Se in Austria si votasse domani l’estrema destra della Fpö vincerebbe facile, con i sondaggi che la danno oggi intorno al 30 per cento, oltre 12 punti in più rispetto alle elezioni del 2019. I conservatori moderati della Övp guidati dall’attuale cancelliere Karl Nehammer dimezzerebbero quasi i voti, passando da quasi il 38 per cento al 20, mentre i socialdemocratici della Spö guadagnerebbero qualcosina, attestandosi al 25 per cento. A seguire i partiti minori: i Verdi – che al momento governano con la Övp – perderebbero circa la metà dei consensi, dal 9 al 4,5 per cento, e i liberali del Neos si attesterebbero intorno al 10 per cento. Infine i comunisti, che aspirano a entrare al Nationalrat, ma che rimangono sotto la soglia d’ingresso al 4 per cento.
Herbert Kickl potrebbe formare un nuovo governo con i conservatori della Övp
Fin i qui i numeri, soggetti a variazioni che saranno probabilmente minime sino al voto, previsto fra meno di 12 mesi. Resta dunque alta la probabilità che la Fpö trainata da Herbert Kickl abbia la possibilità di formare il prossimo governo austriaco, scegliendosi il partner, e cioè la Övp, in una riedizione della coalizione che dall’inizio degli Anni Duemila ha retto le sorti del Paese varie volte: dal 2000 al 2007 con il cancelliere popolare Wolfgang Schüssel e dal 2017 al 2019 sempre con un leader della Övp alla guida, ossia Sebastian Kurz. Solo che questa volta sulla poltrona alla cancelleria siederebbe il capo della Fpö. L’ipotesi non è solo di scuola, ma la più realistica, anche se alle elezioni manca comunque molto tempo, i sondaggi possono cambiare, a seconda della cornice nazionale e internazionale in movimento, senza considerare altre varianti, come quella, meno probabile, che la destra abbracci la socialdemocrazia, cosa che in realtà non sarebbe nemmeno nuova, visto che Spö e Fpö governarono a braccetto a metà degli Anni 80.
Così l’erede di Haider ha conquistato gli austriaci
È un dato di fatto che il partito di Kickl è in gran spolvero e l’elettorato austriaco sembra essere stufo dell’alleanza tra popolari e verdi, che penalizza entrambi e soprattutto la formazione del cancelliere. La Spö non ha la forza di un tempo e i partiti più piccoli sono comunque ininfluenti. L’Austria già a destra, sta scivolando verso l’estrema destra, tirata proprio da Kickl. Il leader della Fpö, erede di Jörg Haider, il governatore populista della Carinzia che portò il partito al governo con Schüssel, e anche di Heinz Christian Strache, il vice cancelliere di Kurz poi sprofondato a causa dell’Ibizagate, è il politico più popolare nel Paese. Secondo un recente sondaggio pubblicato dal quotidiano progressista Standard Herbert Kickl è il cancelliere preferito dagli austriaci, davanti al socialdemocratico Andreas Babler e all’attuale capo del governo Nehammer. I motivi dell’ascesa della Fpö e del suo capo sono presto detti: si va dagli strascichi della pandemia – l’estrema destra è scesa in piazza contro le restrizioni e i vaccini – agli effetti della guerra in Ucraina che hanno messo in crisi il governo sia dal punto di vista politico che economico, mettendo le ali al partito nazionalpopulista che ha assunto una linea polarizzante raccogliendo il consenso di ormai un terzo degli elettori.
L’onda sovranista europea: dall’Italia all’Olanda fino al boom dell’AfD in Germania
Un discorso che vale per gli altri movimenti sovranisti in Europa, che viaggiano col vento in poppa verso il governo come accaduto in Italia e più recentemente in Olanda, o che macinano consensi come l’Afd in Germania. Proprio l’Austria insegna però che gli sbarramenti ideologici cadono, magari facendo gran rumore, come quando a Vienna nel 2000 l’Unione Europea inviò una missione diplomatica a sincerarsi che Haider non fosse un nipotino di Hitler. Passato questo, la Fpö ha acquisito piena legittimità. La possibilità di Herbert Kickl cancelliere a Vienna è ora reale: primo appuntamento per verificare il vero potenziale sarà quello delle elezioni europee di giugno 2024, poi in autunno il voto decisivo.
Israele ha allargato la manovra terrestre al settore sud di Gaza, poco a nord di Khan Yunis: «In quell’area ci sono mezzi blindati che hanno iniziato ad attaccare obiettivi di Hamas», spiega la radio militare. Secondo l’emittente, l’esercito intende estendere le proprie attività di terra, dopo che nei giorni scorsi ha fatto ricorso ripetutamente a bombardamenti dell’artiglieria, della aviazione e della marina. E per questo ha ordinato l’evacuazione di Khan Yunis. Intanto, il nuovo bilancio delle vittime a Gaza dal 7 ottobre fornito da Hamas è di 15.523 morti. E si contano anche 41.316 feriti. Lo ha comunicato il portavoce del ministero della salute della Striscia, Ashraf Al-Qidreh.
Hamas attacca, sirene di allarme in tutto Israele
Le sirene di allarme che avvertono di lanci di razzi in arrivo hanno risuonato a ripetizione nella città israeliana di Sderot e nei kibbutz che si trovano al confine con la Striscia di Gaza, come quelli di Kissufim, Ibim e Nir Am. Gli abitanti hanno avuto ordine di raggiungere i rifugi: le comunità vicine al confine, comunque, sono state in gran parte evacuate dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre. Sirene di allarme anche nella città di Zar’it, al confine con il Libano.
