L’Italia non vuole concedere alcun risarcimento alle famiglie delle vittime del naufragio di Cutro. Questo è quanto è emerso nell’aula del tribunale di Crotone, durante il processo contro i presunti scafisti. A spiegarlo è stata l’avvocata Giulia Bongiorno, che rappresenta che rappresenta la Consap, la concessionaria servizi assicurativi pubblici a cui fa capo il fondo di garanzia dello Stato per il risarcimento delle vittime di incidenti in strada o in mare.
Alcuni residenti a Cutro durante una delle proteste contro il governo (Getty Images).
Bongiorno: «Lasciateci fuori dal processo»
La legale ha spiegato che il governo non ritiene di dover risarcire nessuno. E questo perché la barca naufragata non può essere considerata «un’imbarcazione adibita al trasporto e dunque assoggettabile al codice delle assicurazioni». Bongiorno ha dichiarato: «Noi chiediamo di essere lasciati fuori da questo processo». Il tribunale di Crotone, nella precedente udienza, aveva accolto la richiesta dei rappresentanti dei sopravvissuti e delle famiglie delle vittime e per questo è stata chiamata in causa la Consap.
Gli avvocati: «Comportamento sbalorditivo»
L’avvocato Francesco Verri, uno dei legali delle famiglie, ha spiegato: «Eravamo riusciti ad ottenere dal tribunale il diritto di far intervenire nel processo la Consap perché risarcisca i danni in caso di condanna. E invece lo Stato dice “non contate su di me, non risarcisco nulla”. E dunque, non solo lo Stato quella notte si è lavato le mani, non solo ha lasciato morire le vittime di questo naufragio, non solo non ha neppure pensato di intervenire con un’operazione di polizia, non solo ha lasciato navigare un’imbarcazione non assicurata ma oggi dice “io non intendo prendermi cura neanche delle vittime ne risarcire loro i danni”. Dunque il comportamento dello Stato, appellandosi ad un cavillo, è sbalorditivo e non intende assumersi nessuna responsabilità neanche nei confronti dei superstiti e dei familiari delle vittime».
I partiti d’opposizione hanno scritto al presidente della Camera Lorenzo Fontana per chiedergli di far esaminare all’Aula l’accordo stretto dal governo con l’Albania sul tema migranti. A quasi dieci giorni dall’annuncio della premier Giorgia Meloni e del primo ministro albanese Edi Rama, il testo del documento non è stato mai trasmesso ai parlamentari. A firmare la richiesta sono stati +Europa, Pd, Avs, Azione e Movimento 5 stelle. Poche ore dopo la stretta di mano tra i due Paesi, anche l’Unione Europea ha chiesto spiegazioni al governo sul protocollo d’intesa.
Le opposizioni: «Serve la ratifica del Parlamento»
I partiti hanno scritto a Fontana chiedendogli di «compiere tutti i passaggi necessari affinché l’accordo tra Italia e Albania sia trasmesso alle Camere». Hanno sottolineato inoltre che «le prerogative del Parlamento siano compiutamente rispettate». Nel documento si legge: «L’articolo 80 della Costituzione prescrive, infatti, che gli accordi internazionali che sono di natura politica, o prevedono arbitrati o regolamenti giudiziari» siano «sottoposti alla ratifica del Parlamento» per un «doveroso controllo da parte della rappresentanza popolare». E ancora: «È inoltre necessario che tutti i membri del Parlamento siano messi in condizione di conoscere in modo completo il testo dell’accordo» per «verificare in che misura esso abbia le caratteristiche richieste dal citato articolo 80 per la sua sottoposizione all’iter legislativo di ratifica».
Il governo non considera l’accordo un trattato internazionale
In attesa della risposta di Fontana, il ministro dei Rapporti col Parlamento, Luca Ciriani, ha spiegato lunedì che il governo non considera l’accordo con l’Albania un trattato internazionale. Come spiega Repubblica, secondo questa tesi non servirebbe alcuna ratifica. Palazzo Chigi ha aperto soltanto alla possibilità di un confronto con il ministro degli Esteri Antonio Tajani, in programma per martedì 21 novembre. Secondo il segretario di +Europa Riccardo Magi, invece, il protocollo necessita sia della ratifica delle Camere sia di una modifica alla legge sull’immigrazione per poter entrare in vigore.
Il segretario di Azione Carlo Calenda da mercoledì 15 novembre interromperà per circa 10 giorni la sua attività politico-parlamentare per sottoporsi a un intervento chirurgico. Ne ha dato notizia l’Ufficio stampa di Azione, precisando che l’operazione è fissata da alcuni mesi.
Precettazione. Matteo Salvini l’ha ufficializzata martedì sera vergando una nota del Mit. Lo sciopero del trasporto pubblico del 17 novembre sarà consentito dalle 9 alle 13. «In caso di violazione», ha aggiunto Precetto La Qualunque (copyright il manifesto), «scatteranno le sanzioni previste dalla legge. La mobilità di almeno 20 milioni di lavoratori compete a me e al ministero che presiedo. Penso al bene di chi verrebbe privato della sua libertà di lavorare e circolare. Se questo comporta una presa di posizione forte non mi spaventa essere il primo a farlo. Credo sia una decisione di buonsenso nell’interesse della maggioranza dei cittadini».
Cgil ed «ecovandali»: Salvini prende due piccioni con una fava
Il benessere e la mobilità degli italiani vengono prima, per il leader della Lega, del diritto allo sciopero previsto dalla Costituzione. Del resto dopo essersi visto scippare il tema migranti dall’alleata Giorgia Meloni, l’occasione era troppo ghiotta per non mostrare i muscoli. E già che c’era ha infilato nel pentolone pure gli «ecoimbecilli e gli ecovandali che un giorno sì e un giorno no bloccano strade, autostrade, porti, bloccano la possibilità di lavorare. E inquinano». Insomma una faccia una razza. «Si dicono amici dell’ambiente e creano casini, traffico e ingorghi come la Cgil vorrebbe fare venerdì», ha sparato il vicepremier su Facebook, definendo la protesta un «capriccio». L’ennesima semplificazione a uso social tipica della comunicazione usa e getta salviniana.
