Dopo grandi tira e molla, fatti di vani tentativi di trovare qualche banca che se lo comprasse, lo Stato vende poco meno della metà della sua quota nel Monte dei Paschi. Lo ha deciso per il disperato bisogno di fare cassa, anche se i proventi dalla cessione di asset pubblici dovrebbero andare a riduzione del debito e non a ingrossare la spesa corrente. Ma anche per battere un colpo dopo aver annunciato un ambizioso piano di privatizzazioni che sulla carta dovrebbe fruttargli una ventina di miliardi. Ovviamente saranno molti di meno.
Lo Stato non porterà a casa i 9 miliardi investiti
Alla fine però la sua uscita dalla banca senese sarà comunque in perdita, nel senso che mai il Mef, titolare delle azioni, porterà a casa i 9 miliardi e passa che vi aveva investito per tenerla in piedi. Ma chi si accontenta gode, anche se ci sarebbe da fare un ragionamento sul come mai all’estero, soprattutto in America, i salvataggi dei grandi istituti di credito da parte dei governi si sono spesso trasformati in un lucroso affare.
Ita giace spersa nella terra di nessuno
Il Mef ha rotto gli indugi quando ha capito, nonostante le numerose proroghe generosamente concesse da Bruxelles, che un’altra banca italiana che si prendesse sulle spalle Mps non la avrebbe mai trovata. E l’idea del terzo polo da affiancare a Intesa e Unicredit sarebbe rimasta al palo. La banca guidata da Andrea Orcel, per lungo tempo l’indiziato numero uno all’acquisto, aveva giustamente preteso una dote importate, specie dopo quella che era stata data a Intesa quando rilevò le popolari venete sull’orlo della bancarotta. Significava un esborso di altri 4/5 miliardi da aggiungere ai capitali già profusi. Troppo anche per chi non vedeva l’ora di togliersi la grana senese e dedicarsi alle altre, ossia la privatizzazione di Ita, che al momento giace spersa nella terra di nessuno (in realtà un protettorato francese) dell’Antitrust europeo.
Su Tim il Mef dovrà scucire altri 2 miliardi
E infine Tim, perché la pubblicizzazione della rete dell’ex monopolista dei telefoni era un caposaldo del programma del centrodestra una volta entrato a Palazzo Chigi. Solo che per fare l’operazione, su cui dopo la decisione di vendere a Kkr pesa l’incognita dei soci francesi, il Mef dovrà scucire altri 2 miliardi. Insomma, soldi che entrano e soldi che escono, con il saldo ahinoi pesantemente negativo (si pensi solo alla quantità di denaro pubblico pompato nelle casse della spompatissima Alitalia/Ita).
Nelle mani dei fondi stranieri di private equity
Sono tutte operazioni che celano grandi ambizioni, ma che si devono scontrare con l’endemica penuria di risorse che un debito pubblico destinato a sfondare la soglia dei 3 mila miliardi brucia con voracità. Tradotto: il governo vorrebbe essere parte attiva nella creazione di campioni industriali nazionali, ma per farlo deve mettersi nelle mani dei fondi stranieri di private equity che i soldi sì ce li mettono, ma se li fanno pagare cari. La vicenda Autostrade, ma anche quella di Open Fiber che ha appena chiesto alle banche altri 2 miliardi, e quella di Tim sono lì a mostrare che i fondi sono tutt’altro che enti benefici felici di compiacere Giorgia Meloni, Giancarlo Giorgetti e compagnia cantante. Infatti sul capitale investito impongono rendimenti che sfiorano le due cifre. Quindi i governi, e non solo questo così fieramente sovranista, sono costretti a fare buon viso a cattivo gioco. Del resto nella sua lungimiranza il vecchio Enrico Cuccia lo aveva profetizzato che meglio non si poteva: per il fondatore di Mediobanca l’Italia era un Paese pieno di capitalisti e di aziende senza capitali. Che è esattamente la situazione con cui Palazzo Chigi deve fare in conti adesso.
La Bce ha deciso di lasciare i tassi d’interesse invariati. Si tratta della prima pausa dopo la serie di dieci aumenti consecutivi. Il tasso sui rifinanziamenti principali resta fermo al 4,50 per cento, quello sui depositi al 4 per cento, e quello sui prestiti marginali al 4,75 per cento. Lo comunica l’Istituto centrale al termine della riunione che si è tenuta ad Atene.
L’ultimo rialzo a settembre
L’ultimo rialzo, con cui la Banca centrale europea ha portato i tassi d’interesse a 4,5 per cento (alzandoli di un quarto di punto), risale allo scorso settembre. In quel caso il Consiglio direttivo ha sottolineato la necessità di «mantenere per un periodo sufficientemente lungo» i tassi per «un ritorno tempestivo dell’inflazione all’obiettivo».
La Bce ancora preoccupata per l’inflazione
Nel comunicato di oggi questa preoccupazione per l’inflazione è stata confermata. Si legge: «Ci si attende tuttora che l’inflazione resti troppo elevata per un periodo di tempo troppo prolungato. Inoltre perdurano le forti pressioni interne sui prezzi». La pausa è arrivata grazi al fatto che «l’inflazione ha registrato un netto calo a settembre, ascrivibile anche ai forti effetti base, e gran parte delle misure dell’inflazione di fondo ha continuato a diminuire. I passati aumenti dei tassi di interesse decisi dal Consiglio direttivo seguitano a trasmettersi con vigore alle condizioni di finanziamento, frenando in misura crescente la domanda e contribuendo pertanto alla riduzione dell’inflazione».
L’obiettivo della Bce è il ritorno al «2 per cento»
Il Consiglio direttivo, si legge ancora, «è determinato ad assicurare il ritorno tempestivo dell’inflazione all’obiettivo del 2 per cento a medio termine. In base alla sua attuale valutazione, il Consiglio direttivo ritiene che i tassi di interesse di riferimento della Bce si collochino su livelli che, mantenuti per un periodo sufficientemente lungo, forniranno un contributo sostanziale al conseguimento di tale obiettivo. Le decisioni future del Consiglio direttivo assicureranno che i tassi di riferimento siano fissati su livelli sufficientemente restrittivi finché necessario». Per questo la Bce resta «pronta ad adeguare tutti i suoi strumenti nell’ambito del proprio mandato per assicurare che l’inflazione ritorni all’obiettivo del 2 per cento».