Razzo dal Libano, soldati israeliani feriti in Alta Galilea
Nel corso della giornata presso il villaggio di Beit Hillel, a breve distanza dal confine con il Libano, c’è stata un’esplosione in seguito al lancio di colpi di mortaio o di un razzo anticarro: 11 persone ferite, tra cui quattro soldati israeliani. In precedenza altre esplosioni erano state segnalate sulle alture del Golan, per il lancio di un razzo dalla Siria. L’artiglieria israeliana aveva poi sparato verso la località da dove era partito l’attacco.
L’Idf: «Scoperti più di 800 tunnel di Hamas nella Striscia»
Le forze di difesa israeliane hanno reso noto di aver scoperto più di 800 tunnel nella Striscia di Gaza dall’inizio dell’offensiva di terra. Circa 500 sarebbero già stati distrutti, facendoli esplodere o sigillandoli. Secondo l’Idf, molti tunnel collegano le «risorse strategiche» di Hamas.
IDF troops eliminated 500 of the 800+ exposed shafts to Hamas’ underground tunnels located near or inside kindergartens, schools, playgrounds and mosques.
To be clear, these places aren’t childproof, but rather teeming with terrorism.
L’Onu: «Sfollata il 75 per cento della popolazione di Gaza»
Circa 1,8 milioni di persone, pari al 75 per cento della popolazione della Striscia di Gaza, sono sfollati interni: lo dichiara l’agenzia dell’Onu per il coordinamento degli affari umanitari (Ocha).
Tornare a casa in Sicilia e Sardegna oppure andarci da turisti nel periodo di Natale e Capodanno rappresenterà un vero salasso. Assoutenti ha monitorato l’andamento dei prezzi, rilevando che i biglietti andata e ritorno hanno ampiamente superato i 500 euro. Alcuni esempi? Un classe economy Bologna-Palermo con partenza il 23 dicembre e ritorno 7 gennaio costa 521 euro. Da Torino a Catania, nelle stesse date, servono almeno 446 euro. Sono 441 euro quelli necessari per volare da Pisa a Catania e 439 il prezzo di un andata/ritorno da Verona per Palermo. Sopra quota 400 euro anche il volo Genova-Catania. Prezzi che non considerano i costi aggiuntivi per il bagaglio a mano o la scelta del posto a sedere: tutti balzelli che fanno salire ulteriormente il costo di un volo. «Spostarsi in Italia durante le festività è sempre più un salasso che svuota le tasche dei cittadini. Un’emergenza che si ripresenta ogni anno e che sembra senza soluzione», ha dichiarato Furio Truzzi, presidente di Assoutenti.
Il generale Roberto Vannacci sarà trasferito a Roma, dove assumerà l’incarico di capo di Stato maggiore del Comando delle forze operative terrestri (Comfoter). A dare la notizia La Gazzetta di Lucca, città dove vive il militare finito in estate sulle prime pagine dei giornali per le posizioni espresse nel libro (autopubblicato) Il mondo al contrario, che gli sono costate – di fatto – l’incarico al comando dell’Istituto geografico militare.
La soddisfazione del generale: «Una nomina in linea con il mio grado»
«Una nomina in linea con il mio grado, con la mia funzione e con la mia esperienza», ha dichiarato Vannacci all’Adnkronos. «Un incarico prestigioso che assumerò con grande determinazione e passione e che mi vedrà nella Capitale dove presterò servizio. Un comando che si occupa della validazione delle unità che devono partire con ruoli operativi all’estero, della loro preparazione, del loro addestramento». Parlando de Il mondo al contrario, Vannacci ha detto di essere «assolutamente convinto di non aver violato alcuna norma né legale né disciplinare» e di non aver temuto per la carriera «nonostante le polemiche». Infatti, se potesse tornare indietro, lo riscriverebbe di nuovo: «Farei la prima chiamata a Matteo Pucciarelli e Aldo Cazzullo per ripetere l’operazione di marketing che ha portato tanto successo al mio libro in Italia e con quattro contratti firmati con case editrici all’estero che lo pubblicheranno in Germania, Romania, Spagna e Slovenia», ha ironizzato.
Vannacci: «Avrò alle mie dipendenze tre generali di brigata e una serie di colonnelli»
Il Comfoter è responsabile delle problematiche per la generazione delle forze per le operazioni, l’addestramento, l’approntamento, la simulazione, la validazione, certificazione, standardizzazione delle unità operative e per le informazioni tattiche. «Sarò il capo di tutto lo staff e coadiuverò il comandante in capo che è attualmente il generale di corpo d’armata Salvatore Camporeale. Io sono un grado inferiore rispetto a lui in quanto generale di divisione. Io avrò alle mie dipendenze tre generali di brigata e tutta una serie di colonnelli», ha detto Vannacci al Corriere della Sera.
Il ministero della Difesa precisa: non si tratta di una promozione
Fonti del ministero della Difesa, raggiunte sempre da Adnkronos, hanno però precisato che Vannacci assumerà il nuovo ruolo dopo un lungo periodo di affiancamento e che, in ogni caso, non si tratta di una promozione ma solo di un incarico adeguato al suo ruolo, senza alcuna relazione di comando sulle forze operative terrestri, che dipendono dal comandante o dal vice comandante da cui a sua volta dipende anche Vannacci.
