nemmeno. A parte le pagine della Cultura, ovvio, che poi sono quelle sulle quali scrivo io. Cerco di estraniarmi, tengo tra le mani un’edizione francese di un libro dello scrittore inglese Julian Barnes e sono indeciso se scrivere la fine di questo racconto con la mia stilografica sul mio taccuino Moleskine oppure andare a masturbarmi in bagno, guardando un video porno sull’iPad per poi pulirmi con il fazzoletto che appositamente porto sempre con me nel taschino della giacca. Mentre il treno si ferma a Saronno (non pensavo che un treno diretto a Malpensa potesse passare addirittura per Saronno), mi guardo intorno e non capisco dove vada tutta questa gente, quando intorno a noi il cambiamento climatico sta uccidendo il mondo sempre più velocemente facendo bruciare la Grecia e la Sicilia e devastando Milano con uragani notturni di grandissimo spessore. Ma fatto sta che il treno arriva al Terminal 1 e sono costretto a scendere guardandomi intorno e sorprendendomi del fatto che nessuno di quei giovani in bermuda e sneaker ultracolorate non solo non si sia avvicinato a me per chiedere un autografo o, che so, una foto, ma oltretutto nessuno mai mi abbia rivolto la parola e addirittura fatto un cenno di saluto (Ero forse diventato nuovamente irrilevante?). In fondo per loro non esisto, sono solamente un uomo di mezza età, con la giacca e i pantaloni lunghi, che legge giornali in inglese e libri in francese e che, a un certo punto del viaggio, si è dovuto calare una pastiglia di viagra anche per farsi una sega. Vabbè, sicuramente Portnoy avrebbe apprezzato, il resto è noia avrebbe detto qualcuno, perché in fondo a me di questi quattro ragazzini non me ne frega veramente un cazzo.

Guadagnino e Antonelli, la saga dei necrologi continua con Sinéad O’Connor

La «lotta» è finita. Ora Sinéad O’Connor si trova «senza peso nel buio stellato». E ha «per la prima volta capelli lunghissimi, meravigliosi». È così che il regista Luca Guadagnino e il produttore cinematografico Carlo Antonelli guardano dalla terra il volo della cantante, scomparsa lo scorso mercoledì 26 luglio. E questo loro modo di osservare lo regalano a tutti, perché lo fanno, nero su bianco, tra le pagine dei necrologi dei giornale. Venerdì 28 luglio sul Corriere della sera Guadagnino e Antonelli continuano la «saga» dei pensieri rivolti a noti defunti scomparsi, come già avevano fatto con Silvio Berlusconi, Raffaella Carrà e la Regina Elisabetta.

Il romanzo a puntate per Silvio Berlusconi

L’immediato precedente è il necrologio per Berlusconi, scritto sempre dal regista di Bones and All e dal produttore cinematografico con un passato in Fininvest. In questo caso gli scrittori hanno deciso di dividere il testo in due parti. Il necrologio al Cav recita: «Abbiamo passeggiato tutto il pomeriggio per Milano 2, ripensandoti. Le villette color marrone, i ponticelli, la vecchia sede di molti uffici tuoi, il lago dei cigni che ogni tanto gettavano per te l’ultimo canto – Poi, ai margini, i bagliori dei ceri dietro le finestre di case regalate – E dappertutto, nelle strade vuote, l’eco delle tue risate – Quante risate, troppe».

Guadagnino e Antonelli, la «saga» dei necrologi continua con Sinéad O'Connor
Necrologio di Guadagnino e Antonelli per Silvio Berlusconi

Come in una serie tv, dove tutti attendono con ansia la prossima puntata, anche Guadagnino e Antonelli hanno pensato di creare suspance. Così, la seconda tranche del messaggio per il quattro volte presidente del Consiglio è uscita nel giorno dei funerali. E fa così: «Il giorno dopo ti abbiamo celebrato di nuovo facendo tanti giochi, i tuoi preferiti: il monopoli truccato senza imprevisti o probabilità; lo scarabeo per scrivere paroline eleganti; il karaoke tutte imbellettate come te per far passare ogni pensiero; la seduta spiritica per svegliare il demone nella pancia del Paese. Abbiamo urlato tutta la notte».