Vigilia con sorprese dell’assemblea di Mediobanca del 28 ottobre, che dovrà rinnovare il consiglio di amministrazione. La cui lista, che riconferma Renato Pagliaro e Alberto Nagel alla guida dell’istituto, si confronterà con quella presentata da Delfin, la finanziaria della famiglia Del Vecchio che detiene il 20 per cento del capitale. E mentre ci si interroga cosa faranno i Benetton del loro pacchetto di voti, ecco spuntarne un altro dell’1 per cento che – a darne notizia è Il Sole 24 Ore – fa capo ai due imprenditori Giulio Gallazzi (è in molti cda pesanti, da Mediaset a Tim passando per Banca del Fucino) e Bernardo Vacchi, titolari rispettivamente di Sri Group, holding che investe soprattutto in piccole e medie aziende italiane, e di FinVacchi che ha nella Boato International (società leader nella produzione di membrane bituminose) il suo asset di maggior rilievo. Mistero però su dove i due indirizzeranno le loro preferenze. L’1 per cento sembra poca cosa, ma in una guerra dove le parti si fronteggiano all’ultimo voto, e insieme al novero dei piccoli pacchetti fuori dai due grandi schieramenti, può risultare decisivo nel far pendere l’ago della bilancia verso uno o l’altro dei contendenti. C’è dunque molta attesa per vedere come andrà a finire: se vince la lista del consiglio, tutto resta come prima per altri tre anni e gli sfidanti avranno diritto a due posti in cda. Se vince quella di Delfin saranno cinque i suoi rappresentati a entrare nel board.
Sussulti di capitalismo privato animano importanti partite industriali e finanziarie. L’armatore Gianluigi Aponte dopo una non lunghissima trattativa ha finalizzato il suo ingresso in Italo, la fortunata (in primis per chi ci ha investito dall’inizio) compagnia ferroviaria che dal 2012 fa concorrenza sull’alta velocità alle Ferrovie dello Stato. L’armatore, napoletano di origine ma svizzero di portafoglio, da tempo ambiva a fare un polo integrato dei trasporti che comprendesse navi, treni e aerei. Per questo si era offerto di rilevare Ita Airways insieme a Lufthansa, ma come si sa è andata a finire diversamente. Capito che dentro al governo agiva un partito che non aveva alcuna intenzione di mollare la greppia dell’ex Alitalia, ha giratoi tacchi e se n’è andato. Ora torna sulla scena, ma invece degli aerei ha comprato i treni.
Nel governo Meloni c’è qualcuno che ha interesse a traccheggiare
Si era sussurrato di un suo possibile rientro nella trattativa per la compagnia di bandiera sempre accanto ai tedeschi, ma alla fine si è ben guardato di dar seguito. Aponte ha capito che, nonostante le rimostranze di Giorgia Meloni sull’Europa matrigna che frena la vendita, anche dentro questo governo c’è qualcuno che ha interesse a traccheggiare. Magari adesso con la scusa che tra Italia e Germania i rapporti sono ai minimi termini. Sta di fatto che Ita è ancora lì, sotto l’ala protettiva dello Stato e le scorribande della politica determinata a scongiurarne la privatizzazione. Che, se non arriva, richiederà presto un altro pompaggio di denaro pubblico, che va ad aggiungersi agli oltre 15 miliardi che i contribuenti hanno pagato nel corso degli anni per volare italiano.
Mediobanca, con chi si schiererà la cassaforte dei Benetton?
Voltando pagina, l’altra partita che arriva a compimento è la presentazione della lista di minoranza che si confronterà con quella del consiglio di amministrazione per il rinnovo dei vertici di Mediobanca. È una lista di cinque nomi che sta molto sulle Generali, nel senso di assicurazioni. Combattenti e reduci eredi (ma forse sarebbe meglio dire Erede) della battaglia per sovvertire gli assetti del più importante gruppo finanziario del Paese. C’è Massimo Lapucci, ex segretario della Fondazione Crt schieratasi all’epoca con Caltagirone e Del Vecchio.. E poi Sandro Panizza, ex top manager di Generali, e Sabrina Pucci, già consigliera del Leone ed ex consorte dell’attuale amministratore delegato di Edizione Enrico Laghi. Il riferimento parentale viene buono non per metere il dito tra moglie e marito ma solo per la curiosità di sapere con chi si schiererà la cassaforte dei Benetton, che ha in pancia un 2 per cento di Mediobanca, non noccioline, specie se i contendenti dovessero giocarsela sul filo.
Il ddl capitali dove Fazzolari spinge e Giorgetti frena
Alessandro, il leader della famiglia, all’indomani della guerra su Trieste, dove dopo qualche titubanza si era schierato con la coppia Del Vecchio-Caltagirone, aveva dato all’ad di Piazzetta Cuccia Alberto Nagel garanzie sulla tenuta dell’attuale governance. Laghi, invece, aveva rimandato la resa dei conti alla imminente assemblea di fine ottobre, considerando Mediobanca e non Generali (di cui peraltro è azionista di riferimento) la madre di tutte le battaglie. Non la pensa così Caltagirone, che pone tutte le sue speranze di rivincita sul colosso triestino sul prossimo rinnovo dei vertici, nel 2025. Giusto in tempo, quindi, per approvare un ddl capitali molto penalizzante nei confronti delle liste del cda e molto favorevole nei confronti delle minoranze. Forse troppo, esagerando. Se n’è accorto il Mef, e infatti il ministro Giancarlo Giorgetti vuole modificarlo. Non solo per questo, in verità. Il ddl capitali nella sua attuale versione gode del convinto avvallo di Palazzo Chigi via l’autorevole imprimatur di Giovambattista Fazzolari, sottosegretario e braccio destro (e anche un po’ sinistro) della premier. Ma con l’aria che tira nei rapporti tra Fratelli d’Italia e la Lega non è affatto detto che la cosa passi liscia.
Quando al timone dell’Italia c’è un governo di centrodestra e lo spread si scalda, subito il riflesso pavloviano è automatico: 2011, tempesta finanziaria, crollo dell’esecutivo, fine politica di Silvio Berlusconi. Ora che siamo nel 2023, la situazione non sembra la stessa ma gli scossoni sotto Giorgia Meloni cominciano a farsi sentire. Cosa sta succedendo realmente? Il mercato obbligazionario dell’Eurozona è agitato per via di rendimenti su livelli che non si vedevano da 10 anni: i titoli di Stato sprofondano, mentre lo spread si allarga. Nella giornata di giovedì 28 settembre, quando il rendimento dei Btp ha sfiorato il 5 per cento, l’ormai famigerato differenziale tra Btp e Bund tedeschi è schizzato in modo allarmante oltre la soglia psicologica dei 200 punti, per poi chiudere a 193. L’approvazione da parte del governo Meloni della Nadef, la Nota di aggiornamento al documento di economia e finanza, non ha riacceso la fiducia dei mercati verso il nostro Paese. Tutt’altro: anche secondo il Financial Times la crescita del mercato dei bond europei è causato principalmente dai progetti di maggior indebitamento illustrati dal nostro ministro del Tesoro Giancarlo Giorgetti alla Camera.