«Tajani sbaglia» a dire che «non si alleerà mai con Afd e con Marine Le Pen». Così il leader della Lega, Matteo Salvini, a margine della convention Free Europe organizzata dal gruppo Identità e Democrazia alla Fortezza da Basso di Firenze. «Mi spiacerebbe che qualcuno di centrodestra preferisse la sinistra ad alleati di centrodestra. Io posso dire che chi sceglierà la Lega in Europa sceglie l’alternativa a sinistra. Quindi rinnovo l’invito al centrodestra in Italia a essere unito in Europa, poi non posso imporre niente controvoglia a nessuno», ha aggiunto il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti. Che poi attacca il commissari Ue Paolo Gentiloni, «che già prepara il rinnovo dell’inciucio popolari-socialisti».
«Oggi presentiamo l’Europa dei diritti contro l’Europa dei tagli e dei Soros»
«Oggi presentiamo agli italiani e a tutti gli europei un’idea di Europa diversa. L’Europa dei diritti contro l’Europa dei tagli, dei Soros. La Lega offre questa possibilità agli italiani e agli europei. Se qualcuno preferisce continuare a inciuciare con i socialisti lo faccia. Non posso mica impedirglielo», ha affermato il leader del Carroccio. «Oggi c’è il primo partito di Francia, di Olanda, di Austria, del Belgio, il secondo partito di Germania e un partito di governo italiano. Non siamo un cantiere nero, anzi c’è un’onda blu. I dati ci dicono che oggi siamo la quarta forza politica al Parlamento europeo. L’obiettivo è di arrivare ad essere la terza, ed essere determinanti. Offriamo il nostro contributo», ha aggiunto il vicepremier.
La frecciata alla sinistra: «C’è chi ancora non è riuscito a condannare le stragi di Hamas»
Salvini ha inoltre detto la sua sul conflitto in corso in Medio Oriente lanciando una frecciata alla sinistra: «C’è qualcuno che ancora non è riuscito a condannare le stragi di Hamas. Oggi qui a Firenze, da questo incontro, uscirà una condanna chiara di ogni tipo di estremismo, di fanatismo, di terrorismo e di violenza, e per quello che riguarda me personalmente il pieno sostegno al popolo di Israele che ha diritto di esistere ed è una democrazia solidale, sviluppata, avanzata, per molti punti di vista un modello. Mi stupisce che a sinistra questo diritto di Israele non riesca proprio semanticamente ad articolarlo come un discorso».
Il conduttore e direttore artistico Amadeus ha svelato al Tg1 delle 13.30 l’elenco dei big in gara al prossimo Festival di Sanremo. Saranno 27, a cui si aggiungeranno poi gli artisti che saliranno sul podio nella finale di Sanremo Giovani. «Sono realmente i miei super ospiti, i reali protagonisti del Festival. Non vedo l’ora che sia il 6 febbraio per farli ascoltare a tutti», ha detto Amadeus prima dell’annuncio, mostrando in anteprima la scenografia del teatro Ariston.
Amadeus ha modificato all’ultimo il regolamento, portando a 30 gli artisti in gara
Ecco l’elenco dei 27 big in gara a Sanremo 2024: Fiorella Mannoia, Geolier, Dargen D’Amico, Emma, Fred De Palma, Angelina Mango, La Sad, Diodato, Il Tre, Renga & Nek, Sangiovanni, Alfa, Il Volo, Alessandra Amoroso, Gazzelle, Negramaro, Irama, Rose Villain, Mahmood, Loredana Bertè, The Kolors, Big Mama, Ghali, Annalisa, Mr Rain, Maninni, Ricchi & Poveri. Modificando all’ultim’ora il regolamento, Amadeus ha portato a 30 (dovevano essere 26 in tutto) il totale degli artisti che saranno in gara al Festival.
Amadeus: «Scelta difficile, mi auguro di ripetere i risultati delle ultime edizioni»
Amadeus aveva spiegato che il numero delle candidature per l’edizione 2024 è stata da record, con oltre 400 proposte ricevute, di cui 50 ritenute papabili dal direttore artistico. «La scelta è sempre difficile, ma mi auguro di ripetere i risultati delle ultime edizioni che hanno visto per mesi i brani di Sanremo in testa alle classifiche di ascolto e di vendita», ha commentato in una nota. Nel 2023 i big in gara erano stati 22.
La denuncia arriva direttamente Human Rights Watch, una delle principali organizzazioni che si occupano della tutela dei diritti umani nel mondo. E non è nemmeno una novità. Il governo della Repubblica popolare cinese sta proseguendo nel proprio progetto di cosiddetta “sinizzazione” delle minoranze etniche, in particolare di religione musulmana, iniziato all’incirca nel 2014 con l’era Xi Jinping e la persecuzione degli uiguri, una popolazione di circa 11 milioni di persone che abita la regione autonoma dello Xinjiang, nel Nord-Ovest del Paese, e che oggi si riverbera in una sistematica distruzione, chiusura o riconversione architettonica e strutturale di almeno un migliaio di moschee presenti in altre due regioni autonome del Nord, cioè Ningxia e Gansu. L’azione delle autorità locali, che secondo Hrw va avanti almeno dal 2018, è incentrata sulla limitazione radicale della pratica e dell’espressione della religione islamica tramite una sorta di adeguamento alla attuale società cinese. All’interno del suo rapporto, Hrw ha pubblicato anche una serie di fotografie che mostrano come l’intervento delle autorità abbia rimosso alcune peculiarità tradizionalmente appartenenti alle moschee, come minareti e cupole, o ne abbia distrutto direttamente le sale da preghiera.
