Tre giovani di origine palestinese che si trovavano a Burlington, in Vermont, per un raduno in occasione della festa del Ringraziamento sono stati feriti a colpi di pistola nei pressi dell’Università locale. Lo ha reso noto la polizia, sottolineando che l’attacco potrebbe essere stato un crimine motivato dall’odio. Due dei ragazzi sono in condizioni stabili, mentre il terzo ha riportato «ferite molto più gravi», come ha specificato il capo della polizia di Burlington, Jon Murad. Secondo quanto riportato da Guardian, i giovani colpiti sono Hisham Awartani, Tahseen Ahmed e Kinnan Abdalhamid, iscritti agli atenei Brown, Haverford e Trinity. I tre, tutti ventenni, sono stati affrontati da un uomo bianco con una pistola, identificato e arrestato. Si tratta, fa sapere il dipartimento di polizia del Burlington di Jason J. Eaton, 48 anni. L’uomo è stato arrestato nelle scorse ore sul luogo dell’aggressione, vicino a dove abita, e oggi comparirà in tribunale. «Senza parlare, ha sparato almeno quattro colpi ed è fuggito», ha affermato Murad. «Tutte e tre le vittime sono state colpite». Murad ha aggiunto che i tre uomini sono di origine palestinese: due sono cittadini statunitensi e uno è un residente legale. Due dei ragazzi indossavano la kefiah palestinese bianca e nera.
«Nessuno può guardare a questo incidente e non sospettare che possa essere stato un crimine motivato dall’odio»
«In questo momento di tensione, nessuno può guardare a questo incidente e non sospettare che possa essere stato un crimine motivato dall’odio. Sono già in contatto con i partner federali per prepararsi a questa eventualità, se dovesse essere provata», ha aggiunto Murad. La Casa Bianca ha fatto sapere che il presidente Joe Biden è stato informato della sparatoria e continuerà a ricevere aggiornamenti man mano che le forze dell’ordine raccoglieranno ulteriori informazioni. Il leader della minoranza della Camera degli Stati Uniti, Hakeem Jeffries, ha incoraggiato le persone a «denunciare inequivocabilmente la sorprendente crescita dell’odio anti-arabo e dell’islamofobia in America. Nessuno dovrebbe mai essere preso di mira per la sua etnia o affiliazione religiosa nel nostro Paese: non lasceremo che l’odio vinca», ha scritto il democratico newyorkese su X.
My statement on the violent shooting of Three Palestinian Students in Vermont. pic.twitter.com/Hk4dZORngY
Hamas ha consegnato altri 17 ostaggi alla Croce Rossa: 14 sono israeliani, tra cui nove bambini, e tre thailandesi. Una delle persone liberate, rende noto l’organizzazione palestinese, ha cittadinanza russa. Si tratta, spiega Hamas, di una «risposta agli sforzi del presidente russo Vladimir Putin» e di un «riconoscimento della posizione della Russia a sostegno della causa palestinese». Nell’ambito dell’accordo mediato dal Qatar, Israele si prepara a liberare 39 detenuti. L’Autorità Palestinese per gli Affari dei Prigionieri e degli Ex-Detenuti ha annunciato che sono tutti minorenni, la maggior parte provenienti da Gerusalemme.
Netanyahu: «Noi andiamo fino in fondo, fino alla vittoria»
«Noi andiamo fino in fondo, fino alla vittoria»: lo ha affermato Netanyahu durante un sopralluogo fra le forze armate dislocate nel nord della Striscia di Gaza. «Niente ci fermerà. Siamo convinti di avere la forza, la potenza, la volontà e la determinazione per raggiungere tutti gli obiettivi della guerra, e così faremo». Gli obiettivi, ha ribadito il premier dello Stato ebraico, sono «la distruzione di Hamas, il recupero di tutti i rapiti e la garanzia che Gaza non possa più rappresentare una minaccia per Israele».
Veicoli della croce Rossa in Medio Oriente (Ansa).
Hamas ammette l’uccisione di diversi leader dell’organizzazione
Hamas ha rilasciato un comunicato in cui ammette che Israele ha ucciso diversi leader dell’organizzazione terroristica, tra cui il comandante della divisione regionale dell’organizzazione nel nord della Striscia Ahmed Randour, e il capo della divisione dei lanci di missili Ayman Siam. Nella nota diffusa dall’ala militare di Hamas, le Brigate Az ad-Din al-Qassam, si legge che Randor e Siam, insieme ad altri leader” dell’organizzazione, «sono saliti a posizioni di eroismo e onore nella battaglia di ‘Bol al-Aqsa».
Intercettati missili diretti verso l’aeroporto di Damasco
Israele ha attaccato l’aeroporto internazionale di Damasco, secondo quanto riporta l’agenzia di stampa siriana Sana, citando l’esercito nazionale. Stando a quanto riferito, Israele ha lanciato un attacco missilistico, che ha comportato la chiusura dell’aeroporto internazionale della capitale siriana. La maggior parte dei missili sarebbero stati intercettati.
Le brigate di Hezbollah irachene aderiscono al cessate il fuoco
Le brigate di Hezbollah irachene, una milizia filo-iraniana, hanno fatto sapere di aderire al cessate il fuoco tra Israele e da Hamas: smetteranno di attaccare le basi e i soldati Usa in Iraq fino alla fine della tregua.
Camion di aiuti umanitari nella Striscia di Gaza (Ansa).
Blinken per la quarta volta in Israele dal 7 ottobre e arriva anche Musk
Antony Blinken è atteso in Israele. Lo riporta Haaretz. Sarà la quarta visita del segretario di Stato americanoin Israele nel giro di un mese e mezzo. Anche Elon Musk sarà lunedì 27 novembre nello Stato ebraico, dove vedrà il primo ministro Netanyahu e il presidente Isaac Herzog. Il magnate, criticato per aver elogiato un post contenente retorica antisemita, ha annunciato nei giorni scorsi che X invierà tutto il denaro ricavato dalla pubblicità e dagli abbonamenti associati alla guerra a Gaza agli ospedali in Israele, alla Croce Rossa e Mezzaluna Rossa nella Striscia.
Il secondo gruppo di ostaggi israeliani è stato liberato da Hamas, che ha consegnato 13 persone, tra donne e bambini, alla Croce Rossa che li ha portati al valico di Rafah. Da lì sono passati in Egitto. Lì sono stati presi in consegna dalle forze speciali dell’esercito dello Stato ebraico e dalle forze di sicurezza che li hanno trasferiti in Israele. L’organizzazione palestinese ha liberato anche quattro cittadini thailandesi.
Ritardo scambio di prigionieri, Israele ha minacciato di interrompere la tregua
«Hamas sa che se gli ostaggi non saranno rilasciati entro la mezzanotte, l’esercito riprenderà le operazioni di guerra. E quindi sta cercando di controllare la narrativa», aveva fatto sapere l’Idf dopo il ritardo nelle consegna dei prigionieri, dovuta al fatto che Israele non stesse adempiendo «ai termini dell’accordo relativo all’ingresso di camion umanitari nel nord della Striscia di Gaza e a causa del mancato rispetto degli standard concordati per il rilascio dei prigionieri»
La gioia degli ex detenuti liberati da Israele (Getty Images).