Il deficit in rialzo dell’Italia e il debito pubblico stabile preoccupano l’Europa
Giorgetti ha annunciato che per il 2024 è stato fissato un rapporto deficit/Pil al 4,3 per cento, ben superiore dunque al limite del 3 per cento previsto dai Trattati dell’Unione europea. La decisione permetterebbe di mantenere gli interventi essenziali a favore dei redditi medio-bassi, insieme a consistenti stanziamenti per il rinnovo dei contratti del pubblico impiego. Il deficit in rialzo fa paura all’Europa, insieme al debito pubblico previsto stabile al 140 per cento, perché attorno ci sono altri elementi di incertezza. Per esempio le previsioni sulla crescita economica, giudicate (troppo) ottimistiche. E un possibile incremento delle emissioni, su un mercato che potrebbe non essere in grado di assorbire l’offerta. E così il 28 settembre i prezzi dei titoli di Stato europei sono crollati bruscamente, su un mercato obbligazionario già turbato dalla decisione della Banca centrale europea di aumentare ancora i tassi di interesse per abbassare l’inflazione.
Dalla Francia alla Spagna, la spia rossa dello spread si è accesa dappertutto
La spia rossa dello spread si è accesa in tutta Europa. In Italia, come detto, il rendimento a 10 anni è salito di 0,12 punti percentuali fino al 4,89 per cento, il livello più alto dal 2013, per uno spread schizzato sopra i 200 punti. Ma dal 2,83 al 2,93 per cento sono saliti anche i rendimenti degli stessi Bund tedeschi, benchmark su cui vengono calcolati gli spread dei titoli degli altri Paesi dell’eurozona. In Francia, dove il governo è stato criticato dall’autorità di vigilanza fiscale per non aver tagliato la spesa pubblica abbastanza da evitare di violare le regole fiscali dell’Ue nel 2024, il rendimento a 10 anni è balzato a oltre il 3,5 per cento, livello più alto dal 2011. Ai massimi da un decennio anche i titoli di Stato in Spagna, saliti oltre il 4 per cento. Piet Haines Christiansen, direttore della ricerca sul reddito fisso alla Danske Bank, ha detto al Financial Times che il mercato obbligazionario si trova nel pieno di una «tempesta perfetta», in cui il sell-off delle obbligazioni è stato guidato dalle revisioni dei deficit di Italia e Francia, dagli alti tassi di interesse e dall’aumento del prezzo del petrolio. Tra l’altro non si parla solo di Eurozona, visto che i rendimenti decennali sono aumentati leggermente anche nel Regno Unito, così come negli Stati Uniti.
Il differenziale è schizzato molto in alto, ma non deve far preoccupare (per ora)
Il differenziale tra i Btp italiani decennali e i Bund tedeschi è l’indicatore che si muove quando cambia la percezione dei mercati rispetto al rischio Paese. Gli investitori internazionali guardano sempre con una certa cautela verso l’Italia, che si porta dietro il peso di un debito storicamente troppo alto rispetto al Pil. In questo caso, sottolineano da più parti gli analisti, il balzo in alto dello spread non deve far preoccupare eccessivamente: il governo gode infatti di una maggioranza solida e i fondamentali dell’economia sono migliori rispetto al 2011, quando si verificò la pesante crisi del debito sovrano italiano. Secondo l’economista e professoressa della London Business School Lucrezia Reichlin, interpellata da La Stampa, il pericolo maggiore arriverà nel 2024: «Credo che la reazione dei mercati sia temporanea, ma questo dipenderà anche dalla reazione della Commissione e dei partner europei. Gli investitori non apprezzano le tensioni tra l’Italia e l’Europa. Il ministro Giorgetti ha detto di non voler fare nulla di pro-ciclico, ma l’anno prossimo l’economia andrà peggio».
In un’italica finanza di calma relativamente piatta, l’unica increspatura arriva dalla partita Mediobanca. Non è uno scontro epocale, ma è comunque una vicenda che tocca gli equilibri del sistema. Nella banca che fu di Enrico Cuccia governa da tempi immemori una diarchia la cui amalgama ha sin qui retto a tutte le forze d’urto che hanno tentato di disgregarla. Riducendo a miti consigli anche chi, come Cesare Geronzi, sulla carta era un avversario nettamente più forte.
Tutti pensavano che Milleri si sarebbe accontentato dei dividendi…
Ora, non ci sarebbe nulla di strano che Renato Pagliaro e Alberto Nagel, dopo anni di felice (con)dominio, avessero voglia di fare altro nella vita. Ma siccome non pare sia così, oltre al ricambio generazionale non c’è motivo di eccepire sul fatto che vogliano restare, forti anche di risultati che fanno contenti tutti i soci, compreso chi li vorrebbe cacciare. E qui veniamo al punto. Tutti pensavano che, morto Leonardo Del Vecchio, il suo successore alla guida dell’impero, Francesco Milleri, si sarebbe accontentato di incassare i pingui dividendi che ogni anno gli arrivano da Milano. E questo per diverse ragioni. La prima è che il suo investimento nella storica banca d’affari è sotto tutela della Bce: non può aumentare senza chiederle il permesso, non può ambire a comandare avendo la sua partecipazione carattere esclusivamente finanziario.
Nel mirino c’è Pagliaro, reo di essersi messo di traverso a Del Vecchio
Piccolo antefatto per capire gli sviluppi. Del Vecchio aveva cominciato a scalare Mediobanca per uno sghiribizzo di pancia. Voleva diventare il padrone dello Ieo, l’istituto europeo di oncologia nato e cresciuto sotto l’egida di Mediobanca, ma proprio Pagliaro gli ha sbarrato la strada. Da allora il patron di Luxottica, invece che abbozzare e godersi soldi e successo, s’è messo in testa di scalare Piazzetta Cuccia. Puntando proprio Pagliaro, reo di esserglisi messo di traverso. Fedele alle consegne e ai rancori del fondatore, in questo suo tentativo di rovesciare la governance dell’istituto, Milleri ha messo nel mirino proprio Pagliaro, non l’ad Nagel. Ma, come è noto, la ricerca di un’alternativa che mettesse d’accordo i contendenti non è andata a buon fine. Ci voleva un personaggio super partes, che piacesse a tutti. Ma se ne sono trovati solo di partes.
I figli di Leonardo però sconfessano la linea sul dossier
Alla vigilia del deposito della lista per il nuovo consiglio di amministrazione, resta ora solo da vedere se quella che competerà con quella collaudata del cda sarà lunga o corta. Sempre, è bene ricordarlo, di minoranza, anche se avere cinque consiglieri al posto di due qualche fastidio ai guidatori lo può dare. Intanto però sul fronte degli attaccanti si è levato un fuoco amico. Tre dei sei figli di Leonardo si sono rivolti a Delfin, la finanziaria della famiglia che ha in portafoglio le azioni Mediobanca, per sapere se le mosse di Milleri siano state autorizzate dal cda o siano il frutto di una sua personale iniziativa. Una sconfessione, insomma, del suo operato sul dossier.