Quando Salvini proponeva il blocco del Paese per tre giorni contro il governo Renzi
Se oggi Salvini si fa paladino del diritto al lavoro, quello di milioni di italiani che non possono rimanere fermi o bloccati nel traffico e negli ingorghi, qualche anno fa però che il Paese si fermasse – e non solo i trasporti, ma proprio tutta l’Italia, e non per un giorno ma per tre giorni interi – non rappresentava un problema. Anzi. Era l’agosto del 2015 quando dalla Festa di Ponte di Legno intervistato dal suo amico Paolo Del Debbio Salvini lanciava l’ennesima bordata contro il governo Renzi. «La prima settimana di novembre fermiamo l’Italia per mandare a casa il governo. Tre giorni di blocco totale, di spallata in cui tutta la gente per bene si ferma, da Nord a Sud, isole comprese. Segnatevi le date: il 6, il 7 e l’8 novembre». «Tre giorni di spallata», ribadiva convinto, «di blocco totale durante i quali fermiamo l’Italia per mandare a casa questo governo e far ripartire il Paese». In quel caso il lavoro e il diritto al lavoro potevano benissimo essere accantonati per un obiettivo più alto: cacciare Renzi e imporsi sulla scena. Finì con la manifestazione della Lega a Bologna l’8 novembre con la partecipazione del Cavaliere e della stessa Meloni.
Il fascino dei Gilet gialli durante il governo gialloverde
Il fascino del blocco non ha abbandonato il leader della Lega nemmeno una volta arrivato al governo. Nel gennaio 2019 infatti il già vicepremier seguendo a ruota gli alleati pentastellati diede la sua benedizione, in chiave anti-Macron ovviamente, ai Gilet gialli che stavano mettendo in ginocchio la Francia. Salvini espresse il suo «sostegno ai cittadini perbene che protestano contro un presidente che governa contro il suo popolo», ribadendo la solita «ferma e totale condanna di ogni episodio di violenza che non serve a nessuno».
Matteo Salvini nel 2015 (Getty Images).
Lo sciopero fiscale lanciato nel luglio 2014
Ma c’è un altro sciopero particolarmente caro a Salvini: quello fiscale. Sui social e dal congresso federale di Padova del luglio 2014 il leader della Lega era stato chiaro: «Noi parliamo a un popolo che ha perso la fiducia, dovremmo essere l’alternativa alla sfiducia. Abbiamo il tempo per preparare qualcosa di cui tutto il mondo parli. Pensate cosa accadrebbe se un venerdì di novembre, facciamo il 14, da Nord a Sud tutte le persone che producono e lavoro e sono strangolate da Equitalia, da Stato ladro, da studi di settore dicessero basta: io oggi non pago, vi affamo, non apro il negozio e se apro non rilascio lo scontrino, faccio una corsa gratis del taxi, faccio straordinari gratis». Pur avendo abbandonato la dicitura sciopero fiscale, su una cosa Salvini si è dimostrato coerente: tra condoni e paci fiscali la sua benevolenza verso chi non è e non ce la fa a essere in regola è rimasta immutata.
È scontro tra il Partito democratico e la Lega sulla precettazione dello sciopero del 17 novembre decisa martedì sera dal ministro Matteo Salvini. «Siamo insoddisfatti e allarmati dalla relazione del Garante che non ha risposto stamattina a nessuna delle domande dell’opposizione. In particolare a una: quando uno sciopero si può definire effettivamente generale?», hanno dichiarato Cecilia Guerra, responsabile Lavoro del Pd, e Arturo Scotto, capogruppo in commissione Lavoro alla Camera del Pd.
Pd: «Continuino audizioni nelle commissioni con Cgil e Uil»
«In Italia non c’è mai stato uno sciopero che investisse, come nell’odierna interpretazione della Commissione di garanzia, tutte le categorie del lavoro pubblico e privato contemporaneamente. Ad esempio, il lavoro domestico. Eppure nella storia del nostro Paese abbiamo avuto tanti scioperi considerati generali e non multisettoriali come è stato sostenuto oggi dalla Garante Bellocchi», hanno proseguito i dem. «Aver definito lo sciopero del 17 novembre come multisettoriale è legato al fatto che ha vincoli di durata più stringente. Una scelta che rischia di creare un precedente gravissimo. Ci troviamo dunque davanti a una decisione che temiamo sia squisitamente politica. Chiediamo che le audizioni nelle commissioni Lavoro e Trasporti continuino con i sindacati Cgil e Uil che hanno subito dal ministro Salvini la precettazione», hanno concluso.
Tre legislature come deputata nel Partito Comunista Italiano, dal 1976 al 1987, nel corso di una vita intera incentrata sull’impegno politico, dedicato in larga parte all’emancipazione delle donne. È morta a 78 anni Angela Bottari, ricordata per essere stata la prima relatrice della legge 442 che nel 1981 portò all’abrogazione del delitto d’onore e del matrimonio riparatore.
Nel 1977 la proposta di legge contro la violenza sessuale
Nata nel 1945 a Messina e attiva politicamente dagli anni dell’università, aveva aderito al Partito Comunista Italiano nel 1971, ricoprendo il ruolo di responsabile femminile della Federazione di Messina. Nel 1975 era stata eletta consigliera comunale nella città dello Stretto. Nel 1976 l’approdo a Montecitorio, dove era poi rimasta per tre legislature consecutive fino al 1987. «Quando arrivai in Parlamento capii che fare la deputata era importante perché potevi confrontarti con la modifica delle leggi», aveva raccontato nel libro Libere, uscito nel 2022. Un anno dopo l’elezione alla Camera fu proprio lei a presentare la prima proposta di legge contro la violenza sessuale, che nel codice penale italiano figurava tra i reati contro la morale pubblica e il buon costume. La proposta di legge di cui Bottari fu prima firmataria, lo iscrisse invece tra i reati contro la persona.
Angela Bottari (Camera.it).
Nel 1981 fu poi la prima relatrice della legge 442
Nel 1981 Bottari fu poi la prima relatrice della legge 442/81 che abrogò il matrimonio riparatore: fino a quel momento il reato di violenza sessuale veniva estinto se seguito da nozze con la vittima. La stessa legge abrogò anche il delitto d’onore, cioè la riduzione di pena per chi uccideva coniuge, figlia e sorella, «nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia». Dal 1996 al 1998 segretaria regionale del Partito Democratico della Sinistra in Sicilia fino allo confluenza del partito nei Democratici di Sinistra, dal 2005 al 2007 era stata assessora comunale a Messina con deleghe alla riqualificazione urbana e alle politiche abitative. Successivamente aveva aderito al Partito Democratico.
Apparentemente Matteo Salvini e Maurizio Landini non hanno nulla che li accomuna, se non i cognomi che fanno rima. In realtà su di una cosa sono uguali: la velocità supersonica con cui occupano spazi non adeguatamente presidiati dai rivali per loro evidente ed esclusivo tornaconto politico. Il leader leghista che si intesta la battaglia contro lo sciopero dei trasporti a difesa dei cittadini che ne subirebbero i disagi (ma che sciopero sarebbe quello che non li provoca?) ha capito che deve ribattere colpo su colpo al protagonismo di Giorgia Meloni che una dopo l’altra cerca di fare sue quelle del suo antagonista, financo quella sull’immigrazione, che di Salvini è il sempiterno cavallo di battaglia. L’accordo con l’Albania sui centri di accoglienza che lo ha visto mero spettatore è un affronto che non poteva restare senza risposta. E quale occasione migliore per il vicepremier che mostrarsi all’opinione pubblica come il solo nel centrodestra che, di fronte ad alleati tiepidi, si erge a strenuo oppositore della protervia sindacale? Obiettivo raggiunto, se è vero che i giornali di area gli tengono tutti bordone ergendolo a eroe della collettività vessata.