Le autorità israeliane hanno rilasciato a Gerusalemme Est 39 detenuti palestinesi
Alla fine la liberazione è avvenuta e, nell’ambito dell’accordo mediato dal Qatar, le autorità israeliane hanno rilasciato a Gerusalemme Est 39 detenuti palestinesi. La persona più importante che figura nell’elenco dei prigionieri liberati è Israa Jaabis, 38 anni, condannata per aver fatto esplodere una bombola di gas nella sua auto a un posto di blocco nel 2015, ferendo un agente di polizia. Era stata condannata a 11 anni di prigione.
Il riposo dei soldati israeliani durante la tregua (Getty Images).
Hamas ha consegnato la lista degli ostaggi che saranno liberati il 26 novembre
Una nuova lista di ostaggi che dovrebbero essere rilasciati il 26 novembre da Hamas è stata ricevuta dall’ufficio del primo ministro israeliano. Lo riportano i media, spiegando che il governo si è già attivato mettendo al corrente le famiglie delle persone che saranno liberate. Secondo fonti israeliane, in questo caso Hamas non ha separato componenti di stessi nuclei familiari come invece era accaduto nel secondo gruppo. La maggior parte di coloro che saranno rilasciati provengono da una stessa comunità e si prevede inoltre che questo elenco includa anche cittadini americani.
In due giorni di fine settembre l’Azerbaigian ha recuperato di fatto il controllo sul Nagorno Karabakh, territorio popolato da armeni che negli Anni 90 si era separato da Baku e reso indipendente con il nome di Repubblica di Artsakh. Una sorta di Blitzkrieg – con un paio di centinaia di morti da entrambe le parti, e soprattutto la supremazia militare azera che ha fatto desistere in fretta l’avversario – ha risolto in 48 ore una diatriba lunga tre decenni e qualche guerra. Il presidente azero Ilham Aliyev è andato personalmente a Stepanakert, ora Khakendi, a issare la bandiera nazionale. Circa 100 mila cittadini sono fuggiti in Armenia, dove il governo di Nikol Pashinyan ha dovuto incassare la seconda sconfitta nel giro di tre anni, ma nonostante tutto è rimasto in sella, almeno per ora.
Il presidente azero Ilham Aliyev e il presidente turco Recep Tayyip Erdogan (Getty Images).
La pace definitiva tra Baku ed Erevan è resta l’appetito azero per il corridoio di Zanzegur
Questione chiusa? No. Innanzitutto perché non c’è ancora una pace definitiva tra i due Paesi e le trattative sembrano ancora in alto mare, poi perché l’appetito azero non sembra del tutto soddisfatto e rimane sul tavolo il tema del corridoio di Zanzegur: una striscia di terra attraverso la provincia meridionale armena di Syunik che potrebbe collegare l’Azerbaigian alla regione sempre azera di Nakhchivan, che confina a sua volta con la Turchia. Questo il piano di Aliyev sostenuto dal presidente turco Recep Tayyp Erdogan, con Pashinyan a lanciare l’allarme per presunti preparativi di guerra azeri. Qualche giorno fa il primo ministro armeno non solo si è lamentato del fatto che i colloqui di pace vanno avanti lentamente con Aliyev che ha boicottato incontri diretti, ma ha affermato che il lavoro dietro le quinte degli sherpa che dovrebbero condurre presto a risultati concreti in realtà è permeato da un’atmosfera di sfiducia mentre la retorica dei funzionari azeri lascia aperta la prospettiva di una nuova aggressione militare contro Erevan. «Armenia e Azerbaigian», ha detto Pashinyan, «parlano ancora lingue diplomatiche diverse e spesso non ci capiamo». Da parte di Baku il ministero degli Esteri ha segnalato la sua disponibilità a impegnarsi nei negoziati, ma per ora non si è mosso praticamente nulla, anche perché l’Azerbaigian ha rifiutato la mediazione europea guidata dalla Francia e quella degli Stati Uniti, ritenendo le potenze occidentali schierate a favore di Erevan. Aliyev ha tuonato direttamente nei giorni scorsi contro Parigi, che con Erevan ha sempre avuto un rapporto privilegiato, accusandola di destabilizzare tutto il Caucaso: «La Francia sta destabilizzando non solo le sue ex e attuali colonie, ma anche la nostra regione, il Caucaso meridionale, sostenendo le tendenze separatiste e i separatisti. Fornendo armi all’Armenia, Parigi attua una politica militaristica, incoraggia le forze revansciste e getta le basi per l’inizio di una nuova guerra nella nostra regione».
Da sinistra Olaf Scholz, il primo ministro armeno Nikol Pashinyan, Charles Michel ed Emmanuel Macron (Getty Images).
L’Armenia è stata abbandonata da Europa e Usa mentre si rafforza l’asse tra Azerbaigian e Turchia
La realtà, più cruda, è però che le cancellerie europee e Washington hanno altro a cui pensare di questi tempi, tra Ucraina e Medio Oriente: le questioni caucasiche sono sempre state in terzo piano e ciò ha anche favorito la crescita del ruolo della Turchia, che a fianco dell’Azerbaigian ha assunto una posizione dominante nella regione. E in contemporanea la Russia, impegnata nel conflitto con Kyiv e con le frizioni che da tempo dividono Vladimir Putin e Pashinyan, ha tenuto un basso profilo, lasciando un po’ l’Armenia al suo destino. La posizione di Erevan di fronte a Baku è al momento di estremo svantaggio e poco da questo punto di vista hanno prodotto la linea del primo ministro in conflitto con Mosca e la virata filoccidentale, dato che appunto Europa e Stati Uniti non hanno nessun interesse a mettersi contro Azerbaigian e Turchia. È la Realpolitik internazionale che sta affondando l’Armenia, abbandonata da tutti.
«I nostri occhi sono aperti per monitorare e cercare costantemente qualsiasi nave israeliana nel Mar Rosso». Lo ha detto Abdul Malik al-Houthi, leader degli Houthi, il partito-milizia sciita che dal 2014 controlla con la forza gran parte dello Yemen ed è considerato membro di quell’asse della resistenza tanto invocato dall’Iran per fronteggiare «il nemico sionista» insieme con Hezbollah in Libano. Dopo diversi missili e droni armati lanciati dagli Houthi verso Israele in seguito all’inizio della nuova guerra con Hamas, una nave commerciale che solcava il Mar Rosso, la Galaxy Leader, è stata assaltata da un commando del gruppo che l’ha dirottata in un porto yemenita con tutto il suo equipaggio.
La nave mercantile Galaxy Leader (Getty).
Sebbene l’imbarcazione si sia poi rivelata solo parzialmente legata a un imprenditore israeliano, l’accaduto ha reso credibili le minacce del gruppo ribelle filo-iraniano a Israele – nonostante gli oltre 2 mila chilometri di distanza – e aumentato le domande intorno alle sue strategie e ai suoi obiettivi. Le frasi «morte all’America e morte a Israele» fanno parte da tempo degli slogan del gruppo e campeggiano anche sugli stendardi esposti durante grandi manifestazioni e parate militari in Yemen, ma chi sono e cosa vogliono gli Houthi, impegnati dal 2014 in un conflitto civile e regionale?
La cartina dello Yemen e della penisola arabica.