Un malessere sulla questione ereditaria che non guarisce
Avrebbero sicuramente preferito una soluzione diversa, per esempio la distribuzione pro quota agli eredi delle azioni in modo che ognuno ne avrebbe disposto a piacimento. Questa guerra, ai loro occhi, non s’aveva da fare. L’iniziativa è la spia di un malessere sulla questione ereditaria nato all’indomani della morte di Leonardo, in particolare sui 360 milioni che il fondatore ha lasciato al suo braccio destro Milleri. Il quale, invece che cercare di calmare le acque, le ha agitate ancora di più chiedendo alla famiglia di essere sgravato anche dai 50 milioni di tasse che deve al Fisco. Risultato? Spaccatura con il manager ma anche interna al clan Del Vecchio, dove i figli sono equamente divisi tre contro tre, con il primogenito Claudio che tenta di ricucire e il più giovane, Leonardo Maria, che lavora in Luxottica, schierato decisamente con il suo ad.
Leonardino aveva provato a imparentarsi con Mediobanca con un matrimonio
Leonardino, per curiosità, si era simbolicamente imparentato con Mediobanca sposando la nipote di Vincenzo Maranghi, per oltre 40 anni il più fedele collaboratore di Cuccia. Ma il matrimonio è durato molto meno di un segretario del Pd, e lui forte di prestanza ed esuberanza è tornato a popolare le pagine dei settimanali di gossip con le sue nuove conquiste. Aveva in verità anche rilasciato una seriosa intervista al Corriere della sera, in cui oltre a supportare incondizionatamente Milleri si era spinto a dire che tutti in famiglia condividevano l’assunto. Come si vede, non era proprio così.
Tira una brutta aria sul governo Meloni, ed è vento di tempesta finanziaria. I mercati sono tornati a mettere sotto pressione l’Italia dopo il varo della Nadef, la Nota di aggiornamento di economia e finanza in cui è stato stimato un innalzamento del rapporto deficit/Pil, che passa dal 4,5 per cento del Def al 5,3 per cento. In più ci si è messo anche il debito pubblico, che come ha comunicato la Banca d’Italia è aumentato a luglio 2023 di 10,4 miliardi rispetto a giugno, risultando pari a 2.858,6 miliardi di euro. Risultato? Il ritorno dei vecchi fantasmi dello spread, che fecero crollare l’ultimo governo Berlusconi a fine 2011. Il differenziale tra Btp e Bund tedeschi è salito toccando i 200 punti base. Un livello che non si vedeva da febbraio. Il rendimento del decennale italiano è al 4,94 per cento. La cartina di tornasole del “rischio” Paese ci sta comunicando qualcosa. E per Giorgia Meloni non sono buone notizie.
La presidente della Bce Christine Lagarde, nel rispondere agli eurodeputati della commissione Econ a Bruxelles, ha dichiarato: «Il 30 per cento delle famiglie negli Stati membri hanno mutui a tasso variabile. È dura, lo sappiamo». L’argomento è stato il rialzo dei tassi d’interesse e Lagarde ha lanciato un messaggio, sottolineando che «abbiamo bene in mente quanto dolore infliggono».
La presidente ha poi aggiunto: «Sappiamo anche che il prezzo della benzina alla pompa e i prezzi dell’energia in generale pesano fortemente sulle famiglie a basso reddito. Lo sappiamo, ma sappiamo anche che la nostra missione, il nostro dovere è riportare l’inflazione all’obiettivo in maniera tempestiva. Più rapidamente ci tornerà e più stabili torneranno i prezzi, meno dura sarà andare avanti, sia per coloro che hanno investito sia per coloro che si sono indebitati». E guardando al prossimo futuro ha continuato «stiamo conducendo una revisione completa del quadro operativo per la gestione dei tassi di interesse a breve termine, valutando i costi e i benefici dei regimi alternativi. Il nostro obiettivo è concludere questa revisione entro la primavera del 2024 e, ovviamente, riferiremo a questa commissione sui risultati».
Previsto il calo dell’inflazione al 2,1 per cento nel 2025
Lagarde ha parlato poi delle previsioni della Bce sull’inflazione. Dovrebbe «calare dal 5,6 per cento nel 2023 al 3,2 nel 2024 e al 2,1 nel 2025. Sulla base della nostra ultima valutazione, riteniamo che i nostri tassi ufficiali abbiano raggiunto livelli che, mantenuti per un periodo sufficientemente lungo, forniranno un contributo sostanziale al tempestivo ritorno dell’inflazione al nostro obiettivo». E ha concluso: «In ogni caso le nostre decisioni future garantiranno che i tassi di interesse di riferimento della Bce saranno fissati a livelli sufficientemente restrittivi per tutto il tempo necessario. Continueremo a seguire un approccio dipendente dai dati, basando le nostre decisioni sulla nostra valutazione delle prospettive di inflazione alla luce dei dati economici e finanziari in arrivo, delle dinamiche dell’inflazione di fondo e della forza della trasmissione della politica monetaria».
La Banca Centrale Europea ha deciso di alzare i tassid’interesse di un quarto di punto percentuale, portando il tasso sui rifinanziamenti principali al 4,50 per cento, quello sui depositi al 4 per cento e quello sui prestiti marginali al 4,75 per cento. In un comunicato, la Bce ha sottolineato che se i tassi «resteranno così a lungo», l’inflazione «sarà domata». Si tratta del decimo rialzo consecutivo. L’ultimo è stato il 27 luglio scorso, quando il tasso è stato portato dal 4 al 4,25 per cento, con un aumento di 25 punti base anche in quel caso.
La Bce: «Mantenere i tassi per portare l’inflazione all’obiettivo»
La Banca Centrale Europea ha spiegato che il Consiglio direttivo «ritiene che i tassi di interesse di riferimento della Bce abbiano raggiunto livelli che, mantenuti per un periodo sufficientemente lungo, forniranno un contributo sostanziale a un ritorno tempestivo dell’inflazione all’obiettivo. Le decisioni future del Consiglio direttivo assicureranno che i tassi di interesse di riferimento della BCE siano fissati su livelli sufficientemente restrittivi finché necessario». Il Consiglio «continuerà a seguire un approccio guidato dai dati nel determinare livello e durata adeguati della restrizione».
Decisivo il rialzo delle stime di inflazione
La decisione è stata presa dopo il rialzo delle stime sull’inflazione, passate al 5,6 per cento nel 2023, al 3,2 per cento nel 2024 e al 2,1 per cento nel 2025. Per la Bce si tratta dell’effetto «dell’evoluzione più sostenuta dei prezzi dell’energia». Nel comunicato ha specificato: «L’inflazione continua a diminuire, ma ci si attende tuttora che rimanga troppo elevata per un periodo di tempo troppo prolungato. Il Consiglio direttivo è determinato ad assicurare il ritorno tempestivo dell’inflazione all’obiettivo del 2 per cento nel medio termine». Per questo «ha deciso oggi di innalzare di 25 punti base i tre tassi di interesse».