La religione musulmana è considerata minacciosa
Secondo le parole di Elaine Pearson, direttrice della sezione asiatica di Hrw, la pratica di sinizzazione portata avanti su volontà del Partito comunista cinese mira a una «repressione della pratica religiosa musulmana, poiché considerata un’entità minacciosa che necessita di essere controllata». In un documento datato aprile 2016, nell’ambito della Conferenza nazionale sul lavoro religioso, il segretario generale del Pcc Xi Jinping ha espressamente presentato quelli che sarebbero stati i nuovi scopi e le direttive del partito in materia di minoranze religiose, secolarizzazione e salvaguardia della coesione nazionale.
L’obiettivo è un adattamento alla società socialista
Nel corso del suo intervento, ha sottolineato la necessità di «sviluppare una teoria religiosa di tipo socialista con caratteristiche cinesi» che sia in grado di «guidare la religione verso un adattamento alla società socialista». Per compiere questo obiettivo sarebbe poi stato fondamentale «unire le grandi masse religiose del Paese a quelle non religiose», con il fine ultimo del bene più importante «dell’unità sociale» per la realizzazione del socialismo con caratteristiche cinesi. Un concetto fondamentale in Cina, che corrisponde a uno stato di pace, armonia e stabilità interno alla nazione.
Su 1,5 miliardi di persone ci sono 55 gruppi etnici minoritari
La tendenza a “cinesizzare” o adattare tutto ciò che può essere motivo di contrasto a questa armonia è stato un concetto spesso ripreso da molti sinologhi nello studiare la politica di centralizzazione e rigido controllo portata avanti dal Pcc. La Repubblica popolare vanta infatti una composizione etnica invidiabile per uno Stato intento a edificare un grande profilo di potenza capaci di affermarsi nel sistema internazionale. Circa il 92 per cento della popolazione cinese infatti è di etnia han e abita la parte orientale del Paese, più prossima alle coste e alle megalopoli. A fronte di una popolazione complessiva di circa 1,5 miliardi di persone però, la presenza di 55 gruppi etnici minoritari non è di certo un numero irrisorio e insignificante. Uno studio condotto da Pew Research Center nel 2009 ha infatti quantificato il numero di musulmani in Cina in circa 21 milioni, di cui 11 presenti solo nello Xinjiang, dove costituiscono la componente etnica maggioritaria.
Pechino vuole però intensificare i rapporti col mondo arabo
In virtù di queste politiche persecutorie messe in atto da Pechino, è utile capire come la Cina sarà in grado di conciliare queste violazioni dei diritti umani dei musulmani con il tentativo di avvicinamento e intensificazione dei rapporti col mondo arabo-musulmano. Gli apparati diplomatici cinesi si sono infatti impegnati molto negli ultimi mesi per aumentare la propria influenza nel mondo arabo non solo da un punto di vista economico e per quanto riguarda il progetto della Nuova via della seta, ma anche e soprattutto per proporsi come potenza conciliatrice alternativa alla guida statunitense, arrivando a favorire il difficile riavvicinamento diplomatico fra Iran e Arabia Saudita nel marzo del 2023 ed elaborando un piano in tre punti per risolvere la questione palestinese quando nel giugno del 2023 il presidente dell’Anp Mahmoud Abbas è stato ricevuto a Pechino da Xi Jinping.
Xi da subito critico con la reazione di Israele
Nell’ambito della guerra fra Israele e Hamas, nonostante una breve parentesi di ambiguità iniziale, Pechino si è infatti schierata apertamente con i Paesi arabi criticando l’eccesso di autodifesa messo in pratica da Israele nella striscia di Gaza. Lo stesso conflitto ha mostrato però l’importanza del credo religioso per i Paesi arabi come collante, in grado di influenzarne l’unità e l’orientamento diplomatico e delle alleanze internazionali. Un elemento che la Cina non potrà sicuramente permettersi di ignorare.
Se non fosse per la concorrenza del sorprendente esordio alla regia di Paola Cortellesi con C’è ancora domani, Napoleon avrebbe forse esordito al primo posto del box office italiano. Uscito il 23 novembre perché potesse riempire le sale cinematografiche nelle settimane che solitamente decisive per gli incassi dell’intera annata, il film di Ridley Scott con le superstar Joaquin Phoenix e Vanessa Kirby non sta però convincendo pienamente la critica, in particolare in Francia, dove ha un certo peso l’inaccuratezza con cui la sceneggiatura di David Scarpa restituisce diversi passaggi storici e dove non mancano nemmeno le accuse di sentimenti anti-francesi nei confronti del cineasta britannico. Per il quale, del resto, la fedeltà storica non è mai dovuta, come era già accaduto con Il Gladiatore e altri suoi blockbuster. A chi ha mosso questa osservazione, lui ha risposto lapidario: «Fatti una vita».