Da dove vengono gli Houthi: movimento fondato nel 1992
Il vero nome della milizia armata è Ansar Allah, i partigiani di Allah, mentre l’appellativo Houthi, utilizzato solo in un secondo momento, si deve alla famiglia che fondò il movimento nel 1992: Hussein al-Houthi, primo leader del gruppo, e suo padre, Badreddine al-Houthi, considerato il capo spirituale gruppo. Gli Houthi appartengono al ramo dell’islam sciita degli Zayditi, movimento che prende il nome da Zayd, figlio del quarto imam sciita Zayn al-Abidin e autore della rivolta di Kufa del 740 dopo Cristo contro il potere omayyade. Si tratta di una corrente moderata dal punto di vista giurisprudenziale, e per alcuni versi anche vicina ai sunniti, ma estremista a livello politico, visto che prevede la messa in discussione dell’autorità anche con la forza, se necessario. Il gruppo yemenita è poi caratterizzato dalla mancanza di una struttura verticistica.
Le Primavere arabe che nel 2011 e lo scontro che sale di tono
Guidato da Hussein al-Houthi negli Anni 90, Ansar Allah acquisì seguaci soprattutto tra i giovani nel Nord-Ovest dello Yemen e diventò in breve tempo un’importante forza nel Paese. Nonostante inizialmente abbia avuto il tacito sostegno del presidente Ali Abdullah Saleh, dopo la riunificazione dello Yemen Ansar Allah fu protagonista di diverse e violente rivolte antigovernative tra il 2004, anno dell’uccisione di Hussein, e il 2010. Sulla scorta delle Primavere arabe che nel 2011 infiammarono il Medio Oriente e il Nord Africa, attecchendo anche in Yemen, Saleh si convinse a lasciare il potere dopo 33 anni in favore del suo vice Abd Rabbo Mansour Hadi. Il cambio al vertice e i successivi negoziati per una nuova costituzione e una transizione politica non accontentarono però gli Houthi che continuarono a riempire le piazze alzando i toni dello scontro.
Houthi pro Palestina (Getty).
L’intervento dell’Arabia Saudita assieme a una coalizione sunnita
A partire dal 2014, dalla propria roccaforte di Saada, il gruppo prese con la forza il controllo di gran parte del Nord e di altri grandi centri abitati, come la capitale Sana’a, costringendo nel 2015 il governo riconosciuto a livello internazionale a scappare e a stabilirsi ad Aden, nel Sud del Paese. L’avanzata del gruppo sciita, nel mezzo di forti tensioni tra Riad e Teheran, spinse nel marzo dello stesso anno l’Arabia Saudita a intervenire a fianco di Hadi insieme a una coalizione formata da altri Paesi sunniti dell’area, come Emirati Arabi, Sudan e Bahrain. L’intervento servì a evitare che l’avanzata Houthi proseguisse e a contendere il controllo del porto di Hodeidah sul Mar Rosso, ma non provocò una rapida sconfitta dei ribelli, come sperato. Anzi, finì per impantanare Riad e i suoi alleati in un conflitto che da oltre otto anni sembra senza via di uscita.
Manifestanti in Yemen con una foto di Abdul Malik al-Houthi (Getty).
Ai ribelli gli armamenti contrabbandati dall’Iran
Lo Yemen divenne il maggior teatro dello scontro tra l’Arabia Saudita e Iran, a causa al sostegno diplomatico di Teheran alla «rivoluzione popolare» Houthi contro il governo appoggiato da Riad. L’Arabia in questa guerra ha potuto contare sugli armamenti forniti dagli Stati Uniti mentre gli Houthi su quelli contrabbandati dall’Iran, nonostante i ribelli abbiano sempre negato il sostegno diretto da parte della Repubblica islamica. In ogni caso, gli Houthi hanno spesso dimostrato le loro capacità militari, in particolare quelle del loro programma missilistico, colpendo l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti con droni e razzi. Gli attacchi hanno preso di mira infrastrutture petrolifere e civili con l’obiettivo di rendere sempre più impopolare il conflitto tra i sauditi e gli emiratini.
Parata militare in Yemen (Getty).
La coalizione nel tempo ha perso qualche pezzo con i ritiri di Egitto e Qatar, mentre le conquiste di tutte le parti in campo si sono cristallizzate. Il Nord e l’Ovest sono tuttora sotto il dominio degli Houthi, con le regioni centrali, dell’Est e del Sud controllate dalla coalizione a guida saudita e dal governo; a Sud è forte anche la presenza dei separatisti del Consiglio di transizione meridionale (Stc) appoggiati dagli Emirati Arabi, mentre in alcune zone dell’Est rimangono sacche di jihadisti di al Qaeda nella Penisola arabica (Aqap), che sono attivi nel Paese almeno dal 2011 e hanno prosperato nel caos del conflitto.
La peggiore crisi umanitaria provocata dall’uomo al mondo
Dal 2015 la guerra ha causato quella che è stata definita la peggiore crisi umanitaria provocata dall’uomo al mondo. Centinaia di migliaia di yemeniti sono stati uccisi e circa quattro milioni di persone hanno lasciato le loro case. Secondo le Nazioni Unite, 21,6 milioni di persone nel Paese necessitano di assistenza umanitaria e l’80 per cento della popolazione fatica a mettere il cibo in tavola. Per risolvere il conflitto da qualche anno sono state tentate diverse iniziative diplomatiche. La più importante ha portato a una tregua mediata dalle Nazioni Unite nell’aprile 2022 che è rimasta in gran parte rispettata anche dopo essere formalmente scaduta in ottobre. In seguito all’accordo di disgelo tra Iran e Arabia Saudita siglato ad aprile grazie alla mediazione cinese, i combattimenti sono diminuiti ancora di intensità e la guerra è sembrata vicina a una fine. L’incontro avvenuto lo stesso mese a Sana’a tra leader sauditi e Houthi è stato il simbolo di questa possibile svolta che però non si è ancora concretizzata.
La guerra dal 2015 sta provocando una crisi umanitaria senza precedenti in Yemen (Getty).
Se l’Arabia Saudita sembra voler uscire in maniera dignitosa dal conflitto ed è più disponibile a trattare, gli Houthi, dopo due decenni di guerra e guerriglia, non appaiono allo stesso modo disposti a fare accordi senza ottenere grandi concessioni. La nuova instabilità in Medio Oriente, dicono diversi analisti, potrebbe essere cavalcata dai ribelli yemeniti proprio per fare pressione su Riad e trattare da una posizione di forza, rischiando però di complicare una volta di più la pace.
Le autorità israeliane hanno annunciato che sabato 24 novembre 2023 libereranno 42 detenuti palestinesi mentre Hamas rilascerà 14 ostaggi tenuti a Gaza. I termini dell’accordo raggiunto prevedono la scarcerazione di tre palestinesi per ogni israeliano liberato, insieme a una tregua di quattro giorni entrata in vigore venerdì 23. Secondo quanto riportato dal portale Ynet, alcuni funzionari dello Stato ebraico hanno reso noto che tra i cittadini israeliani che verranno rilasciati ci sono otto bambini.
Venerdì 23 novembre erano stati liberati 24 israeliani
Il giorno prima Hamas aveva liberato 24 sequestrati, tra cui 13 israeliani, 10 thailandesi e un filippino. La tv pubblica israeliana Kan ha diffuso la lista ufficiale dei nomi: Doron Katz Asher, 34 anni; Aviv Asher, due anni; Raz Asher, quattro anni; Daneil Alloni, 45 anni; Emilia Alloni, sei anni; Keren Monder, 54 anni; Ohad Monder, nove anni; Ruthi Monder, 78 anni; Yaffa Aadar, 85 anni; Margalit Mozes, 77 anni; Hanna Katzir, 77 anni; Adina Moshe, 72 anni; Hanna Perri, 79 anni. Si tratta di tre bambine, un bambino e nove donne.