Ci fosse ancora Enrico Cuccia, o il suo fedele scudiero Vincenzo Maranghi, a calpestare i corridoi del piano nobile di via Filodrammatici ora Piazzetta titolata al fondatore, la partita si sarebbe risolta in un attimo. O forse non si sarebbe nemmeno giocata perché, si sa, dentro le mura di quel palazzo valeva la regola per cui i numeri si pesano, non si contano. E soprattutto, almeno nel caso della autorevole maison, sono i controllati a comandare sui controllori. È vero, quella Mediobanca da tempo non c’è quasi più, eppure lo spirito che per decenni l’ha pervasa è duro a morire: indipendenza dei manager corroborata da ottimi risultati, autonomia dalla politica. Nonché appunto dagli azionisti, fossero le tre banche pubbliche di una volta (Roma, Comit e Unicredit) o i nuovi barbari alle porte – citazione in omaggio alla visita di Henry Kravis, una delle mitiche due K di Kkr, a Milano – che al momento vestono i panni più rassicuranti di Francesco Milleri, erede designato da Leonardo Del Vecchio al comando di Luxottica.
L’idea osé di Milleri: indicare il nuovo presidente
Ora succede che, in vista della scadenza ottobrina del cda della più blasonata banca d’affari italiana, il nuovo re Mida di Agordo si sia messo in testa non di comandare, che sarebbe pretesa velleitaria con la Bce che fucile puntato ne controlla le mosse, ma di contare di più. Ha il 20 per cento, e vorrebbe non solo che il nuovo consiglio ne tenesse conto, richiesta più che legittima, ma che come segno tangibile gli riconoscesse il diritto di indicare il presidente. Un’idea talmente osé per l’aurea tradizione dell’istituto che solo a evocarla i numi dell’Olimpo mediobanchesco scagliano fulmini e saette. Anche perché colui che da quasi 20 anni è seduto su quella poltrona passa come il custode del suo spirito primigenio, il depositario delle tavole della legge ricevute in punto di morte da Maranghi, che a sua volta le aveva avute da Cuccia e se possibile le aveva interpretate ancora più rigidamente di quanto avesse fatto il fondatore. Il colui si chiama Renato Pagliaro: ha messo piede per la prima volta in Mediobanca nel 1981 (Piero Angela esordiva con Quark, Alfredino rimaneva vittima del pozzo e Indiana Jones debuttava al cinema) e da allora non è più uscito. E non dovrebbe uscirci nemmeno col prossimo rinnovo del cda, perché al momento non c’è un candidato alternativo che lo possa insidiare.
Da Grilli a Pignatti, da Valeri a Grieco, i candidati scartati
Pagliaro, per chiarire, oltre che il garante di un’ortodossia se pur mitigata dall’usura del tempo, non è un presidente di rappresentanza. È uno che conosce a menadito la delicata macchina della governance dell’istituto, che cavalca le onde perigliose di statuti, comitati, clausole, patti e contro patti almeno quanto gli piace fare su strada con la sua Harley-Davidson. Si capisce bene perché Alberto Nagel, l’amministratore delegato altro prodotto del vivaio interno, non vi voglia rinunciare a cuore leggero. Anche se, fedele a uno dei comandamenti della casa, l’interesse dell’istituzione mai può essere sacrificato a quello del singolo. E infatti, da quando è cominciato il balletto sui futuri equilibri, Pagliaro invita Nagel ad avere in tasca un piano B che preveda la loro separazione. Ma il secondo non ci sente, aiutato anche dal fatto che i nomi proposti da Milleri sono stati respinti al mittente come “unfit”. Certo che se butti nella mischia uno dei tuoi storici consulenti, l’ex ministro Vittorio Grilli, ora banchiere di vaglia con JPMorgan e idolo di tutti i mariti italiani per una sentenza sul suo divorzio che ha fatto cassazione, il no è automatico. Altri papabili sono durati meno dello spazio di un mattino: Vittorio Pignatti, già in consiglio ed ex protagonista della Lehman Brothers italiana nei suoi anni ruggenti; Flavio Valeri, che fu capo di Deutsche Bank in Italia e dava del tu a Merkel; infine Patrizia Grieco, che sarebbe stata la prima volta di una donna alla presidenza in una banca dove, nonostante la divisione di genere ottemperi alle buone pratiche, il comando è maschio al punto che ci si ricorda della moglie del fondatore, al cui fianco mai compariva, solo per la bizzarria del nome: Idea Nuova Socialista. Per mettere d’accordo tutti ci vorrebbe, spiegano gli esegeti, una figura a cui non si può dire di no, tipo Mario Draghi se l’ex premier non avesse deciso di giocarsi un’altra partita altrove. Ma tirarlo fuori è come trovare un ago nel pagliaio. Anzi, nel Pagliaro, che quindi a due settimane dal deposito delle liste resta di gran lunga il favorito.
Le richieste di Milleri sembrano pensate per scatenare la bagarre
Però la tigna di Milleri, che forse inizialmente è stato sottovalutato, ha sorpreso un po’ tutti. Si pensava che, morto Del Vecchio, il manager umbro tenesse la pratica in letargo e si limitasse a godere dei pingui dividendi che gli arrivano da Milano. In fondo l’aveva ereditata per un’impuntatura del re degli occhiali, che voleva mettere le mani sullo Ieo, l’Istituto oncologico (altra creatura di Cuccia gelosamente affidata alle cure di Pagliaro), ed è stato respinto senza complimenti. Si pensava che avesse beghe in casa sua tali da dissuaderlo a fare battaglie fuori, visto che almeno quattro eredi Del Vecchio: Clemente, Luca, la moglie Nicoletta Zampillo e il di lei primo figlio Rocco Basilico non hanno ancora digerito il lascito monstre di 360 milioni di euro lasciatigli dal padre-marito. E soprattutto che il Milleri ci abbia aggiunto a carico anche 51 milioni di tasse. Invece, e nel distretto della finanza meneghina si sussurra anche perché spinto dal sempre pugnace Sergio Erede, lo storico avvocato del gruppo, il manager ha alzato il tiro con richieste (presidente, radicale rinnovamento e non maquillage del cda) che sembravano pensate apposta per farsi dire di no. E dunque scatenare la bagarre. Come andrà a finire lo si scoprirà presto. Per ora grandi brividi non ne corrono, se non sapere cosa sceglierà Agordo: lista lunga o lista corta, sempre di minoranza ovviamente se no chi li sente a Francoforte.