Salvini deve recuperare il distacco da Meloni in ottica Europee 2024
Lo sciopero è solo l’ultima delle occasioni su cui si gioca la rivalità tra Meloni e il capo del Carroccio. Molte altre ce ne saranno di qui alle elezioni europee di giugno 2024, dove per entrambi la posta in gioco è chiara. L’inquilina di Palazzo Chigi deve mantenere quei 20 punti di consenso in più che non consentono a nessuno di metterne in discussione la leadership, e probabilmente la fretta sul premierato risponde allo scopo di chiudere una volta per tutte la partita. Salvini quei punti li deve almeno in parte recuperare, sapendo bene che l’appuntamento di giugno può essere decisivo per la sua segreteria. E soprattutto avendo come inevitabile termine di paragone il risultato delle precedenti europee del 2019, dove con oltre il 34 per cento dei voti la Lega toccò il suo massimo storico.
Maurizio Landini e, alle sue spalle, una foto di Matteo Salvini (Imagoeconomica).
Landini ha capito che la segreteria dem di Schlein è debole
Anche Landini si muove nella stessa ottica, pur nella diversità del contesto a sinistra. Il segretario della Cgil ha capito che quella di Elly Schlein, nonostante i 50 mila (ma erano molti di meno) portati a in piazza del Popolo nella recete manifestazione romana, è una segreteria debole, in grande difficoltà ad arginare lo strapotere delle correnti interne che infatti continuano ad agire indisturbate, e a rischio sudditanza di fronte alla concorrenza del Movimento 5 stelle. Per tradizione, il capo del più grande sindacato italiano, una volta smesso il mandato, finisce in politica, vedi Sergio Cofferati e più di recente Susanna Camusso. Landini ha ancora tempo davanti, visto che lo statuto della sua organizzazione gli consentirebbe di restare in sella fino al 2027. Ma in politica le occasioni non guardano alle scadenze per presentarsi.
Perché l’alfiere dei metalmeccanici non dice nulla su Stellantis?
L’uomo è molto più ambizioso di quel che racconta il suo aspetto dimesso, spregiudicato al punto da licenziare il suo storico portavoce ricorrendo al renziano Jobs Act che la Cgil ha severamente combattuto. E sa posizionarsi sulla scena badando alle personali convenienze. Non si spiegherebbe altrimenti, lui che è stato l’alfiere dei metalmeccanici, la remissività di fronte a Stellantis che sta drasticamente ridimensionando la sua presenza italiana. Maliziosamente qualcuno dice perché gli servono i giornali di John Elkann per fare da sponda alla sua futura discesa in campo. Che qualcuno prevede in anticipo sui tempi, addirittura alle prossime europee. Che di solito però, nell’ottica da cortile in cui si muove la politica italiana, sono il cimitero degli elefanti, buone anche per sbarazzarsi di un avversario che ti fa ombra in casa. Vediamo se Landini abbocca.
Il ministro dei Trasporti Matteo Salvini ha precettato lo sciopero generale che era stato proclamato dai sindacati per la giornata di venerdì 17 novembre. Si conclude dunque con un atto di forza da parte del governo la vicenda che aveva visto Cgil e Uil, organizzatori della mobilitazione, non voler sottostare alla richiesta di riduzione di orario avanzate dal Garante sugli scioperi che non aveva riconosciuto a questa mobilitazione la qualifica di sciopero generale. Ne era seguito il solito alternarsi di dichiarazioni al vetriolo e poi l’epilogo, con Salvini che ha precettato e deciso che la mobilitazione dovrà durare solo quattro ore, dalle 9 alle 13.
«Atto di buonsenso e rispetto»
Il fine della riduzione, stando a quanto si legge nel documenti, è salvaguardare «il diritto alla mobilità di milioni di persone», con il ministero che parla di «un ultimo atto di buonsenso e rispetto per la stragrande maggioranza degli italiani». E ancora: «Una estrema minoranza sindacale politicizzata che non può negare il diritto alla mobilità a 20 milioni di italiani».
Landini: «Messo in discussione il diritto soggettivo di poter scioperare»
La decisione del governo ha attirato l’ira dei sindacati e dei loro rappresentanti. Dalla Cgil, Maurizio Landini ha attaccato la scelta di Matteo Salvini riferendo, durante un intervento ad Agorà su Rai 3, che «viene messo in discussione il diritto soggettivo, sancito dalla Costituzione, della singola persona di poter scioperare. Non lo aveva mai fatto nessun altro governo nella storia di questo Paese. È di una gravità assoluta». Poi sugli sviluppi prossimi della vicenda: «Guarderemo questa mattina il testo della precettazione. Abbiamo convocato per oggi alle 15.30 una conferenza stampa con la Uil e discuteremo su cosa fare. Per quello che ci riguarda è confermato lo sciopero per tutti i settori, ma per quanto riguarda il settore dei trasporti vedremo cosa fare senza mettere in difficoltà i lavoratori, perché con la prescrizione del governo le misure riguardano anche i lavoratori, non solo i sindacati».
Secondo i nuovi sondaggi elaborati da Swg, tra l’8 e il 13 novembre nessuno dei partiti maggiori in Italia ha guadagnato consensi a esclusione di Forza Italia. Anzi, tanto Fratelli d’Italia e Lega quanto Pd e Movimento 5 stelle hanno perso il sostegno degli italiani, favorendo i gruppi minori. Il partito di Giorgia Meloni ha registrato un calo dello 0,1 per cento, fermandosi a quota 29,1, sempre saldamente al comando dei sondaggi. Restano dietro i dem guidati da EllySchlein, distanti quasi dieci punti dalla vetta al 19,7 per cento dopo una flessione dello 0,3.
Male anche Lega e M5s
Come detto, non è andata meglio alla Lega. Il partito di Matteo Salvini ha fatto registrare un calo dello 0,4 per cento, il secondo consecutivo. Ora il Carroccio è a quota 9,4 per cento, distante dal Movimento 5 stelle. Il gruppo di Giuseppe Conte, resta terzo ma scende al 16,2 per cento, dopo aver perso lo 0,2 nel periodo di riferimento. Un dietrofront per i pentastellati, dopo il rialzo di 0,3 punti percentuali nei sondaggi della settimana precedente. Bene, invece, Forza Italia, che ha mantenuto un trend positivo guadagnando lo 0,3 per cento e salendo al 6,7.