Biden ringrazia i leader di Qatar, Egitto e Israele
Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha commentato così l’inizio della tregua tra le parti: «La liberazione degli ostaggi a Gaza è solo l’inizio. Ci aspettiamo che altri siano rilasciati domani e dopodomani. Siamo grati per le famiglie che oggi si sono potute riunire con la liberazione degli ostaggi a Gaza dopo quasi 50 giorni». L’inquilino della Casa Bianca ha dunque ringraziato i leader di Qatar, Egitto e Israele per l’accordo che ha consentito la loro liberazione e ribadito che «la soluzione a due Stati in Medio Oriente è ora più importante che mai».
Che quella dell’isolamento della Russia e di Vladimir Putin a livello internazionale sia una favola a cui credono ancora pochi irriducibili, nemmeno all’interno delle cancellerie occidentali ma più che altro nei media troppo ingenui o troppo servizievoli, è sotto gli occhi di chiunque. Nonostante una dozzina di pacchetti sanzionatori da parte dell’Unione Europea e analoghi provvedimenti restrittivi dai Paesi del G7, il tutto diretto dagli Stati Uniti, il Cremlino continua a perseguire la stessa strategia in Ucraina, non mutandola di un millimetro, e ormai dialoga affabilmente con tutto il resto del mondo, dalla Cina all’India, passando per l’Africa, il Grande Sud e naturalmente il Medio Oriente, con la guerra tra Israele e Hamas che sta rischiando di far esplodere un conflitto molto più ampio e pericoloso di quello tra Mosca e Kyiv.
Vladimir Putin al summit online con i Brics (Getty Images).
Nella ridefinizione dei rapporti internazionali, Putin ha trovato un appoggio nella Turchia
La Russia ha dovuto ridefinire i rapporti internazionali a partire da una decina d’anni, dopo la crisi ucraina del 2013-2014 sfociata nel cambio di regime a Kyiv, nell’annessione della Crimea e nella prima guerra del Donbass. E Vladimir Putin ha trovato un punto d’appoggio proprio in un Paese membro della Nato che in Medio Oriente occupa una posizione strategica, la Turchia. Tra il presidente russo e quello turco vi è affinità nell’approccio autocratico al governo e nel pragmatismo che è essenziale nelle relazioni internazionali, così che il Cremlino e Recep Tayyp Erdogan si trovano spesso e volentieri dalla stessa parte del tavolo da buoni partner, e non agli opposti come nemici giurati. Con Stati Uniti e Unione Europea a fare da spettatori in un teatro in cui Ankara suona la propria musica senza badare a quelle che in Occidente sono percepite stonature contro le quali nulla si può.
Il presidente turco Erdogan (Getty Images).
Il conflitto in Ucraina e la guerra tra Israele e Hamas hanno avvicinato Ankara e Mosca
L’invasione dell’Ucraina ha paradossalmente quindi avvicinato ancor di più Mosca ed Ankara, che fa esercizi di ottimo equilibrismo perseguendo i propri interessi nazionali e rifiutando di seguire pedissequamente la linea che Washington ha imposto senza troppi problemi a Bruxelles. Così Erdogan si è fatto un baffo delle sanzioni comminate alla Russia e ha continuato a fare affari con Putin, tanto che lo scambio commerciale tra i due Paesi è salito già dell’80 per cento nel 2022, per un valore di oltre 60 miliardi di dollari, e quest’anno il volume totale sarà ancora maggiore: da una parte c’è il settore trainante dell’energia, dal nucleare al gas e al petrolio, dall’altro quelle delle costruzioni e anche del turismo, facilitato appunto dal fatto che la Turchia è aperta ai turisti russi che non hanno bisogno del visto. La guerra in Israele e nei territori palestinesi ha avvicinato ancor di più i due Paesi, più che altro per il posizionamento di Erdogan che, contrariamente a Stati Uniti ed Europa, schierati sostanzialmente a fianco di Tel Aviv, si è erto a difensore persino di Hamas. Più bilanciato il ruolo di Putin, a cui interessa mantenere buoni rapporti con Israele, mostrando comunque il tradizionale sostegno ai palestinesi. Nonostante altrove, dalla Siria al Caucaso, Russia e Turchia siano su versanti opposti, i due presidenti sono riusciti sempre a preservare, anzi a rafforzare nel corso degli anni, quella che non è certo un’alleanza strategica, ma situazionale, con Putin ed Erdogan a cercare di massimizzare il proprio vantaggio al momento opportuno.
Vladimir Putin con Benjamin Netanyahu a Mosca nel 2020 (Getty Images).
Le linee rosse insuperabili nell’ambito di una collaborazione pragmatica
Sono stati quindi messi da parte incidenti di percorso, come l’abbattimento in Siria nel 2015 di un caccia russo da parte della Turchia, e il Cremlino non si è mai adirato per gli aiuti militari all’Ucraina, nell’ottica appunto di una collaborazione continuativa che si focalizza sulle questioni più redditizie. Erdogan ha cercato di mediare tra Mosca e Kyiv e se il primo accordo sul grano del 2022 è anche farina del suo sacco, poi non è riuscito a far cambiare idea a Putin che lo scorso autunno ha annullato l’intesa. In definitiva ci sono per tutti e due linee rosse che non possono essere superate, ma in questi anni entrambi sono arrivati al massimo di quello che potevano fare l’uno per l’altro. E forse ancora un po’ di spazio per manovre comuni resta.
Un brutale omicidio sta scioccando la Corea del Sud. Una ragazza di 23 anni, originaria della città Busan, ha infatti assassinato una 26enne del posto nella sua abitazione con 100 pugnalate. Ciò che sorprende però è il movente. Secondo quanto hanno diramato le autorità locali, lo avrebbe fatto «per curiosità», in quanto sin da piccola è «ossessionata dai documentari di true crime e dalle serie televisive poliziesche». Convinta nel voler tentare un omicidio, ha studiato per mesi su un’app mobile per trovare la vittima adatta al suo scopo. I fatti risalgono a maggio 2023, ma solo dopo sei mesi il tribunale sudcoreano l’ha condannata all’ergastolo.
Corea del Sud, la 23enne tradita dalle telecamere di videosorveglianza
Jung Yoo-jung, una disoccupata di Busan che viveva assieme al nonno, ha una vera ossessione per romanzi e spettacoli polizieschi. Tanto da spingersi a diventare lei stessa un’assassina. Ha infatti cercato per diversi mesi la potenziale vittima su un’app mobile, arrivando a contattare più di 50 persone. Fingendosi infatti la madre di una giovane studentessa che necessitava di ripetizioni di lingua inglese, ha scelto un’insegnante di 26 anni che viveva nella sua città, la cui identità non è stata rivelata dalla polizia. Nei panni della fantomatica alunna, si è presentata a casa della ragazza. Qui, senza pensarci oltre, l’ha aggredita con 100 coltellate, continuando a infierire sul cadavere anche dopo la morte. Ha poi smembrato il corpo, che ha chiuso in alcune valigie, e raggiunto a bordo di un taxi un parco non distante dall’abitazione per sbarazzarsene.