Il silenzio del convitato di pietra Caltagirone
Dimenticavamo. Nella vicenda c’è anche un altro protagonista, un convitato di pietra che per ora resta silente, senza però rinunciare a muoversi sottotraccia. In fondo lui, Francesco Gaetano Caltagirone, ha sempre sostenuto che la partita che gli interessava si giocava a Trieste e non a Milano, per quanto Generali e Mediobanca abbiano un rapporto di colleganza simile a quello della conchiglia col paguro bernardo. In fondo controlla pur sempre il 10 per cento dell’istituto, quindi impensabile possa restare indifferente. Ma siccome è dotato, oltre che di tanti soldi, di raffinata sagacia, si guarda bene dall’infilarsi in una tenzone il cui esito rischia di evocare gli spettri della battaglia persa a Trieste. Del resto gioca sui tempi lunghi, convinto che l’allora vittoria di Piazzetta Cuccia in Generali sia di Pirro e che inevitabilmente, basta saper attendere, gli assetti di quella che una volta si chiamava la galassia del Nord siano destinati a cambiare. Viene in mente di quando Maranghi, ogni volta che Mediobanca era sotto schiaffo (vuoi per la politica, vuoi per l’intraprendenza di qualche capitalista di ventura poi finito male), riversava su Cuccia le sue paure. Che il grande vecchio bonariamente irrideva. «Caro Vincenzo, è caduto l’impero romano vuole che non cada Mediobanca?». Sì, cadrà certamente anche Mediobanca, almeno questa che per certi versi, almeno nei suoi uomini, mantiene un filo con la stagione che fu. Ma non adesso, si dia tempo al tempo. Intanto i barbari alle porte devono restare ancora accampati ad aspettare.
Dopo un mercoledì nero, con Piazza Affari che ha perso l’1,54 per cento risultando la Borsa peggiore tra le europee, c’è attesa per l’apertura di giovedì 7 settembre. Lo spread ha chiuso a 175 punti base, in risalita. Su tutto il Vecchio continente si sono riaccese le preoccupazioni sulla crescita economica e l’inflazione.
Dopo una giornata da venti di recessione, con tutte le Borse europee deboli e Milano che ha chiuso la seduta a Piazza Affari di qualche frazione positiva, c’è attesa per l’apertura delle contrattazioni il 6 settembre. Le peggiori martedì sono state Parigi e Francoforte, che hanno ceduto lo 0,3 per cento finale, con Madrid in ribasso dello 0,2. Più caute Londra, che ha chiuso in calo dello 0,1 per cento, e Amsterdam, che ha concluso sui livelli della chiusura della vigilia.
Sulla discussa manovra del governo Meloni sugli extraprofitti bancari si sono pronunciati praticamente tutti: politici, economisti, opinionisti. Ma è sin qui mancata, almeno ufficialmente, la voce più importante, quella dei banchieri. Ossia i grandi amministratori delegati ed esponenti di peso degli istituti che saranno oggetto del prelievo della “tassa Robin Hood” (come l’ha ironicamente definita Alberto Forchielli), che secondo le stime degli analisti potrà valere tra i 2 e i 2,5 miliardi di euro complessivi.
Messina e Orcel si erano espressi quando l’ipotesi era allo studio
Carlo Messina e Andrea Orcel, rispettivamente ceo di Intesa Sanpaolo e Unicredit, nei mesi scorsi avevano parlato della tassa quando ancora era solo un’ipotesi allo studio, anche se il ministero dell’Economia assicurava che sarebbe rimasta tale. Bocciata dal numero uno di Piazza Gae Aulenti, l’idea non era stata invece respinta da Messina, a patto che i suoi proventi andassero in politiche redistributive. E se da un lato questa diversità di posizioni rifletteva attitudini diverse da parte dei due colossi del credito – Unicredit in pieno rilancio e con il titolo in gran spolvero, Intesa più governista nella sua tradizionale vocazione a essere banca di sistema -, dall’altro è la testimonianza che le grandi banche danno al governo Meloni il beneficio del dubbio.
I top manager hanno scelto il silenzio per non agitare i mercati
A oggi, gli istituti di credito sembrano tranquillizzati dei paletti messi dal Mef al prelievo, che dopo le prime dichiarazioni in conferenza stampa di Matteo Salvini lunedì 7 agosto che evocavano la mano pesante hanno definito cosa sia un “extraprofitto” e limitato il prelievo agli utili conseguiti entro il 31 dicembre 2023. E visto che i mercati sono tutto fuorché pienamente razionali e pesano ogni parola, i top manager hanno saggiamente ritenuto opportuno seguire il motto che fu di Guido Carli: «Il silenzio vale molto più di regole declinate all’infinito».
Ingoiare la pillola ed evitare la percezione di un conflitto
Del resto, di fronte a un clima sociale surriscaldato da carovita e difficoltà economiche ereditate da pandemia e guerra in Ucraina, sfide per le banche che vanno dai finanziamenti al Piano di ripresa e resilienza (Pnrr) alla gestione dei crediti incagliati per i bonus edilizi, partite globali legate ai rialzi dei tassi d’interesse e dell’inflazione e un sostanziale consolidamento nel sistema creditizio nazionale, aprire un fronte conflittuale col governo non conviene. Si è preferito ingoiare la pillola, indorata dalle limitazioni rassicuranti del Tesoro, piuttosto che dare corda a ciò che la grande stampa finanziaria internazionale, a partire dal Financial Times, stava già segnalando: la percezione di una guerra tra il governo conservatore di Giorgia Meloni e i mercati finanziari.
Un quarto del debito pubblico italiano è in pancia alle banche
In una fase in cui utili e stress-test europei premiano la finanza italiana e i suoi risultati, sia a livello di banche di raccolta sia di banche d’affari, mettere a repentaglio la stabilità del sistema-Paese mettendosi di traverso avrebbe aperto alla prospettiva di un indebolimento sui mercati e, dunque, di turbolenze su quei 639 miliardi di euro di Btp che, secondo i dati più recenti, le banche italiane tengono in pancia. Pari a oltre un quarto (il 26 per cento) di quel debito pubblico italiano in un Paese che tra Pnrr e investimenti strategici ha bisogno di un virtuoso sistema del credito per vincere le sfide che lo attendono.
Linea soft dopo le sparate salviniane sui “banchieri nemici del popolo”
I chiarimenti di Meloni e Giancarlo Giorgetti sulla tassa nei giorni successivi alla sua introduzione hanno, al contempo, dato ai banchieri una sponda su un tema che, in conferenza stampa, lunedì sera Salvini sembrava aver dimenticato: la premier e il titolare del Mef hanno, con dichiarazioni e chiarimenti formali, collegato alla grande situazione internazionale data dall’aumento dei tassi della Banca centrale europea e alla crescita del costo del denaro la nuova imposta una tantum. Diversamente, il leader del Carroccio era sembrato additare i banchieri come nemici del popolo, suscitando reazioni critiche negli osservatori finanziari.