Guadagnino e Antonelli, la «saga» dei necrologi continua con Sinéad O'Connor
Necrologio di Guadagnino e Antonelli per Sinéad O’Connor

I pensieri a Juan-Luc Godard, alla regina Elisabetta e a Raffaella Carrà

I necrologi di Guadagnino e Antonelli erano già comparsi in occasione della morte di altre personalità, dal regista Jean-Luc Godard, al musicista Ryuichi Sakamoto alla regina Elisabetta.
«Rosa, celeste, verde pallido, viola, rosso acceso, rosso scuro, blu profondo, blu cobalto, verde pisello, giallo…Tutti i colori del mondo, il mondo che cercava comunque di dominare e che era ancora Impero per Sua Maestà Regina Elisabetta II. Rest in peace, now», queste le parole apparse in ricordo della sovrana sul Corriere della Sera l’8 settembre scorso. Indimenticabile anche l’omaggio a Raffaella Carrà: «Questa volta non serve unirsi alla commozione e alla gratitudine che stanno travolgendo il mondo per la partenza verso universi paillettati (e dove il collo non si spezza per il colpo di frusta all’indietro) che hanno accolto la compagna umanista Raffaella Carrà con trionfi discotropicali adatti al suo indefesso impegno terzomondista ma semplicemente tramandare a voi ciò che lei stessa ci insegnò, con sapienza campesina, afferrandoci il braccio nel retropalco di un festival di Sanremo di vent’anni fa: le corna non si fanno verso l’alto, mai, ma verso il basso, per scaricare a terra la sfortuna. Grazie per questa lezione centrale che mai scorderemo, nei giorni di lotta».

Guadagnino e Antonelli, la «saga» dei necrologi continua con Sinéad O'Connor
Luca Guadagnino (Getty Images)

Milano, il cinema di Fondazione Prada è stato intitolato a Godard

A un anno dalla morte di Jean-Luc Godard, avvenuta il 13 settembre 2022, la Fondazione Prada di Milano ha deciso di intitolare al regista franco-svizzero il proprio cinema.

Il legame di Jean-Luc Godard con Fondazione Prada

Godard ha avuto un rapporto privilegiato con la Fondazione, tanto che per il suo spazio ha concepito e realizzato le sue due uniche installazioni permanenti aperte al pubblico: Le Studio d’Orphée e Accent-soeur. E il cinema della Fondazione gli sta dedicando da febbraio 2023 una retrospettiva che terminerà a dicembre. «Il cinema», ha osservato Miuccia Prada, «è un laboratorio di nuove idee e uno spazio di formazione culturale, per questo abbiamo deciso di dedicare la nostra sala a Jean-Luc Godard. La forza sperimentale e visionaria della sua ricerca è uno stimolo continuo a rinnovare l’impegno della Fondazione nella diffusione dei linguaggi cinematografici e visivi e nell’esplorazione di forme di narrazione emergenti, attivando un luogo di conoscenza del mondo e della vita delle persone».

Il cinema di Fondazione Prada è stato ufficialmente intitolato a Jean-Luc Godard, il regista francese scomparso nel 2022.
Jean-Luc Godard (Getty).

La programmazione del cinema riprenderà a settembre: gli incontri in cartellone

Dal primo settembre riprenderà la programmazione cinematografica che mischia opere del passato e del presente. Werner Herzog e Rebecca Zlotowski saranno due dei protagonisti degli incontri aperti al pubblico che inaugureranno la nuova stagione del Cinema Godard, curata da Paolo Moretti, dove sarà proiettata una selezione dei loro lavori, parti dei quali mai usciti in Italia. Il 16 settembre la regista e sceneggiatrice francese Rebecca Zlotowski sarà al centro di una conversazione sull’insieme della sua opera, dal film d’esordio Belle épine (2010), che ha rivelato Lea Seydoux, al più recente I figli degli altri (Les enfants des autres, 2022). Il giorno dopo Herzog sarà il protagonista di un incontro con il pubblico. In questa occasione presenterà il suo ultimo film The Fire Within: a Requiem for Katia and Maurice Krafft (2022), dedicato ai vulcanologi e cineasti francesi che morirono investiti da una colata lavica in Giappone, e l’anteprima italiana di Theater of Thought (2022), che esplora il mistero del cervello umano tra scoperte neuroscientifiche e tecnologiche e le loro implicazioni etiche e filosofiche.

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