Un colpo di cannone in direzione delle Piramidi: poco credibile
Lo ha fatto quando gli è stato chiesto se avesse visto un video che circola da luglio su TikTok, pubblicato da Dan Snow, autore di un volume sulla battaglia di Waterloo, che ha fatto notare diverse inesattezze storiche contenute nel trailer: innanzitutto non è vero che Bonaparte arrivava dal nulla («suo padre era un aristocratico») e che ha conquistato «tutto» (per esempio non la Gran Bretagna, sottolinea Snow). In più, nel film Napoleone è presente quando la regina Maria Antonietta viene decapitata, cosa che non corrisponde al vero (nemmeno la lunghezza dei capelli di lei è realistica), come non è realistica la scena in cui il celebre condottiero spara un colpo di cannone in direzione delle Piramidi nel corso di una delle sue più celebri battaglie. Dan Snow, tutto sommato, l’ha presa bene: «Non l’ha mai fatto! Ma sembra figo».
Ricatti emotivi e dichiarazioni d’amore troppo minacciose
Altri ancora hanno osservato le scelte di casting: nella vita reale, Vanessa Kirby ha 14 anni meno di Joaquin Phoenix, mentre sappiamo che Giuseppina aveva sei anni più di Napoleone. Inoltre i due attori mantengono il proprio accento, ossia Phoenix quello statunitense e Kirby quello inglese. Snow non è l’unico esperto ad aver commentato il film: su The Conversation Katherine Astbury dell’Università di Warwick ha parlato delle lettere dell’imperatore alla sua amata definendole cariche di ricatti emotivi e di ripetute dichiarazioni d’amore che «sembrano minacciose piuttosto che sdolcinate».
«Colpisce è la totale omissione della schiavitù»
Perciò, se nel film lui dà uno schiaffo a lei, non è solo perché in Giuseppina il regista vede – lo ha dichiarato – un’adultera che portò Bonaparte a voler distruggere se stesso e lei insieme, ma anche perché sul set i due attori hanno lavorato così bene insieme da decidere di autorizzarsi vicendevolmente (lo ha riferito la stessa Kirby) ad aggiungere degli elementi non previsti nella sceneggiatura di Scarpa, ma funzionali all’idea che Scott si è fatto di Bonaparte. Altri ancora, come la testata Mediapart, hanno scritto di come «al di là delle inesattezze e delle invenzioni storiche, ciò che colpisce è la totale omissione della schiavitù».
Scott ha preferito raccontare gli amori piuttosto che la politica
«Finitela! Non è un documentario, è un film», hanno replicato puntualmente molti fan del cineasta, dimostrando di non sapere che anche i documentari sono film (la distinzione andrebbe fatta semmai tra finzione e cinema del reale). Ma perché il Napoleon di Scott è in grado di far inalberare così tante persone? Per Liberation il problema è che «non offre alcun punto di vista, né sull’uomo, né sul mito», mentre per Le Monde Ridley Scott ha preferito raccontare gli amori di Napoleone piuttosto che la sua vita politica (e dunque il lavoro di fantasia si può giustificare più facilmente).
«Uno storico deve rimanere fuori dalla porta quando parla un regista»
A Fahrenheit, la trasmissione di Radio3, è intervenuto Luigi Mascilli Migliorini, uno dei maggiori studiosi dell’età napoleonica e della Restaurazione in Europa, docente di Storia moderna all’Orientale di Napoli. Ha raccontato come al termine di una proiezione del film diverse persone gli abbiano chiesto se quella dello schiaffo e altre sequenze siano da ritenere credibili: difficile stabilirlo, specialmente quando si tratta di episodi della sfera privata, ma «tutti abbiamo diritto a costruirci il nostro Napoleone», ha concluso il professore, che ha detto anche: «Uno storico deve rimanere fuori dalla porta quando parla un regista».
Cosa può darci nel 2023 l’ennesimo ritratto soggettivo di Napoleone?
La domanda che dovremmo porci è piuttosto: cosa cerchiamo in un film come Napoleon? E ancora: cosa può darci nel 2023 un ritratto soggettivo di una figura storica che ha già avuto oltre mille rappresentazioni tra cinema e televisione? Forse dovremmo essere disposti ad accoglierne i limiti, a contenere le aspettative. Tra tanti film su questa figura amata e controversa non sarà quello di Scott a rimanere nella storia. Di certo non quella del cinema.
Alcuni attivisti ambientalisti di Extinction Rebellion hanno interrotto la messa in Duomo a Torino, negli attimi precedenti l’omelia, per leggere passi dell’enciclica Laudato sì’ e dell’esortazione apostolica Laudate Deum di papa Francesco, con cui il pontefice «invita apertamente la popolazione a pretendere il cambiamento necessario» e che Bergoglio «ha inviato a Dubai, alla Cop28, per esortare i governi a smettere di finanziare guerre e devastazioni ambientali e prendere invece accordi “efficienti, vincolanti e facilmente monitorabili”».
«Trent’anni di inadempienze politiche ed eccoci qui, a contare i danni»
Gli attivisti si sono alzati in piedi uno alla volta e hanno letto a voce alta i due scritti con i quali papa Francesco si è espresso con forza sulla gravità della crisi ecologica e climatica. «Sono passati trent’anni di Conferenze internazionali sul Clima, di negazionisti al governo e accordi non vincolanti. Trent’anni di inadempienze politiche ed eccoci qui, a contare i danni. L’alluvione in Emilia, le ondate di calore e gli incendi della scorsa estate, le devastanti grandinate in Veneto e Lombardia. E l’ultimo tragico episodio: l’alluvione in Toscana», scrivono gli attivisti su Facebook. «Raccogliendo l’invito di Papa Francesco, Extinction Rebellion porta oggi il messaggio sull’altare di una delle principali chiese di Torino. Per rompere anche questo silenzio. Per il futuro di ognuna di noi e per quello di chi verrà».