Il governo multiforme, ora liberale ora statalista, non passerà in fretta
Ciò non toglie che la vicenda extraprofitti sia la prova di un rapporto tra i nuovi inquilini di Palazzo Chigi e la comunità finanziaria che abbisogna di molto rodaggio. Se da un lato Meloni non ha ancora appieno preso contezza della complessità dei meccanismi del potere economico-finanziario nel Paese e della loro articolata profondità di rapporti umani e professionali, come si è visto in occasione delle nomine e del dietrofront dopo un’iniziale tendenza a presentarsi come pigliatutto, dall’altro nel mondo economico e imprenditoriale c’è la consapevolezza che l’attuale stagione politica sia tutt’altro che passeggera. E che dunque andrà capita la traiettoria di un governo multiforme, ora liberale ora statalista, ora moderato ora radicale, guidato da una premier sovranista a casa e draghiana all’estero, e quali tendenze prevarranno nella sua agenda politica, economica, istituzionale.
Alla fine, il pasticcio del prelievo forzoso sui bilanci delle banche ha trovato una sua plausibile spiegazione, o almeno non appare solo una coincidenza sfortunata nella successione degli annunci nella stessa settimana: il governo ha voluto prendere brevi manu dagli istituti di credito parte (inizialmente dovevano essere tutti) dei 4,6 miliardi di euro che servono per pagare a Tim il 20 per cento della rete, che sarà la partecipazione di minoranza del Mef a supporto del fondo Kkr. Cosa evidentemente diversa dall’aiuto ai giovani per i mutui prima casa, oppure dall’attenzione ai più deboli o dai sostegni alle imprese. E si capisce ora anche perché Giorgia Meloni non ha parlato, nemmeno informalmente, con alcuni banchieri per decidere insieme come destinare risorse a garantire i mutui per la prima casa ai giovani. Oppure prestiti a condizioni più favorevoli per incoraggiare l’apertura di nuove attività per giovani, o magari anche per anziani vogliosi di rimettersi in gioco, impiegando quegli utili che la bolla dell’inflazione ha portato agli istituti di credito dopo anni di bilanci più magri a causa dei bassi tassi d’interesse.
Salvini si è mosso come un elefante in cristalleria
Ma stupisce, e non è certo un dettaglio, il modo: l’esecutivo ha agito “di pancia” per mostrarsi decisionista, oltretutto facendo mettere il primo sigillo alla decisione di tassare i cosiddetti extraprofitti a un elefante in cristalleria come il ministro delle Infrastrutture e capo della Lega, Matteo Salvini. Mentre Giancarlo Giorgetti, ossia il più titolato in quanto ministro dell’Economia, se ne restava in disparte. E dunque la domanda è: era proprio necessario, essendo un esecutivo politico, dare l’idea di governare per rispondere a pulsioni presunte-identitarie («non abbiamo paura di colpire le banche») di un presunto elettorato originario? Quando invece l’obiettivo davvero politico dovrebbe essere quello di allargare i consensi, di occupare non tanto il centro politico, ammesso che esista, ma il centro degli interessi reali del Paese, del presidio del buon senso e della buona amministrazione, sapendo che con i diktat (più di comunicazione che di sostanza) in una democrazia parlamentare non si va da nessuna parte. E infatti Forza Italia fa da contraltare alla Lega per modificare la misura nel dibattito che ci sarà in sede di approvazione alla Camera e al Senato. Anche perché il provvedimento va dritto a colpire Mediolanum, uno dei gioielli della corona Fininvest, toccando nel vivo gli interessi della famiglia Berlusconi.
La ferita alla reputazione agli occhi degli investitori resta
Anche ammettendo le buone intenzioni del governo e non solo la necessità di trovare le risorse per comprare il 20 per cento della rete Tim (la stessa, peraltro, ceduta a quattro soldi alcuni decenni fa al cosiddetto “nocciolino duro” capitanato dall’allora Ifil, finanziaria della famiglia Agnelli) e dando ovviamente per scontato lo spirito di collaborazione dei banchieri più attenti alla coesione sociale del Paese, il risultato della pulsione “prestazionale” di Salvini prima e della premier dopo è magro: sì, le banche hanno recuperato parte della capitalizzazione persa in Borsa martedì 8 agosto, ma la ferita alla reputazione complessiva del sistema politico-economico italiano agli occhi degli investitori internazionali resta. E, oltretutto, la coincidenza con l’acquisto del 20 per cento della rete Tim prova che non vi è nessuna garanzia che le risorse così reperite (comunque all’incirca la metà di quanto previsto) siano destinate a chi, come i giovani, possano dare con la spinta di un incentivo mirato, all’acquisto della prima casa oppure al finanziamento di un’attività in proprio.
Il bottino non servirà a imbastire la legge di bilancio d’autunno
Infatti, il “bottino” strappato alle banche viene impegnato ancor prima di essere materialmente riscosso (va approvato il decreto) e dunque è come se non confluisse nemmeno nel calderone delle decine di miliardi che servono per imbastire la legge di bilancio d’autunno, scolorendosi nel mare dei bisogni da coprire. Addio a ogni finalizzazione di scopo, quella che poteva essere concordata con gli istituti di credito e facilmente sottoposta a verifica del raggiungimento degli obiettivi che il governo stesso avrebbe potuto (e magari dovuto) porre. Evitando così le perdite finanziarie e quelle reputazionali, che pesano persino di più. E, soprattutto, dando mostra di capacità di moral suasion o, se vogliamo dirla tutta, anche di leadership, che non vuol dire mostrare i muscoli e poi passare ad altro, ma ottenere risultati tangibili per la comunità. Risultati che poi si traducono in consensi stabili e non solo in fugaci e illusorie impennate di sondaggi, che tra l’altro lontano dalle elezioni valgono poco o nulla.
Forse era meglio trovare una soluzione concordata
C’è infine da chiedersi se valeva la pena di andare al muro contro muro con le banche (le quali hanno incassato il colpo in silenzio) mentre era possibile una soluzione concordata con l’occhio all’obiettivo sociale che si voleva realizzare e che evidentemente è di interesse comune di governo e mondo del credito: i clienti del primo sono i cittadini che poi votano, quelli delle seconde sono gli stessi cittadini nelle loro vesti di sottoscrittori di mutui (peraltro già fermi da diversi mesi causa tassi elevati), di polizze e di conti correnti. Senza dimenticare che il 50 per cento dell’inflazione deriva, secondo le stime di Bankitalia e Banca centrale europea, dai profitti delle imprese, ovviamente anche e soprattutto quelle commerciali che gestiscono il passaggio tra produttore e consumatore e che spesso sono molto solerti a denunciare gli alti tassi e molto meno a tenere sotto controllo i prezzi finali che determinano l’inflazione. E non parliamo solo di zucchine e di ciliegie.