Giuseppe Conte, leader del Movimento 5 stelle (Imagoeconomica).
Cresce Italia Viva di Matteo Renzi
Il partito che ha guadagnato di più insieme a Forza Italia è L’Italia con Paragone. La lista dell’ex giornalista è cresciuta dello 0,3 per cento fermandosi all’1,9. Ha guadagnato lo 0,2 per cento, invece, Italia Viva. Il partito dell’ex premier Matteo Renzi ora è a quota 3 per cento, davanti a +Europa, salita al 2,5 per cento con un incremento dello 0,1. Stabile, invece Avs. Verdi e Sinistra italiana restano al 3,6 per cento, appena dietro Azione. Il partito di Carlo Calenda ha perso lo 0,1 per cento ma resiste al 3,9, primo tra i partiti più piccoli. Noi Moderati sale all’1,1 per cento con un +0,1.
Matteo Renzi, ex premier e fondatore di Italia Viva (Imagoeconomica).
Gianni Alemanno da tempo lavora per unire una galassia del dissenso, più “estremista” di Meloni, e ora punta a lanciare una nuova opposizione che «va al di là dei vecchi schemi destra-sinistra». Lo fa dando vita a un Forum per l’indipendenza italiana, alla cui assemblea di costituzione saranno presenti anche il presidente onorario del Partito comunista italiano Marco Rizzo e Moni Ovadia.
Alemanno: «Serve destra sociale all’opposto di quello che fa il governo Meloni»
Il nuovo movimento dell’ex sindaco di Roma e storico esponente della destra radicale, passato per il Movimento sociale italiano, Alleanza nazionale e Fratelli d’Italia, oggi si colloca in una «destra sociale all’opposto di quanto sta facendo il governo Meloni». Saranno «due giorni di confronto e dibattito per far nascere un nuovo movimento che renda l’Italia una nazione libera e indipendente», dice Alemanno in un tweet in cui dà appuntamento per il 25 e 26 novembre al Midas Palace Hotel di Roma. Il clou, domenica 26 alle 11, sarà la tavola rotonda con Rizzo, Ovadia, Francesco Toscano, Elena Basile, Fabio Granata e Francesco Borgonovo come moderatore. «Da un lato abbiamo una politica blindata a dire le stesse cose. Giorgia Meloni e Elly Schlein dicono le stesse cose sui temi essenziali, sulla guerra, sull’appartenenza alla Nato, sull’appartenenza all’Europa», spiega Alemanno. «Dall’altro lato ci dobbiamo essere noi per cambiare l’Italia, per dar un contributo vero, al di là, di quelli che possono essere i vecchi schemi. L’Italia deve approfittare di questo momento eccezionale, con la nascita del mondo multipolare, per liberarsi dalle vecchie sudditanze e guardare verso il futuro».
?? ? ?? ????????
Unisciti a noi di Forum per l'Indipendenza Italiana per un evento unico, aperto a tutti: due giorni di confronto e dibattito per far nascere un nuovo movimento che renda l’Italia una nazione libera e indipendente pic.twitter.com/ORonaIC2hD
Il ministro per i Rapporti con il parlamento Luca Ciriani, di Fratelli d’Italia, ha lanciato un appello ambizioso alla segretaria dem Elly Schlein e alla premier Giorgia Meloni: «Collaborino per cambiare l’Italia insieme».
Il ministro Ciriani invita Schlein a collaborare sul premierato
Nello specifico, Ciriani ha invitato la segretaria del Partito democratico a collaborare con il governo sulla riforma del premierato. In un’intervista a La Stampa, quando gli è stato chiesto se la maggioranza abbia ricevuto dei «segnali» di apertura dalle opposizioni sulla riforma, il ministro ha detto che se lo auspica, sostenendo che per Schlein sia arrivato il momento di «misurarsi con la leadership del partito più importante dell’opposizione», e aggiungendo che «sarebbe bello che due donne, lei e Giorgia Meloni, cambiassero l’Italia insieme. Ma da una parte c’è una donna coraggiosa e determinata, dall’altra ancora non è chiaro. Spero che Schlein non scappi dal confronto».
La segreteria dem Elly Schlein a Mezz’ora in più critica duramente l’accordo sui migranti tra Italia e Albania (Imagoeconomica).
Ciriani: «La norma antiribaltone è perfettibile»
E a proposito di confronto, Ciriani ha sostenuto che sul testo della riforma costituzionale «abbiamo fatto di tutto, comprese delle consultazioni formali» e «abbiamo scritto un testo che è il frutto di una mediazione, anche per venire incontro alle richieste degli altri partiti». Il riferimento è all’aver accantonato il sogno del presidenzialismo, sostenuto con forza in campagna elettorale ma osteggiato dall’opposizione. Nel colloquio con La Stampa, il ministro non esclude ulteriori modifiche del testo, in particolare sulla norma antiribaltone: «È il punto di incontro tra una visione presidenzialista e la tradizione parlamentare nel nostro Paese. Secondo me è perfettibile». Mentre sul possibile referendum dice: «Non ci spaventa. E di per sé non sarebbe un male. Gli italiani devono poter decidere e noi crediamo che siano d’accordo con la nostra proposta».
La Commissione di garanzia ha confermato «il contenuto del provvedimento adottato in data 8 novembre» sullo sciopero di venerdì 17, proclamato da Cgil e Uil, continuando a chiedere la rimodulazione dello stop in alcuni settori. Il Garante, in una nota diramata dopo l’incontro con i sindacati, ha scritto: «Lo sciopero, così come proclamato dalle confederazioni sindacali (con esclusione di numerosi settori) non può essere considerato, come da consolidato orientamento della Commissione, quale sciopero generale, ai fini dell’applicazione della disciplina che consente delle deroghe alle normative di settore sui servizi pubblici».
Tarlazzi: «Andremo avanti»
Il segretario generale della Uiltrasporti, Claudio Tarlazzi, non ci sta. Ha spiegato che quello di venerdì «è e rimane uno sciopero generale e non uno sciopero intersettoriale come vorrebbe far passare l’autorità garante degli scioperi. Ed è per questo motivo che la Uiltrasporti è intenzionata ad andare avanti con questa protesta non ottemperando alle limitazioni richieste». E ha sottolineato: «Il diritto allo sciopero va preservato e difeso e non capiamo come mai ad essere fermati siano solo gli scioperi indetti dalle organizzazioni confederali. Mentre per i quattro scioperi proclamati nei mesi scorsi dai sindacati autonomi non sia intervenuto nessuno».