Il tassista, insospettito dal sangue sulle borse, ha immediatamente chiamato la polizia, che ha raggiunto e fermato Jung. Pur avendo studiato per mesi l’omicidio, come hanno testimoniato le ricerche trovate sul suo smartphone, non si è accorta delle telecamere di sicurezza vicino alla casa della vittima, che l’hanno ripresa all’ingresso e all’uscita. «L’omicidio ha diffuso nella cittadinanza la paura che si possa morire anche senza motivo», ha spiegato il giudice, come riportato dalla Bbc. Durante il processo, i legali di Jung Yoo-jung avevano spiegato che la loro cliente ha agito sotto infermità mentale e allucinazioni. La corte ha però respinto le argomentazioni, sottolineando come l’omicidio sia stato «accuratamente pianificato ed eseguito, un crimine impossibile per chi non è padrone delle propria capacità».
Hamas ha liberato, come da accordi, i primi 13 ostaggi israeliani, che dopo essere stati consegnati alla Croce Rossa sono stati trasportati in Egitto. Dodici dei 13 ostaggi rilasciati, è emerso, sono del kibbutz di Nir Oz. Israele è pronto a liberare in cambio 39 detenuti palestinesi minorenni (15) e donne (24), trasferiti nella prigione di Ofer in Cisgiordania prima del rilascio. Nel frattempo sono state consegnate 30 mila tonnellate di aiuti tramite il valico di Rafah.
Famigliari degli ostaggi israeliani (Getty Images).
Liberati anche 12 prigionieri thailandesi
Hamas ha liberato anche 12 lavoratori thailandesi presi in ostaggio il 7 ottobre. Lo ha annunciato su X Srettha Thavisin, premier della Thailandia. Il rilascio di questi ostaggi non rientra nell’accordo tra Israele e Hamas, ma nasce da un negoziato separato, gestito dall’Iran. L’organizzazione terroristica palestinese in tutto aveva rapito 23 cittadini thailandesi.
Due morti nel tentato passaggio da sud a nord di Gaza
Due palestinesi sono rimasti uccisi dal fuoco di militari israeliani nel tentativo di passare, nelle prime ore della tregua, dal settore meridionale a quello settentrionale della Striscia di Gaza. L’Idf ha ribadito che il cessate il fuoco di quattro giorni non consente il ritorno degli sfollati palestinesi dal sud al nord dell’enclave palestinese. Oltre a due vittime ci sarebbero anche 15 feriti. Poco prima dell’inizio della tregua, l’esercito israeliano ha demolito un tunnel scoperto sotto l’ospedale al-Shifa.
Sirene di allarme a Eilat, forse a causa di un drone
Le sirene di allarme hanno risuonato a Eilat, località turistica nell’estremo sud di Israele, affacciata sul Mar Rosso. I media hanno riferito come causa dell’infiltrazione il volo di un drone ostile. Da tempo gli Houthi yemeniti, alleati dell’Iran, inviano missili o droni contro la città israeliana.
Valico di Rafah (Ansa).
A Rafah centinaia di persone premono per passare il valico
Centinaia di persone si sono riversate al valico di Rafah, sia dal lato egiziano che da quello palestinese, nella speranza di attraversarlo pur senza figurare in alcun elenco preventivo. Tra queste ci sono stranieri ed egiziani rimasti bloccati nella Striscia, che vogliono passare in Egitto, e palestinesi bloccati nel Sinai e in altre città egiziane, che invece vogliono tornare a Gaza. Intanto continuano ad attraversare il valico i camion con gli aiuti, in coordinamento con l’Unrwa e la Mezzaluna Rossa egiziana e palestinese.
La Cina ha risposto alla richiesta dell’Organizzazione mondiale della sanità di ricevere maggiori dettagli sull’epidemia di virus respiratori e polmonite che sta colpendo il Paese, in particolare i bambini. Le autorità sanitarie del Centro per il controllo e la prevenzione delle malattie di Pechino, in videoconferenza con l’Oms, hanno riferito che dietro all’aumento dei casi non ci sarebbe alcun patogeno nuovo o insolito, ma sarebbe invece causato da «una combinazione di agenti patogeni» quali il rinovirus, l’Rsv (virus respiratorio sinciziale) e l’influenza stagionale.
Il picco era atteso dopo la revoca delle restrizioni Covid
Più del 40 per cento dei pazienti, di tutte le età, presenta i sintomi dell’influenza stagionale, principalmente del ceppo H3N2. Alcuni di questi incrementi di casi si sono verificati precocemente rispetto al solito andamento stagionale, è stato riferito, «ma non sono aumenti inattesi data la revoca delle restrizioni Covid, come accaduto anche in altri Paesi». Le autorità sanitarie cinesi hanno ribadito di non aver rilevato «alcun cambiamento nella manifestazione della malattia», e anche a Pechino e Liaoning, i centri più colpiti, «l’aumento delle patologie respiratorie non ha comportato un carico di pazienti superiore alle capacità ospedaliere». Le autorità cinesi hanno invitato la popolazione, sopratutto la più anziana e le persone fragili, a richiedere la regolare vaccinazione antinfluenzale. Dal canto loro, hanno adottato una serie di misure per «migliorare la capacità di diagnosi e trattamento delle comuni infezioni respiratorie nei centri sanitari e negli ospedali comunitari».
Ritenuto colpevole di omicidio volontario per l’uccisione della compagna Reeva Steenkamp, a cui sparò per quattro volte nella sua casa di Pretoria nel giorno di San Valentino del 2013, l’ex atleta paralimpico sudafricano Oscar Pistorius ha ottenuto la libertà condizionata e sarà scarcerato il 5 gennaio 2024.
Reeva Steenkamp e Oscar Pistorius (Getty Images).
Pistorius sparò alla fidanzata quattro volte attraverso la porta del bagno
Pistorius sparò a Steenkamp attraverso la porta del bagno: nel corso del processo ha dichiarato più volte di averla scambiata per un ladro che si era introdotto nella loro abitazione, in quanto la moglie era tornata a sorpresa a casa il giorno di San Valentino per fargli una sorpresa. Secondo l’accusa, invece, Pistorius aveva sparato alla moglie dopo una discussione. Dietro le sbarre dalla fine del 2014, inizialmente condannato a cinque anni di reclusione per omicidio colposo, nel 2017 è stato poi condannato dalla Suprema Corte d’Appello di Johannesburg a 13 anni e sei mesi di prigione per omicidio volontario. E ora gli è stata concessa la libertà condizionata fino a quando non avrà finito di scontare la pena.
Oscar Pistorius (Getty Images).
I successi sportivi dell’ex atleta paralimpico sudafricano
Corridore olimpico con doppia amputazione, Pistorius (che ha 37 anni) correva grazie a particolari protesi in fibra di carbonio, denominate cheetah (ghepardo). Soprannominato Blade Runner (un gioco di parole sulle sue protesi appunto, la sua specialità atletica e il celebre film diretto da Ridley Scott), nel corso della carriera ha vinto sei medaglie d’oro ai Giochi paralimpici tra Atene 2004, Pechino 2008 e Londra 2012 (più un argento e un bronzo). Decimo atleta a competere sia alle Olimpiadi che alle Paralimpiadi, è stato il primo (e finora unico) capace di vincere una medaglia in una competizione iridata per normodotati, ottenendo l’argento con la staffetta 4×400 metri sudafricana ai Mondiali di Taegu 2011 (correndo solo in batteria).
In Francia una campagna di informazione in tv firmata dal ministro per la Transizione ecologica, Christophe Béchu, e diretta contro il consumismo ha fatto infuriare i commercianti nelle attesissime giornate del Black Friday, suscitando anche le critiche del ministro dell’Economia, Bruno Le Maire.