Lo psichiatra e criminologo Alessandro Meluzzi è stato ricoverato d’urgenza e sottoposto a un delicato intervento chirurgico dopo un malore accusato nel suo studio di Rimini. Meluzzi. Sarebbe stato colpito da un’ischemia cerebrale causata dalla alta pressione sanguigna.
L’intervento chirurgico al “Bufalini” di Cesena è durato diverse ore
Meluzzi, che si è sentito male attorno alle 15 di sabato 2 dicembre, è stato trasportato in ambulanza all’ospedale “Infermi” di Rimini e da lì poi trasferito d’urgenza al “Bufalini” di Cesena, data la gravità della situazione. Qui è stato sottoposto ad un intervento chirurgico durato diverse ore. Ora i medici aspettano l’evoluzione del periodo critico di 48 ore per valutare l’esito dell’operazione. Sui social del professore è stato pubblicato un brevissimo messaggio: «Preghiamo uniti».
«Sono addolorata e preoccupata dalla notizia dell’ischemia che ha colpito il caro amico Prof. Meluzzi. Attendo con ansia notizie sul decorso post operatorio, pregando che superi al meglio questo difficile momento. Forza Alessandro!», ha twittato Francesca Donato, membro del Parlamento europeo e presidente del Consiglio nazionale della Democrazia Cristiana.
Sono addolorata e preoccupata dalla notizia dell’ischemia che ha colpito il caro amico Prof. @a_meluzzi . Attendo con ansia notizie sul decorso post operatorio, pregando che superi al meglio questo difficile momento. Forza Alessandro! pic.twitter.com/DD76iQO1zR
Quattro persone sono state uccise e 42 sono rimaste ferite in un’esplosione avvenuta durante una messa cattolica nelle Filippine. L’attentato è avvenuto in una palestra dell’Università statale di Mindanao, nella città di Marawi, che nel 2017 era stata teatro di una battaglia durata cinque mesi tra forze governative e militanti legati allo Stato islamico. L’esplosione sarebbe stata causata da una granata.
Il presidente Marcos punta il dito contro «terroristi stranieri»
Il presidente filippino Ferdinand Marcos ha condannato «con la massima fermezza gli atti insensati e atroci perpetrati da terroristi stranieri», manifestando la sua vicinanza «alle vittime, ai loro cari e alle comunità che sono state il bersaglio di questo assalto alla pace». Marcos ha annunciato che verrà dispiegato ulteriore personale di sicurezza, esortando la popolazione a mantenere la calma. L’Università di Mindanao, con un comunicato, si è detta «profondamente rattristata e scioccata dall’atto di violenza» e ha condannato «inequivocabilmente e con la massima fermezza questo atto orribile e insensato». Le lezioni sono state sospese.
I condemn in the strongest possible terms the senseless and most heinous acts perpetrated by foreign terrorists upon the Mindanao State University (MSU) and Marawi communities early this Sunday morning. Extremists who wield violence against the innocent will always be regarded as…
L’esplosione è avvenuta in una regione autonoma a maggioranza musulmana
Il generale Allan Nobleza, capo della polizia nella regione autonoma di Bangsamoro, dove la popolazione è prevalentemente musulmana, ha dichiarato che l’attentato potrebbe essere collegato all’uccisione di 11 membri del Gruppo Maute, di ideologia islamista, in un’operazione militare compiuta il primo dicembre a Datu Hoffer Ampatuan, nella provincia del Maguindanao del Sur.
L’uomo che nella serata del 2 dicembre a Parigi ha ucciso a coltellate al grido di “Allah Akbar” un turista tedesco nei pressi della Torre Eiffel, ferendo altre due persone, è di nazionalità francese ma di origine iraniana: schedato come islamista radicalizzato, era già stato condannato in passato per terrorismo.
L’attentatore era nella Lista S del governo francese
Armand R., questo il nome dell’attentatore, è nato in Francia nel 1997. Era stato arrestato nel 2016 e successivamente condannato a cinque anni di carcere (di cui uno con la sospensione) per aver pianificato un attentato a La Defénce. Come ha reso noto il ministro dell’Interno Gerald Darmanin, l’attentatore era in cura psichiatrica e figurava nella “Fiche S” del governo francese, dove sono stati inseriti i nomi di tutti gli individui considerati potenzialmente minacciosi per la sicurezza dello Stato. Questo per i suoi legami con l’islamismo radicale.
Ha detto alla polizia di voler «morire da martire»
La vittima, un turista di nazionalità filippino-tedesca, è stata attaccata nei pressi della Torre Eiffel, con diversi colpi alla testa, alla schiena e alle spalle. Poi l’attentatore ha ferito altre due persone (non in pericolo di vita) amartellate, prima di darsi alla fuga inseguito dalla polizia, che alla fine ha utilizzato due volte una pistola a impulsi elettrici per immobilizzarlo in Avenue du Parc de Passy. Armand R. avrebbe detto agli agenti di voler «morire da martire» perché non sopportava «l’uccisione degli arabi in tutto il mondo».
J’adresse toutes mes condoléances à la famille et aux proches du ressortissant allemand décédé ce soir lors de l’attaque terroriste survenue à Paris et pense avec émotion aux personnes actuellement blessées et prises en charge.