Claudio Tarlazzi (Imagoeconomica).
La Lega: «Il Garante ha messo in castigo Landini»
La richiesta del Garante è stata accolta positivamente dalla Lega. Dopo le critiche alla Cgil di domenica 12 novembre, il partito di Matteo Salvini ha nuovamente attaccato il segretario Maurizio Landini. In una nota si legge: «Il Garante mette in castigo il capriccioso Maurizio Landini. Bocciata la pretesa del leader della Cgil di trascorrere un weekend lungo il prossimo 17 novembre sulla pelle di milioni di italiani. La mobilitazione non potrà essere di 24 ore. I troppi anni a servizio del Pd al governo nazionale hanno arrugginito la Cgil che evidentemente ha dimenticato l’abc».
Salvini: «Serve rispetto delle regole»
E lo stesso Salvini ha poi dichiarato: «Difendiamo il sacrosanto diritto alla mobilitazione, ma deve avvenire nel rispetto delle regole e non sulla pelle di milioni di famiglie, studenti e lavoratori. Una minoranza di iscritti ad alcune sigle sindacali non può danneggiare un intero Paese».
Per il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, la Manovra 2024 del governo Meloni «è ragionevole, perché concentra le poche risorse disponibili sulla riduzione del cuneo nel 2024, ma è incompleta, perché sono totalmente assenti misure a sostegno degli investimenti privati e della strategia su crescita e competitività». Queste le parole del rappresentante degli industriali nel corso della sua audizione alle commissioni Bilancio riunite di Camera e Senato.
Necessario per Confindustria il sostegno alle famiglie a basso reddito
«Non si tratta di fare un torto alle imprese, ma di indebolire la legge di Bilancio stessa», ha rimarcato Bonomi sull’assenza di misure sostegno degli investimenti privati, vettore fondamentale a suo avviso per alimentare l’imprenditoria e generare lavoro e profitti. Il presidente di Confindustria ha lanciato poi un altro monito, sottolineando come in questa fase sia necessario «sostenere le famiglie a basso reddito». In tale ottica si è effettivamente mossa la Manovra 2024, prevedendo un taglio del cuneo e la revisione delle aliquote Irpef. «Stimiamo», ha detto Bonomi, «che tra i 9 mila e i 35 mila euro di reddito si avrà un effetto benefico tra i 560 e i 1.400 euro».
Carlo Bonomi e Giorgia Meloni (Imagoeconomica).
Per Bonomi serve riqualificare la spesa pubblica
Carlo Bonomi si è soffermato anche sulla necessità di riqualificare la spesa pubblica in Italia, unico modo a suo avviso per trovare le risorse utili al processo di riforma. «È necessaria la volontà politica per intervenire su una spesa pubblica che ammonta a complessivi 1.100 miliardi di euro», ha detto il presidente di Confindustria. «Se si riconfigurasse il 4-5 per cento le risorse per le riforme ci sarebbero».
+Europa ha presentato un ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo sostenendo che la legge elettorale vigente, il cosiddetto Rosatellum ideato dal deputato di Italia Viva Ettore Rosato, sia incostituzionale.
Sono quattro i motivi di incostituzionalità del Rosatellum secondo +Europa
Il segretario Riccardo Magi ha spiegato che il ricorso si è reso necessario per quattro motivi. Il primo: «Il voto dato solo a una lista viene trasferito al candidato uninominale, non votato, che risulta eletto anche grazie a voti dati esclusivamente alle liste collegate, in contrasto con l’art.56 della Costituzione». Il secondo: «È incostituzionale che l’elettore non possa scegliere il candidato preferito all’interno di una lista plurinominale, realizzando così un parlamento composto per la sua totalità da nominati dai partiti che si sostituiscono agli elettori nella scelta dei rappresentanti». Terzo motivo: «Il voto dato a una lista coalizzata che non raggiunge il 3 per cento dei consensi, ma supera l’1 per cento, è trasferito alle altre liste coalizzate e quindi sulla base delle scelte effettuate da altri e contro la volontà dell’elettore che potrebbe non gradire le altre liste». Quarto: «Il voto dato al solo candidato uninominale viene trasferito automaticamente, contro la volontà dell’elettore, alle liste associate, senza possibilità di voto disgiunto». Inoltre, «se si votasse secondo Costituzione, la maggioranza perderebbe 16 seggi alla Camera e 26 al Senato e non avrebbe la maggioranza in una delle due Camere», ha spiegato l’avvocato Felice Besostri che rimarca come ci sia anche una senatrice d’opposizione «che è stata eletta con zero voti individuali, non si è votata neanche lei».
Si candiderà come capolista nelle cinque circoscrizioni per dare la volata a Fratelli d’Italia? Difficile avere una risposta al riguardo da Giorgia Meloni. Almeno per ora. Una cosa è certa, però, l’effetto sorpresa ottenuto annunciando l’accordo Italia-Albania sui migranti non le riuscirebbe. Tant’è che nei partiti alleati si cominciano prendere le misure. Diverse fonti intercettate da Lettera43 la fanno facile: «Se Meloni scende in campo, gli altri leader faranno lo stesso». Sarebbero ovviamente candidature di bandiera visto che si sta parlando della premier e dei due vice Antonio Tajani e Matteo Salvini. A pesare, più dei capolista di facciata, sono però le battaglie identitarie che ogni leader deciderà di cavalcare. Ed è qui che l’azzurro Tajani rischia di finire come un vaso di coccio tra due vasi di ferro.
La Lega può giocare sul Ponte sullo Stretto mentre FdI sul premierato e sull’accordo con l’Albania
La Lega e Fratelli d’Italia le bandiere da piantare ce le hanno già bell’e pronte. Calendario del Senato permettendo, infatti, il Carroccio potrà sventolare il vessillo dell’autonomia differenziata e il partito di maggioranza il primo via libera del Cdm alla «madre delle riforme», copyright Meloni, e cioè il premierato (sperando che l’iter non si inceppi prima). Senza contare che, secondo i piani della premier, il taglio del nastro dei centri per migranti in Albania, sempre che Edi Rama non si tiri indietro, dovrebbe cadere proprio a ridosso del voto per Bruxelles. Certo, un bello sgambetto al Carroccio che, però, può giocare la sua campagna elettorale sul Ponte sullo Stretto e le prime risorse strappate in manovra per realizzarlo. Con buona pace dei forzisti. Se sui migranti, infatti, è la Lega a masticare amaro, sul Ponte tocca a Forza Italia, dal momento che la mega infrastruttura è sempre stata una voce chiave del programma di Silvio Berlusconi.
Matteo Salvini (Imagoeconomica).