I commercianti: «Lo spot è apologia della decrescita»
Nella campagna il ministro della Transizione ecologica aveva incitato i cittadini a frenare sugli acquisti inutili, preferendo i prodotti d’occasione, quelli riciclati o ricondizionati. In poche ore, si è accesa la rivolta delle organizzazioni imprenditoriali, delle associazioni dei commercianti e delle filiere collegate. Le Pmi hanno attaccato per prime: «È un errore che non ci voleva, un’apologia della decrescita, non capisco come il governo l’abbia fatta passare». I commercianti, in particolare quelli del settore tessile e della moda (che rappresentano il 3 per cento del Pil), hanno ammonito il governo intimando al ministero di «ritirare immediatamente il video».
Il ministro: «Il Black Friday è simbolo dell’iper-consumismo»
A seguito delle polemiche il ministro ha dichiarato: «Non la ritirerò, che lo 0,2 per cento della pubblicità sulle tv sia dedicato a chiedersi se tutti gli acquisti sono utili, visti i temi della transizione ecologica, non mi sembra scriteriato. Tanto più in questa settimana del Black Friday, diventato simbolo di iper-consumo». Applaudito dai Verdi e dagli ecologisti, ma anche dall’ex premier Edouard Philippe, Béchu nella serata di giovedì ha voluto però specificare: «Avremmo dovuto mettere nel mirino, con lo stesso messaggio diretto al commercio reale, le piattaforme di vendita online. È stato un errore ma di rinunciare alla campagna non se ne parla, non ritireremo certo lo spot, finiremo per perdere su tutti i fronti».
Relegato nelle pagine dei commenti, la Repubblica ospita un intervento a quattro mani sulla guerra in Ucraina, che dal 7 ottobre, cioè dopo l’attacco di Hamas a Israele, è diventata una guerra “dimenticata”. Gli autori sono Richard Haass, un diplomatico di peso che ha rivestito ruoli apicali durante e dopo l’amministrazione di Bush figlio, e un professore della Georgetown University di Washington, Charles Kupchan, che nel suo libro più conosciuto, La fine dell’era americana (pubblicato in Italia da Vita e Pensiero, la casa editrice milanese dell’Università Cattolica) teorizzava l’ineluttabile declino dell’impero a stelle e strisce incominciato all’indomani della caduta del Muro.
Richard Haass, diplomatico Usa (Getty).
Altro che Crimea riconquistata e spezzeremo le reni a Mosca
L’articolo è interessante anche per la tecnica antifrastica cui sembra ispirarsi, ossia dire una cosa per affermare esattamente il suo contrario. I due autori, dopo aver fatta propria la tesi che l’Ucraina non dovrebbe rinunciare al ripristino della sua integrità territoriale, inanellano tutta una serie di argomentazioni atte a demolirla. Vediamo di riassumere: Kyiv questa guerra non la potrà mai vincere, la sua strombazzata controffensiva sul campo si è impantanata in una situazione di stallo che l’inverno alle porte renderà ancora più palese, Volodymyr Zelensky invece di pensare a sconfiggere i russi si preoccupi di riorganizzare e difendere l’80 per cento del territorio che è rimasto sotto il suo controllo. Altro che Crimea riconquistata e spezzeremo le reni a Mosca. Qui si tratta di salvare l’esistenza dello Stato ucraino fermando la guerra, mettendolo in sicurezza e procedendo alla sua ricostruzione.
Volodymyr Zelensky con la moglie in visita in America (Getty).
Ci si accontenti di quello che si ha e si è riusciti a salvare
Se fossero italiani, Haass e Kupchan verrebbero inseriti di diritto in cima alla lista dei filo putiniani ed esposti al ludibrio da coloro che senza se e senza ma sono per la vittoria totale di Kyiv sugli invasori fino alla riconquista dell’ultimo centimetro di terra occupato. In realtà i due si fanno corifei della stanchezza dell’Occidente verso un conflitto di cui nemmeno la fornitura delle armi più sofisticate può ribaltare le sorti a favore dell’Ucraina. L’appello finale non è però si fermino i cannoni e si dia spazio alla diplomazia, cosa facilmente confutabile da quanti sostengono a ragione che Vladimir Putin non ha alcuna intenzione di sedersi al tavolo di una ipotetica trattativa. Ma ci si accontenti di quello che si ha e si è riusciti a salvare (un eufemismo, vista la devastazione che ha cancellato città e villaggi ucraini) e l’Occidente si impegni a difenderlo onde dissuadere definitivamente Mosca dalla tentazione di prendersi più di quel 20 per cento che ora controlla.
Messaggio chiaro per Zelensky, tradotto dal diplomatichese
Finale che farà discutere e darà fuoco alle polveri della polemica: «Gli Stati Uniti hanno bisogno di darsi da fare adesso con l’Ucraina per indirizzarsi verso una nuova strategia che rifletta le realtà militari e politiche oggettive. Fare altrimenti significa scommettere in modo sconsiderato sul futuro dell’Ucraina». Tradotto dal diplomatichese: caro Zelensky, si accontenti e finiamola qui il prima possibile.
Nuovi guai per Puff Daddy, citato in giudizio da una donna, Joi Dickerson-Neal, che afferma di essere stata drogata e aggreditasessualmente nel 1991, a New York, dal rapper e produttore statunitense. Vero nome Sean Combs, l’artista ha recentemente risolto con un risarcimento extragiudiziario un’analoga causa per violenza sessuale intentata dalla cantante R&B ed ex compagna Cassandra “Cassie” Ventura. Dickerson-Neal, tra l’altro, un anno prima dei fatti denunciati era apparsa proprio insieme a Puff Daddy, allora “solo” producer, nel video di Straight From The Soul, brano di Finesse e Synquis.
Joi Dickerson-Neal e Puff Daddy nel video di Straight From The Soul.
I fatti sarebbero avvenuti il 3 gennaio 1991: il racconto di Dickerson-Neal
Secondo la denuncia, il 3 gennaio 1991 la presunta vittima «con riluttanza» accettò di incontrare Puff Daddy in un ristorante di Harlem dove lavorava, e qui lui «la spinse a tenergli compagnia mentre si occupava di alcune cose in città». In quei giorni, ha raccontato fu drogata a sua insaputa, «finendo in uno stato fisico in cui non poteva stare in piedi o camminare in modo indipendente». Puff Daddy l’avrebbe così portata nel luogo in cui alloggiava, aggredendola sessualmente. La denunciante ha aggiunto di aver appreso, in seguito, che lui aveva aveva filmato segretamente l’incontro, mostrandolo poi a un certo numero di persone. La donna che ha sporto denuncia ha spiegato che, dopo i fatti, la sua vita è andata in tilt: a causa di problemi di salute mentale, è stata infatti costretta ad abbandonare il college.
Puff Daddy (Getty Images).
La denuncia presentata prima della scadenza dell’Adult Survivor Act
La denuncia è stata presentata prima della scadenza dell’Adult Survivor Act, che per un anno fino a giovedì 23 novembre ha permesso querele civili per fatti penalmente prescritti: proprio in questi giorni denunce per aggressione sessuale sono state inoltrate alla Corte suprema statale a carico dell’attore Jamie Foxx, del cantante dei Guns N’Roses Axl Rose, del sindaco di New York Eric Adams e dell’ex Ceo dei Grammy Neil Portnow. «Questa causa dell’ultimo minuto è un esempio di come una legge fatta con buone intenzioni possa essere usata nel modo sbagliato. La storia della signora Dickerson, vecchia di 32 anni, è inventata e non credibile», ha detto un portavoce di Puff Daddy.