«Porgo le mie condoglianze alla famiglia e ai cari del cittadino tedesco morto questa sera durante l’attacco terroristico a Parigi e penso con commozione alle persone attualmente ferite e ricoverate», ha twittato il presidente francese Emmanuel Macron. «I miei più sinceri ringraziamenti alle forze di emergenza che hanno consentito di arrestare rapidamente il sospettato. La procura nazionale antiterrorismo avrà il compito di far luce sulla vicenda affinché venga fatta giustizia in nome del popolo francese».
Non sono passati molti anni. Era il 2017 e per un breve lasso di tempo la storia che vede coinvolti i fratelli Giulio e Francesca Maria Occhionero occupò le cronache dei principali media italiani. Il 9 gennaio di quell’anno, infatti, la procura di Roma ordinò il loro arresto. L’accusa: aver esfiltrato grazie a un malware chiamato EyePyramiduna mole difficilmente quantificabile di dati, violando sistemi informatici di decine di professionisti (molte vittime, per esempio, erano avvocati) ma soprattutto di molti centri nevralgici del nostro Paese, tra cui i ministeri degli Esteri, degli Interni, il Porto di Taranto, la Regione Lazio. Una lista lunga. L’operazione era stata portata avanti in sordina per un decennio, con un malware che veniva aggiornato e reso sempre più efficace. Ma come si arrivò ai fratelli Occhionero? È questa la parte più interessante dell’intera vicenda che, nonostante il silenzio che ora la circonda, non è ancora finita e riserva non pochi colpi di scena.
Tutto iniziò con una mail sospetta arrivata all’Enav
L’allarme scattò il 26 gennaio del 2016. Francesco Di Maio, il responsabile della sicurezza informatica di Enav, cioè l’Ente nazionale per l’assistenza al volo, ricevette una mail sospetta da un avvocato di sua conoscenza. Annusato il pericolo, Di Maio si rivolse a una società di cybersecurity esterna, la Mentat, chiedendo di verificare il contenuto di quella comunicazione. Il 19 febbraio successivo, la Mentat consegnò un report. Quella mail conteneva un malware. Era la prima volta che emergeva il nome EyePyramid, l’occhio della piramide. Si trattava di un virus in grado di esfiltrare dai dispositivi infettati documenti, contatti e di accedere e monitorare gli account di posta elettronica. Lo stesso virus che qualche anno prima – secondo il report – aveva sferrato attacchi anche a Eni.
Incaricato il tecnico Ramondino di supportare le indagini
Fu in questa fase che venne allertato il Cnaipic, la sezione della polizia postale che si occupa della tutela delle infrastrutture critiche. Il direttore, Ivano Gabrielli, incaricò Federico Ramondino, uno dei tecnici della Mentat, di supportare le indagini iniziali e scoprire chi si nascondeva dietro quegli attacchi informatici. Una frenetica attività investigativa portò gli inquirenti negli Stati Uniti, a bussare alla porta della società AfterLogic. Lì era stata comprata la licenza di una delle componenti del malware. L’acquirente risultava essere un ingegnere nucleare: Giulio Occhionero. Scavando nella sua vita, gli investigatori scoprirono che l’ingegnere e sua sorella erano titolari di società di investimenti, alcune delle quali operanti in paradisi fiscali come le isole Turks & Caicos e l’isola di Man.
L’ombra della massoneria e i sospetti su livelli superiori
Partirono le intercettazioni telefoniche e fu tra il dicembre 2016 e il gennaio 2017 che sul fronte delle indagini avvenne una spaccatura. Roberto Di Legami, allora direttore del servizio di polizia postale e telecomunicazioni di Roma, ma con alle spalle una lunga esperienza di indagini delicate su criminalità organizzata e apparati deviati, voleva scavare più a fondo, o meglio, arrivare al livello più alto. Di Legami era infatti convinto che dietro i fratelli Occhionero vi fosse qualcuno, un committente. Lo sosteneva nel 2016 e lo ha ribadito nel 2022 durante un’udienza del filone perugino di questa storia, quando ha ricordato il suo ammonimento a Ivano Gabrielli: «Dobbiamo raggiungere il tetto, perché una cosa non sopporterei, che mi si venisse a dire, essendoci massoni nel mezzo, che ci siamo fermati […] o che siamo stati così idioti da non riuscire a capire per chi lavorano […]».
Di Legami rimosso dall’allora capo della polizia Gabrielli
In effetti, all’epoca Giulio Occhionero risultava essere Maestro venerabile della loggia “Paolo Ungari – Nicola Ricciotti Pensiero e Azione” di Roma. Il monito di Di Legami passò inosservato per necessità: l’ingegnere sotto indagine – che ufficialmente ignorava di esserlo – iniziò a ripulire i computer. Il 9 gennaio del 2017, su ordine del magistrato della procura di Roma Eugenio Albamonte, scattarono gli arresti. Il giorno dopo Roberto Di Legami venne rimosso dall’incarico dall’allora capo della polizia Franco Gabrielli con l’accusa di non aver avvisato la scala gerarchica dell’imminente arresto degli Occhionero.