Le preoccupazioni di Forza Italia: a differenza degli alleati manca una battaglia identitaria
«Fosse solo il Ponte sullo stretto il problema». Si sfogano dal partito azzurro dietro garanzia di anonimato. «La questione vera è che mentre i nostri alleati hanno ben chiare le sfide per la campagna elettorale, noi su cosa puntiamo?». In effetti, a ben guardare una battaglia identificativa degli azzurri non la si vede. È vero, sugli extraprofitti delle banche il partito guidato da Tajani è riuscito a sbattere i pugni sul tavolo e ad annacquare la misura voluta da Meloni in persona. È altrettanto vero, però, che non si tratta di un tema che possa generare consenso popolare. Tutt’altro. I risultati raggiunti sugli affitti brevi e sul rialzo delle pensioni minime invece un valore ce l’hanno. Ma non sembrano sufficienti a dare ossigeno al partitofino alle Europee. È evidente che gli azzurri non possono certo costruirci una narrazione come potranno fare FdI e Lega su riforme, immigrazione e infrastrutture. Di qui la preoccupazione che comincia ad aleggiare tra i forzisti.
Antonio Tajani (Imagoeconomica).
Le rassicurazioni azzurre: «Siamo concentrati sui nostri obiettivi, nessun effetto speciale»
Non tutti, naturalmente. Roberto Bagnasco, deputato molto legato a Silvio Berlusconi, parlando con Lettera43 si dice fiducioso. «Sono convinto che l’obiettivo delle due cifre per noi sia raggiungibile», dice subito. «Quanto ai temi, tanto per cominciare il Ponte sullo Stretto è da sempre un nostro obiettivo, il fatto che il progetto lo porti avanti Salvini perché è ministro dei Trasporti non cambia la sostanza delle cose». Secondo Bagnasco, inoltre, il taglio del cuneo fiscale su cui il partito continuerà a insistere così come l’aumento delle pensioni minime «sono temi concreti che riguardano la vita delle persone. Ed è questo ciò che ci interessa. Il nostro primo cavallo di battaglia, infatti, è la serietà delle proposte. Non mirare a stupire con effetti speciali», punge. C’è poi chi invece non è interessato a fare confronti con gli alleati, ma è fiducioso nel programma del partito. È il caso, per esempio, del deputato vicino al segretario Tajani, nonché portavoce di Fi, Raffaele Nevi che mette subito in chiaro: «Noi ci interessiamo poco degli altri. Siamo concentrati sui nostri obiettivi. L’attenzione è massima sulla crescita economica, perché il sistema produttivo europeo diventi fattore di sviluppo sociale, sulla crescita infrastrutturale, perché l’Europa sia sempre più interconnessa. E poi ci sono questioni come la difesa comune, su cui Berlusconi era impegnato, ma anche della sostenibilità ambientale». Il problema, però, è la reale presa sui cittadini di questi temi. «Roba da fare la figura del brutto anatroccolo», riassume una fonte dietro anonimato. «La verità è che noi restiamo alla finestra. E meno male che questa prova elettorale dovrebbe rappresentare l’occasione per dimostrare che camminiamo sulle nostre gambe, anche senza Berlusconi». Una prospettiva pessimistica che non sfiora affatto Nevi che, anzi, rilancia: «Stiamo registrando tanti ingressi e ciò vuol dire che c’è attenzione nei nostri confronti. Non solo, ma poi invito a non dimenticare cosa significhi ‘maggioranza Tajani’, una maggioranza che a Bruxelles teneva insieme popolari, conservatori e liberali. Ecco, scegliere Forza Italia alle elezioni di giugno prossimo è anche un voto utile perché aiuta a rafforzare un progetto europeo che escluda il Pse».
Raffaele Nevi di Fi (Imagoeconomica).
Il peso di Tajani a Bruxelles sarà sufficiente?
Un punto di vista diametralmente opposto a quello di un altro esponente di punta azzurro che si sfoga: «Andrà a finire così: il nostro peso specifico nel Ppe si ridurrà ai minimi termini. E ci troveremo a fare il socio di minoranza, un po’ come ci siamo ridotti a fare nella maggioranza di centrodestra, scegliendo di esseri succubi di Meloni». Cattivi pensieri che non sfiorano il deputato della minoranza di Fi Alessandro Cattaneo, responsabile Dipartimenti del partito, che a Lettera43 dice: «Alle Europee noi ci presentiamo come abbiamo sempre fatto: con la nostra identità chiara su cui non vogliamo negoziare. È la nostra anima liberale che deve farsi sentire e si farà sentire. Pensioni, tasse e casa non sono bandierine per noi e gli elettori ne sono consapevoli. Conoscono la nostra battaglia sulle pensioni minime, le avevamo lasciate a un milione di lire e siamo 620 euro in poco più di anno. Così come sanno che finché ci sarà Forza Italia non ci saranno mai tasse sulla prima casa o patrimoniali». La scommessa vitale è proprio se ci sarà il partito, se sopravviverà. Dietro le quinte i timori crescono. E qualcuno prova a scongiurarli, autoconvincendosi che non ci sia «nulla da temere». E si consola così: «Al di là delle bandierine, guardiamo alle persone: se si candidassero Tajani e Salvini, gli italiani non avrebbero dubbi. Da un lato c’è il nostro segretario che ha ricoperto ruoli importanti a Bruxelles e dall’altro c’è il leader della Lega che si è distinto per il suo assenteismo in Europa». Sarà sufficiente?
La Lega non molla e adesso è scontro frontale sullo sciopero generale annunciato dalla Cgil e Uil per il 17 novembre, in segno di protesta contro la manovra del governo Meloni. «Milioni di italiani non possono essere ostaggio dei capricci di Landini che vuole organizzarsi l’ennesimo weekend lungo: in vista dello sciopero annunciato per il 17 novembre è incredibile la mancanza di ragionevolezza della Cgil che – come certificato dal Garante – ignora perfino l’Abc delle mobilitazioni, così come chiarito dal ministro Salvini. In nessun caso il settore trasporti potrà essere paralizzato per l’intera giornata». Così una nota del Carroccio.
Maurizio Landini (Imagoeconomica).
La Cgil: «È uno sciopero generale a cui si applicano le normative dello sciopero generale»
Cgil e Uil incroceranno le braccia per 24 ore di stop venerdì 17 novembre: i rappresentanti delle due organizzazioni sindacali sono stati convocati dal Garante degli scioperi, in quanto l’agitazione sarebbe troppo vicino a ad altre proteste già in calendario e anche eccessivamente lunga. «È uno sciopero generale a cui si applicano le normative dello sciopero generale. Lo abbiamo proclamato legittimamente ed è assolutamente consentito se si rispettano i servizi minimi e le fasce di garanzia», ha replicato il segretario generale della Filt Cgil, Stefano Malorgio.