Cinque persone sono rimaste ferite nel corso di un attacco a Dublino, in Irlanda, giovedì 23 novembre intorno alle 13.30, ora locale, a colpi di coltello. Tre delle persone ferite sono dei bambini. Una di loro è in condizioni gravi. Dei due adulti ad essere stati colpiti, una donna è in condizioni serie, mentre un uomo presenterebbe ferite meno gravi. La polizia ha detto di non ritenere che l’attacco sia legato a un movente terroristico e ha affermato che l’unico responsabile è già in stato di arresto.
Preso il responsabile dell’attacco alla scuola
L’attacco è avvenuto nei pressi di una scuola, la Gaelscoil Coláiste Mhuire, a Parnell Square, vicino a O’Connell Street, una delle strade più note di Dublino. Il responsabile dell’attacco alla scuola, un uomo «sulla cinquantina», è stato arrestato. L’arma dell’attacco, un lungo coltello, è stata recuperata. Secondo fonti di polizia citate dall’Irish Times l’attentatore presentava delle ferite che si è auto inflitto. Lo stesso quotidiano sostiene che a fermare il responsabile sarebbero stati i passanti.
Disordini in città, la polizia: «Innescati da fazioni di estrema destra»
Poche ore dopo l’episodio, nelle vicinanze della scuola presa di mira sono scoppiati violenti incidenti e un’auto della polizia è stata data alle fiamme. Il commissario di polizia Drew Harris ha affermato che dietro i disordini c’è una «fazione completamente folle guidata dall’ideologia di estrema destra». Cartelli «Irish Lives Matter» e bandiere irlandesi sono stati portati in piazza da centinaia di manifestanti durante gli scontri scoppiati in questo quartiere dove sono presenti numerosi immigrati. Oltre all’auto della polizia, i manifestanti hanno incendiato anche un autobus e diverse auto utilizzando bottiglie molotov. Presi di mira anche negozi che sono stati saccheggiati in particolare nelle vicinanze di O’Connel Street. Le autorità della capitale sono state costrette a interrompere il trasporto pubblico in alcune zone della città. Ai disordini ha partecipato qualche centinaio di persone. Secondo fonti della polizia la rivolta sarebbe stata innescata da notizie false che si sono diffuse in serata.
Le brigate Ezzedine al-Qassam, braccio armato di Hamas, hanno confermato con un comunicato che la tregua a Gaza mediata dal Qatar «inizierà venerdì mattina alle 7» ore locali, ovvero le 6 in Italia. «Durerà quattro giorni e prevede un arresto completo delle attività militari», afferma l’organizzazione palestinese, spiegando che durante questo periodo «50 prigionieri sionisti donne e bambini sotto i 19 anni saranno rilasciati» in cambio, per ciascuno di loro, del rilascio di «tre prigionieri palestinesi, donne e bambini». L’ufficio del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha confermato di aver ricevuto un elenco preliminare degli ostaggi che dovrebbero essere rilasciati. I criteri con i quali sono stati scelti i primi ostaggi che verranno liberati da Hamas sono «puramente umanitari», ha spiegato il ministero degli Esteri del Qatar. Il primo gruppo di ostaggi, 13 persone, sarà rilasciato alle ore 16 locali.
Soldati israeliani si rilassano giocando a ping pong (Getty Images).
L’esercito israeliano ha arrestato il direttore dell’ospedale al-Shifa
Il direttore dell’ospedale al-Shifa di Gaza «è stato arrestato a seguito delle prove che mostrano che la struttura sotto la sua direzione è servita come comando e centro di controllo di Hamas». Lo ha fatto sapere il portavoce dell’esercito israeliano, aggiungendo che «il tunnel del terrore sotto l’ospedale ha anche usato l’elettricità e le risorse sottratte all’ospedale». Hamas, spiega l’Idf, «ha immagazzinato numerose armi all’interno dell’ospedale e sul terreno dell’ospedale stesso» e, dopo il massacro del 7 ottobre, i terroristi hanno cercato rifugio all’interno della struttura, «alcuni di loro portando con sé ostaggi provenienti da Israele».
L’esercito israeliano mentre consegna aiuti umanitari all’ospedale al-Shifa (Ansa).
Hezbollah, 48 razzi dal Libano verso il nord di Israele
Il gruppo sciita libanese Hezbollah ha dichiarato di aver lanciato oggi 48 razzi contro una base militare nel nord di Israele, in uno dei più grandi attacchi missilistici dall’inizio del fuoco incrociato tra le parti più di sei settimane fa.
L’Idf: «Colpiti oltre 300 obiettivi terroristici di Hamas»
L’esercito israeliano ha colpito «oltre 300 obiettivi terroristici di Hamas» nella Striscia. Lo ha fatto sapere l’Idf: colpiti «centri di comando militari, tunnel, depositi di costruzione d’armi e postazioni di lancio di missili anti tank». Le truppe in particolare hanno operato nelle zone di Jabalia e Beit Hanoun, considerate due roccaforti di Hamas nel nord della Striscia. Sono stati trovati imbocchi di tunnel «sotto una moschea e dentro aree civili».
La devastazione di Beit Hanoun, nel nord della Striscia di Gaza (Getty Images).
Completamente evacuato l’ospedale indonesiano di Gaza
L’ospedale indonesiano di Gaza è stato completamente evacuato. Lo riporta Al Jazeera citando Sarbini Abdul Murad, capo dell’organizzazione indonesiana Medical Emergency Rescue Committee: «L’ospedale è ora vuoto e i nostri volontari sono stati trasferiti in una scuola vicino all’ospedale europeo di Rafah. I medici e i feriti sono stati trasferiti all’ospedale europeo. I nostri volontari si stanno rifugiando in una scuola con migliaia di altre persone».
Cinque persone, tra cui tre bambini, sono state accoltellate da un uomo nel centro di Dublino, la capitale dell’Irlanda. Secondo quanto riferito dalla polizia locale, è stata arrestata una persona e i feriti sono stati trasportati in ospedale. L’Irish Independent ha rivelato che il fatto sarebbe accaduto nei pressi di una scuola intorno alle 13, nella zona nord della città, a Parnell Square. Oltre ai cinque coinvolti, anche il presunto aggressore sarebbe stato medico dopo aver riportato alcune ferite. La polizia della capitale irlandese ha parlato di «incidente grave» e avrebbe escluso il movente terroristico.
Multiple stabbings of young school children in Dublin City Center
A five year old girl is alleged to have passed away due to her injuries
Every single politician , NGO & bought & paid for piece of filth that welcomed these foreign criminals to our shores.
Il Giorno del Ringraziamento – o Thanksgiving Day – è una festa ricca di storia e tradizione, la quale riflette i valori fondamentali della gratitudine, della famiglia e della generosità. La sua importanza negli Stati Uniti va oltre il semplice pranzo: rappresenta un momento in cui le persone si riuniscono per celebrare le benedizioni e fortune ricevute e condividere la gioia con i propri cari. Attraverso le sue tradizioni uniche e le curiosità culinarie, questa festa rimane un elemento fondamentale della cultura americana, e quest’anno la celebrazione è prevista per giovedì 23 novembre.