L’ipotesi di complotto internazionale che arriva fino a Trump e al Russiagate
Giulio e Francesca Maria Occhionero vennero condannati in primo grado rispettivamente a cinque e quattro anni di reclusione, ma, dopo una breve pena detentiva in carcere, nel 2018 sono stati liberati. Mentre cominciavano a emergere i dettagli sulla portata gigantesca dell’operazione di cyberspionaggio, i due fratelli passarono al contrattacco gridando al complotto internazionale. Secondo la versione dei fatti che portarono avanti, la persecuzione nei loro confronti sarebbe stata legata nientemeno che al Russiagate, lo scandalo che proprio in quel periodo investiva il tycoon Donald Trump, allora presidente degli Stati Uniti accusato di aver avuto rapporti con l’intelligence russa. In quanto molto legati ad ambienti Repubblicani d’Oltreoceano – Francesca Maria Occhionero era cittadina statunitense e gli stessi server su cui sarebbero finiti i dati esfiltrati erano in territorio americano, ma il condizionale è d’obbligo perché sono stati sequestrati dall’Fbi -, i due si sentivano dei perseguitati politici e denunciarono il magistrato romano e alcuni membri del Cnaipic, compreso il direttore Ivano Gabrielli. Nel tritacarne finì anche il tecnico della Mentat Federico Ramondino. Essendo coinvolto un magistrato della procura di Roma, per competenza il nuovo procedimento si aprì a Perugia. E qui cominciò il bello.
Processo all’hacker: l’attenzione sull’anello debole della vicenda
In udienza preliminare Eugenio Albamonte, Ivano Gabrielli e i membri del Cnaipic sono stati prosciolti e allora tutta l’attenzione si è spostata sull’elemento più debole di questa vicenda, Ramondino, che su incarico del Cnaipic e della Procura di Roma aveva lavorato per neutralizzare la minaccia rappresentata da EyePyramid. Il processo è entrato nel vivo nella seconda metà del 2022 e prosegue ancora oggi con udienze piuttosto ravvicinate dove, nell’indifferenza dei media, si assiste a una vicenda dai contorni kafkiani.
Analisi del malware troppo approfondita: Ramondino ne era già a conoscenza?
L’obiettivo dell’accusa, rappresentata dal pubblico ministero Gemma Miliani, nota per le indagini su Luca Palamara, sembrerebbe quello di voler attribuire a Federico Ramondino la paternità del malware e, di conseguenza, la vasta operazione di cyberspionaggio. Un obiettivo trapelato con estrema chiarezza nel corso dell’udienza del 22 novembre 2023, quando il consulente tecnico dell’accusa, Giovanni Nazzaro, ha in particolare espresso dubbi sui tempi di consegna del report a Enav. Come a dire: un’analisi del malware così approfondita in così poco tempo non può che essere frutto di una conoscenza pregressa dello stesso. Ramondino – ovviamente – non ci sta a passare per doppio, se non triplo giochista e il 20 dicembre 2023 si difenderà tramite l’avvocato Mario Bernardo rispondendo punto su punto alla consulenza che lo dipinge come un criminale informatico. E i fratelli Occhionero? Che ruolo hanno in questo filone perugino?
Saluti da Abu Dhabi: il trasferimento di Occhionero negli Emirati
In attesa del processo di appello a Roma, Giulio Occhionero – nel frattempo, caso più unico che raro, radiato dalla massoneria – si è trasferito e lavora da diverso tempo ad Abu Dhabi. Lì dove, secondo voci di corridoio, starebbe pensando di spostarsi anche sua sorella. Quello che lascia perplessi è il suo comportamento in occasione di questo processo che – giova ricordarlo – è nato da una sua denuncia. Nonostante i numerosi inviti a comparire in aula, non si è mai presentato. E, a quanto sembra, non ha alcuna intenzione di farlo. Il 20 dicembre è atteso per portare la sua testimonianza, ma – come appreso nel corso dell’ultima udienza – gli impegni di lavoro lo tratterranno negli Emirati Arabi Uniti.
Mail avvelenate spedite alla procura di Perugia
La sua proposta di essere sentito a distanza – più volte reiterata attraverso i suoi avvocati – è stata di volta in volta respinta dalla giudice Sonia Grassi che ritiene inconsistenti le motivazioni addotte da Occhionero. Ma c’è un altro dettaglio che denota da un lato la personalità di Giulio Occhionero e, dall’altro, il clima che pervade questo processo: già nel 2018, attraverso un’istanza, Giulio Occhionero si era lamentato del consulente tecnico scelto dalla pm Miliani, sostenendo che «tutto mi induce a ritenere che il consulente Nazzaro non abbia improntato il proprio lavoro su criteri tecnicamente idonei a rappresentare alla procura una opportuna completezza di informazioni per approdare a conclusioni ragionate e per quanto possibile obiettive», e accusandolo di aver «ampiamente fiancheggiato» il pm romano Eugenio Albamonte nelle «attività oggetto di indagine» e di aver collaborato proprio nel 2017 con il Cnaipic. Ma non solo. Da quanto appreso il 22 novembre 2023 in aula, Giulio Occhionero dalla calda Abu Dhabi avrebbe inviato una mail avvelenata alla procura di Perugia, lamentando la totale mancanza di acume investigativo e l’inconsistenza delle forze messe in campo. Evidentemente tenere sulla graticola il solo Federico Ramondino gli sembra troppo poco.
C’era davvero qualcuno coinvolto in alto? To be continued…
In attesa della prossima udienza a Perugia, restano aperti i tanti interrogativi che avvolgono questa vicenda e che saranno oggetto del processo di appello a carico dei fratelli Occhionero. Primo fra tutti: dove sono finiti i dati esfiltrati? A cosa sono serviti? È stato tutto frutto di un’iniziativa personale o davvero, come sostiene Roberto Di Legami, c’è un livello superiore?