“L’Albania rinasce nel segno del Littorio” è il titolo di una prima pagina del Corriere della Sera dell’aprile 1939, che celebrava l’annessione dell’Albania all’Italia fascista e che in questi giorni viene riproposto a mo’ di tormentone sarcastico, sui vari social, per ironizzare sulla nuova “inedita” alleanza tra i due Paesi in tema di migranti. Inedita perché, se a capo del governo italiano c’è una forza che, lo si voglia o meno, presenta nel suo Dna una continuità col governo di allora, dall’altra parte non è così: a firmare l’accordo con Giorgia Meloni, infatti, è stato Edvin Kristaq Rama, socialista da sempre, da un decennio a capo di un governo di centrosinistra. Non per caso a Tirana, a protestare rumorosamente – con tanto di risse e fumogeni in parlamento – contro la decisione del primo ministro albanese è stato tutto il centrodestra all’opposizione. Insomma, sembrerebbe tutto ribaltato rispetto alle vicende di 80 anni fa.
La prima pagina del Corriere della Sera nell’aprile del 1939.
Il premier Rama: «L’Italia ci ha accolti quando scappavamo dall’inferno»
Rama ha poi pubblicamente, e candidamente, ammesso di essere consapevole della sostanziale inutilità dell’iniziativa, ma ci ha tenuto a sottolineare che «se l’Italia chiama l’Albania c’è», senza alcuna contropartita, per esempio un sostegno all’ingresso del suo Paese nell’Unione europea. «Quando l’Italia ha bisogno», ha ulteriormente sottolineato, «noi diamo una mano e siamo onorati di farlo. Perché l’Italia ci ha mostrato così tanto rispetto, ci ha dato una grande mano non una volta ma tante volte, ci ha accolti a braccia aperte quando sfuggivamo dall’inferno».
Edi Rama e Giorgia Meloni (Getty).
Prima degli sbarchi del 1991 a Brindisi e Bari, un’altra storia
Non contento, Rama ha anche precisato che «questo accordo non sarebbe stato possibile con nessun altro Stato Ue: c’è una differenza importante di natura storica, culturale ma anche emozionale che lega l’Albania all’Italia». Il premier albanese, evidentemente, ha la memoria un po’ corta, o forse eccessivamente selettiva, cosa che gli fa dimenticare che i legami che lui enfatizza affondano le radici in un periodo storico ben precedente al 1991 (anno dei famosi sbarchi a Brindisi e a Bari, considerati eventi simbolo della ribellione contro l’opprimente quarantennale dittatura di Hoxha), un periodo non esattamente edificante né per il suo Paese né per il nostro.
L’occupazione e la fuga in Grecia del sovrano Zog I
Se infatti dagli Anni 90 torniamo indietro di qualche decennio, al 1939 per l’esattezza, è chiaro che quella offerta dal nostro Paese all’Albania non fu esattamente una “mano” amica: si trattò di una pura e semplice annessione all’Italia fascista per via militare, conclusasi con l’occupazione di Durazzo, San Giovanni Medua, Valona e Santi Quaranta (mentre il sovrano albanese Zog I fuggiva in Grecia) e sancita poi come «unione personale» nella «persona di Vittorio Emanuele III» da un’Assemblea nazionale costituente convocata a Tirana in tempi rapidissimi e composta da albanesi filoitaliani (latifondisti, grande borghesia commerciale e clero collaborazionista soprattutto di confessione cattolica). Due mesi dopo l’occupazione, non per caso, veniva proclamato lo statuto del Regno d’Albania, che affidava il potere esecutivo e legislativo a Vittorio Emanuele III, il quale nominava suo luogotenente generale (viceré) in Albania il diplomatico Francesco Jacomoni di San Savino, già ministro per il Regno d’Albania e quindi ambasciatore.
Galeazzo Ciano in visita in Albania (Getty).
Fascistizzazione forzata senza alcun retroterra ideologico
A riprova della fascistizzazione forzata dell’Albania vale la pena di ricordare che, a differenza di altri casi (per esempio quello delle nazioni della Penisola iberica o dei Balcani) dove la simpatia, prima, e l’adozione poi di modelli fascisti di governo avevano potuto contare su un diffuso retroterra ideologico, prima dell’annessione da parte dell’Italia l’Albania non solo non presentava alcun partito né alcuna organizzazione o movimento politici assimilabili all’ideologia fascista, ma non presentava nemmeno – in senso lato – tratti “fascistizzanti” all’interno della sua variegata e complessa struttura politica. Una struttura – per la maggior parte – certamente di stampo autoritario e conservatore (in senso generale), ma con caratteristiche ben diverse dal regime mussoliniano.
La formula “spintanea”: «Giuro di eseguire gli ordini del Duce»
La creazione del Partito fascista albanese, costituito il 23 aprile 1939 a Tirana, alla presenza del segretario del Partito nazionale fascista (Pnf), Achille Starace, fu un atto del tutto indotto e forzato, e suonava del tutto “spintanea” la formula con cui gli albanesi sancivano la loro adesione: «Giuro di eseguire gli ordini del Duce, fondatore dell’Impero e creatore della Nuova Albania, e di servire con tutte le mie forze e, se necessario, col mio sangue, la causa della Rivoluzione fascista». Così come ben poco originale si dimostrava lo statuto del partito unico d’Albania, emanato il 2 giugno, che, in piena consonanza di idealità e finalità comuni con quelle del Partito nazionale fascista si proponeva di perseguire «agli ordini di Benito Mussolini, creatore e duce del fascismo, la formazione politica degli albanesi, per il raggiungimento d’una sempre più alta giustizia sociale, secondo i principi della Rivoluzione fascista».
Benito Mussolini (Getty).
Prima del fascismo: il nostro interesse approfittando della crisi
Se anche riandiamo a prima dell’annessione, non si può dire che tra Italia e Albania i rapporti fossero esattamente di collaborazione spontanea e condivisa. Allo scoppio della Prima guerra mondiale, per esempio, quando l’Albania, che si era rifiutata di sostenere gli Imperi centrali, si ritrovò ad affrontare una gravissima crisi economica frutto delle ritorsioni dell’Austria e dei suoi alleati, l’Italia, approfittando del fatto di non essere ancora scesa in guerra e dunque più disponibile delle altre Potenze, decise di “occuparsi” dell’Albania e di proclamare solennemente «l’unità e l’indipendenza di tutta l’Albania sotto l’egida e la protezione del Regno d’Italia».