La storia del Thanksgiving Day dalle origini a oggi
Il Giorno del Ringraziamento viene celebrato ogni quarto giovedì di novembre. Questa giornata, ricca di radici profonde, è caratterizzata da una combinazione di elementi storici, culturali e sociali che la rendono unica e amata da milioni di persone in tutto il paese. L’origine risale al 1621, quando i primi coloni inglesi, noti come Padri Pellegrini, giunti a bordo della Mayflower, festeggiarono il raccolto abbondante insieme ai nativi americani della tribù Wampanoag dopo un difficile primo inverno in America. Questo incontro amichevole tra coloni e nativi è comunemente considerato il primo Thanksgiving della storia. Durante la celebrazione, si narra che coloni e nativi abbiano condiviso cibo, tra cui tacchini, mais, zucca e altri prodotti locali. La pratica di ringraziare per il raccolto abbondante si diffuse tra i coloni e nel corso degli anni divenne una tradizione celebrata in vari modi. Tuttavia, il Giorno del Ringraziamento come lo conosciamo noi oggi fu istituito dal presidente Abraham Lincoln nel 1863, in piena Guerra Civile.
Cittadini travestiti da Padri Pellegrini (GettyImages).
I valori del Giorno del Ringraziamento: generosità e famiglia
Negli Stati Uniti, questo giorno rappresenta un momento in cui le persone si riuniscono per esprimere gratitudine per le proprie fortune. È un’occasione per riflettere sulla propria vita e sulla solidarietà, rafforzando i legami familiari e sociali. La festa sottolinea l’importanza della generosità e dell’aiuto reciproco, valori considerati fondamentali nella cultura americana. Spesso celebrata in famiglia, la festività prevede un grande pranzo in cui il protagonista indiscusso è il tacchino ripieno. La preparazione stessa del pasto costituisce un rituale significativo, con molte famiglie che seguono ricette tramandate di generazione in generazione. Il tacchino viene farcito con un ripieno composto da pane, verdure, erbe e spezie, e solitamente è accompagnato da una salsa dolce a base di mirtilli. Oltre al pranzo, le parate del Thanksgiving Day rappresentano un altro elemento distintivo della festività. La più famosa è probabilmente la Macy’s Thanksgiving Day Parade a New York, lanciata nel 1924. Subito dopo il Thanksgiving, si avvia il Black Friday, che segna l’inizio della stagione degli acquisti natalizi.
Curiosità sul Giorno del Ringraziamento
Tra le particolarità associate a questa festa ci sono alcuni piatti tradizionali che occupano un posto speciale nel cuore degli americani. Uno dei più celebri è sicuramente la pumpkin pie, una torta preparata con zucca, spezie e crema, spesso accompagnata da una porzione di panna montata o gelato. Tuttavia, il grande protagonista indiscusso è il tacchino: si stima che ogni anno negli Stati Uniti vengano consumati circa 46 milioni di tacchini durante il Thanksgiving Day. Inoltre, a sostenere l’idea di istituire la Giornata del Ringraziamento fu la scrittrice Sarah Josepha Hale. Secondo la sua visione, questa festività avrebbe promosso l’unità e rinforzato lo spirito coeso della popolazione dopo una guerra civile. Pertanto, fin dal 1846, Hale si dedicò a convincere i presidenti degli Stati Uniti a rendere questa celebrazione nazionale.
L’Australia nella morsa dei topi. Le spiagge del Queensland sono infatti invase da migliaia di esemplari che si stanno riversando sulle coste dalle zone più interne del Paese. «Sono ovunque», ha spiegato all’agenzia di stampa Afp Derek Lord, residente di Normanton. «Hanno letteralmente distrutto un’automobile durante la notte, rosicchiando tutti i cavi del vano motore». Come testimoniano numerosi video pubblicati sui social X e Facebook, è possibile imbattersi in gruppi di decine e anche centinaia di carcasse nei pressi della riva del mare oppure lungo il corso dei fiumi. «Abbiamo sentito che altri topi stanno arrivando qui dall’entroterra», ha aggiunto Jemma Probert, proprietaria di un charter di pesca nella zona. Con il tempo piovoso che da giorni colpisce il Queensland, gli abitanti temono infatti che il peggio debba ancora arrivare.
Le carcasse degli animali ammassate in spiaggia (Facebook).
Australia, i topi si sono riprodotti grazie al clima favorevole
La popolazione dei topi in Australia ha raggiunto numeri che non si vedevano dal 2011. Una riproduzione, secondo gli esperti, spinta soprattutto dall’eccezionale clima umido dovuto alle costanti piogge e ai buoni raccolti del Queensland. L’aumento esponenziale della popolazione e la conseguente mancanza di cibo per sfamare tutti gli animali avrebbero spinto i roditori a riversarsi in grande numero verso le coste. Tuttavia molti di loro non sopravvivono al lungo viaggio per malattie e fame. Particolarmente colpita anche la città di Karumba, nel Nord dell’Australia, solitamente frequentata da pescatori e amanti del birdwatching. Qui i cittadini temono ripercussioni sul turismo, con un considerevole impatto sull’economia locale.
We think we have a rat problem
Rats have been driven out from inland Queensland, Australia to the coast line.
They are washing up on the beach alive and dead, as if they have been flushed out of some underground pipeline.
Già nel 2021 la Commonwealth Scientific and Industrial Research Organization (Csiro), agenzia australiana responsabile della ricerca scientifica, aveva lanciato un primo allarme. Il ricercatore ed esperto di roditori Steve Henry aveva infatti segnalato la rapida riproduzione dei topi in tutto il Paese. «Riparo e fonti di cibo creano le condizioni perfette affinché prosperino e sopravvivano», aveva spiegato lo studioso. Inoltre si tratta di una specie capace di raggiungere la maturità molto rapidamente. Una singola coppia riproduttiva può generare fino a 500 cuccioli in una singola stagione fra la primavera e l’estate. I topi inoltre impiegano solo sei settimane per raggiungere la piena maturità e il loro periodo di gestazione è di soli 19-21 giorni. «Alcune femmine restano incinte appena dopo aver partorito».
Il sindaco di New York Eric Adams è accusato di aver molestato sessualmente una ex collega nel 1993. Lo riporta The Messenger, citando alcune fonti. La denuncia è stata presentata prima della scadenza dell’Adult Survivor Act, che per un anno fino a giovedì 23 novembre ha permesso querele civili per fatti penalmente prescritti: proprio in questi giorni denunce per aggressione sessuale sono state inoltrate alla Corte suprema statale a carico dell’attore Jamie Foxx e del cantante dei Guns N’Roses Axl Rose. Nella stessa serie rientrano le accuse al rapper Puff Daddy e all’ex Ceo dei Grammy Neil Portnow.
Eric Adams (Getty Images).
Adams è indagato dall’Fbi per corruzione in campagna elettorale
L’accusatrice, rimasta ignota, ha citato in giudizio l’ex presidente del borough di Brooklyn e agente della polizia di New York come imputato insieme all’ufficio transiti della NYPD e alla Guardian Association: la presunta vittima ha chiesto un risarcimento da almeno 5 milioni di dollari. «Il sindaco non sa chi sia questa persona. Se si sono mai incontrati, non lo ricorda», ha dichiarato il portavoce di Adams. Per il primo cittadino della Grande Mela l’accusa è un nuovo colpo dopo le polemiche per le indagine dell’Fbi per corruzione durante la sua campagna elettorale.