Ingerenza italiana nello Stato indipendente dell’Albania
L’influenza – o, meglio, l’ingerenza – italiana veniva poi ancor più sancita ufficialmente al termine della guerra, quando, nel dicembre 1919, una decisione alleata stabilì che l’Italia, su mandato della Società delle Nazioni, avrebbe amministrato lo Stato indipendente dell’Albania. E sarà sempre l’Italia a sostenere Zogolli (lo Zog I che poi fuggirà in Grecia) che, al termine di una sanguinosa guerra civile, si autoproclamerà prima presidente della Repubblica – con un escamotage giuridico-istituzionale ideato dal giurista fascista italo-albanese Terenc Toçi – e quindi, il primo settembre 1928, sempre con l’appoggio italiano, re degli albanesi. Forse una ripassatina della storia non farebbe male al premier albanese.
«La piazza è strapiena e ancora stanno arrivando dei pullman». Secondo fonti del Pd, sono circa 50 mila le persone che si sono ritrovate in piazza del Popolo a Roma. Dopo cinque anni, il Pd torna in piazza in una grande manifestazione nazionale che nelle intenzioni vuole rinsaldare i legami con il proprio “popolo”, come ha detto Elly Schlein, dopo “le fratture e le ferite degli anni scorsi”. Rinsaldare, ma anche costruire un’alternativa al governo di centrodestra: «Una piazza meravigliosa. Guardate che partecipazione, l’alternativa è qui intorno a noi», ha detto la segretaria del partito.
Bandiere in sostegno della Palestina alla manifestazione del PD in corso a Roma, nonostante il no del servizio d'ordine del partito pic.twitter.com/SCNOYQ7I4D
Al suo arrivo Schlein è stata accolta da una piazza gremita di militanti che le hanno rivolto un applauso con il coro “Elly, Elly, Elly”. Per loro, i suoi ringraziamenti: «Grazie a chi, in queste ore, sta arrivando da tutte le parti d’Italia a Roma in piazza del Popolo per dar vita a una piazza per la giustizia sociale e per la pace, per un futuro più giusto», ha dichiarato. «Un saluto e un applauso alle forze di opposizione che sono venute a trovarci», ha aggiunto salendo brevemente sul palco, sotto al quale erano presenti il presidente del M5s, Giuseppe Conte, i leader dei Verdi Angelo Bonelli e di Si Nicola Fratoianni. Per l’occasione sono stati mobilitati 175 pullman e 7 treni speciali: coinvolti anche 150 volontarie e volontari.
«Non si può ragionare a compartimenti stagni. Le persone non decidono di avere un solo problema. E spesso i più colpiti dalle diseguaglianze, dai tagli alla sanità e alle pensioni, dall’assenza di politiche per il cambiamento climatico sono sempre gli stessi: i più deboli». Sono le parole della segretaria del Pd Elly Schlein, che, intervistata da Repubblica, risponde alla domanda del giornalista sulle critiche legate a una “piattaforma di rivendicazioni troppo ampia”, con particolare riferimento alla prima manifestazione nazionale convocata dal Pd di Elly Schlein per sabato 11 novembre in piazza del Popolo, a Roma.
«Meloni ha fallito, serve un’alternativa credibile»
«A cosa serve avere una presidente del Consiglio che non si batte, con le sue scelte, per migliorare le condizioni di vita delle donne?», prosegue la segretaria. «Siamo l’unico paese dell’Ocse in cui i redditi famigliari sono diminuiti e il governo non fa nulla per il caro vita, per il caro energia e il caro bollette. E questi sarebbero quelli a favore della famiglia?». Schlein, che parla di “promesse tradite” da parte dell’attuale governo, aggiunge: «La Meloni ha fallito e noi sentiamo la responsabilità di costruire un’alternativa credibile e vincente. Dobbiamo unire le forze ma sui temi concreti, come quelli che portiamo oggi in piazza, e non sulle formule».
«Manovra iniqua che colpisce tutte le generazioni»
Sulla recente legge di bilancio in esame del governo Meloni, la segretaria sottolinea: «La realtà è che questa manovra è profondamente iniqua e riesce a colpire tutte le generazioni. Le nonne e i nonni sulle pensioni e la sanità, colpisce le madri e i padri aumentando le tasse sui pannolini, sui prodotti per la prima infanzia e persino sugli assorbenti, tradisce la promessa sui nidi gratuiti e non migliora le condizioni di vita delle famiglie e delle donne. E, infine, colpisce anche le figlie e i figli, perché non c’è nulla sul diritto allo studio, sul diritto alla casa e sul clima». Schlein, sull’ipotesi di tensioni in piazza del Popolo, non mostra preoccupazioni: «La posizione del Pd è molto chiara e chiede il cessate il fuoco umanitario per portare gli aiuti umanitari a Gaza, la protezione dei civili, il rilascio degli ostaggi e la ripresa del percorso di pace “due popoli, due Stati” con il sostegno della comunità internazionale. Siamo tutti d’accordo su questa piattaforma».
«Voi cosa volete fare, volete contare e decidere o stare a guardare mentre i partiti decidono per voi? Questa è la domanda che faremo se sarà necessario e quando sarà necessario». Guarda dritto in camera la premier Giorgia Meloni mentre con queste parole si rivolge agli italiani durante il video intitolato Appunti di Giorgia. Nonostante a un eventuale referendum sul premierato manchi più di un anno, la presidente del Consiglio non perde tempo e lancia il suo quesito ai cittadini. Sul protocollo d’intesa con Tirana per i migranti, si esprime invece definendolo «un modello per le altre nazioni dell’Unione europea». Chi non la pensa così, afferma «può dire quello che vuole ma non sostenere che vogliamo deportare qualcuno in una nazione candidata a entrare nell’Ue».
Elezione diretta del Presidente del Consiglio: basta giochi di palazzo, ribaltoni e trasformismo. Ecco cosa prevede la riforma costituzionale, con la quale vogliamo dare più potere agli italiani. pic.twitter.com/FsjHKklp3v
Con alle spalle le fotografie dei predecessori, rivolgendosi a loro, prosegue: «Solo uno è rimasto in sella cinque anni, Silvio Berlusconi» ma «con due governi diversi», ha sottolineato la premier. E ancora: «C’è uno spazio vuoto, dove comparirà anche la mia foto, alla fine del mio mandato. Ma ci vuole tempo, almeno 4 anni». Le difficoltà «sono molte» – spiega – «ma non c’è davvero niente che possa buttarci giù soprattutto fin quando c’è il consenso degli italiani». Cambiando scenografia, Meloni annuncia poi la sede del G7 italiano, dal 13 al 15 giugno 2024 in Puglia, nella Valle d’Itria, a Borgo Egnazia e termina affermando che la «sola endemica ragione» delle difficoltà storiche dell’Italia è la «debolezza della politica».