Ogni giorno politici, manager e banchieri d’affari spendono una parte significativa del loro tempo a dialogare con investitori istituzionali esteri, con lo scopo di convincerli a investire nelle aziende del nostro Paese. In primis perché la gran parte sono realtà eccezionali, leader globali in settori di nicchia, fondate da imprenditori unici: creativi, competenti e appassionati. La principale perplessità che devono affrontare riguarda l’incertezza delle regole nel nostro Paese e le ripercussioni che ne derivano sullo scenario, a cominciare dall’impatto di repentini e inaspettati cambiamenti delle regole fiscali.
L’annuncio dell’imposta straordinaria sulle banche disincentiva gli investitori esteri
La manovra del governo annunciata lunedì sullatassazione degli extra profittidelle banche avrà un effetto negativo sulla disponibilità degli investitori esteri ad allocare risorse sul nostro Paese. Molti di loro si chiederanno perché devono continuare a investire in azioni di aziende bancarie italiane invece che in quelle dei concorrenti francesi e tedeschi, svizzeri o americani. La sensazione è che i cali azionari di martedì 8 agosto siano la logica reazione degli investitori esteri che hanno risposto a questa domanda alleggerendo le posizioni sui titoli bancari italiani.
Le alternative per salvaguardare mutui e potere d’acquisto
Il fine del governo è corretto: bisogna salvaguardare il diritto alla prima casa e il potere di acquisto delle famiglie, con particolare riguardo a quelle meno abbienti; ma i modi non sono quelli giusti, in un’economia di mercato e in un contesto internazionale dove gli investitori, se si sentono toccati, hanno sempre tante alternative su cui dirottare i loro soldi. Ad esempio si sarebbe potuto fissare un tetto ai tassi dei mutui in funzione dello spread sulla remunerazione dei depositi bancari. E in aggiunta semplicemente chiedere a Poste Italiane spa di remunerare i depositi, per esempio al 3 per cento; in tal modo si sarebbe potuta fare una legge ad hoc per consentire la migrazione dei conti in automatico, incentivando così le banche a remunerare adeguatamente i depositi con un’operazione di mercato. Il rischio è che per risolvere un obiettivo problema delle famiglie italiane se ne crei un altro di dimensioni altrettanto rilevanti.
È Milano la maglia nera tra le Borse europee nel giorno della tassa sugli extraprofitti delle banche annunciata con il ‘decreto asset’ dal governo Meloni e presentato a sorpresa dal vicepremier Matteo Salvini. L’indice Ftse Mib ha ceduto a fine seduta il 2,12 per cento a 27.942 punti, tra scambi fiume per 3,54 miliardi di euro di controvalore, nonostante il periodo di ferie estive, bruciando in tutto 27,71 miliardi. Quasi un terzo di questi dalle banche, che hanno perso quasi 9 miliardi (8,96 per la precisione) in termini di capitalizzazione di Borsa. Nel dettaglio, Bper ha ceduto il 10,94 per cento, Mps il 10,83 , Fineco il 9,91, Banco Bpm il 9,09, Intesa l’8,67 , Mediolanum il 5,96 e Unicredit il 5,94 per cento. Più caute Banca Generali (-3,14 per cento), Mediobanca (-2,48 per cento) e Banca Sistema (-1,55 per cento), che prevede un effetto «quasi nullo» della tassa. Ha perso ancora meno Poste (-1,4), che effettua anche servizi bancari.
Il listino di Piazza Affari ha risentito parzialmente anche del calo del greggio nel corso della seduta, attenuatosi poi a scambi chiusi durante la sessione americana (Wti -0,13 per cento a 81,83 dollari al barile). Saipem ha ceduto il 2,44 per cento ed Eni lo 0,38 per cento, mentre si è mossa in controtendenza Tenaris (+0,4 per cento), favorita però dal calo dell’acciaio (-0,89 per cento a 3.684 dollari la tonnellata). Segno meno anche per Stellantis (-1,4 per cento), in linea con l’andamento del settore in Europa. Pochi i rialzi, limitati a Recordati (+2,49 per cento), Tim (+2,17), Hera (+1,93), A2a (+1,82), Amplifon (+1,51), Italgas (+1,38), Erg (+1,07), Snam (+0,77) e Terna (+0,58).
In calo anche le principali Borse europee
Hanno chiuso la seduta in calo le principali Borse europee. Parigi ha ceduto lo 0,69 per cento a 7.269 punti, Londra lo 0,36 per cento a 7.527 punti, Francoforte l’1,1 per cento a 15.774 punti e Madrid lo 0,68 per cento a 9.294 punti. In rosso anche gli indici Usa: il Dow Jones a -1,18 per cento e il Nasdaq a -1,6 per cento.
Il differenziale tra Btp e Bund chiude a 165,5 punti
Ha chiuso in rialzo a 165,5 punti il differenziale tra Btp e Bund decennali tedeschi, contro i 165 punti segnati nella vigilia in chiusura. In ribasso di 13,4 punti il rendimento italiano al 4,11 per cento. Identico il calo del rendimento dei titoli tedeschi, sceso al 2,46 per cento.
Gli sconfitti lo scorso anno nella battaglia per il controllo delle Generali non si sono certo rassegnati. Così, complice l’autorizzazione data alla Delfin della famiglia Del Vecchio per poter salire fino al 20 per cento della compagnia triestina, si è tornati a speculare di grandi manovre. Nel mirino ci sono Renato Pagliaro, presidente di Mediobanca, e Philippe Donnet, ceo di Generali. Il primo per l’ortodossia che ha incarnato in questi anni, e che ne ha fatto il vero integerrimo custode dell’istituto di Piazzetta Cuccia. Il secondo per l’autonomia con cui ha fieramente gestito la compagnia, specialmente dopo il complicato rinnovo al vertice. L’autorizzazione da parte di Delfin, richiesta all’Ivass, per salire fino al 20 per cento delle Generali è il risultato di una mera tecnicalità, la conseguenza cioè del piano di buy back avviato dalla compagnia nell’agosto del 2022 e implementato nei mesi successivi. Avendo involontariamente superato la soglia del 10 per cento la holding della famiglia Del Vecchio, su spinta anche del suo legale Sergio Erede, ha approfittato della situazione e ha bussato alla porta dell’authority di controllo del settore per ottenere l’autorizzazione a salire nel capitale.
In Mediobanca Caltagirone e Delfin spingono per sostituire Pagliaro con Grilli
La spiegazione però convince pochi operatori. E non solo perché da una holding con 12 miliardi di attivi non ci si aspettano sviste di questo tenore, ma soprattutto per la tempistica dell’annuncio. In primo luogo il ceo Donnet, la cui rielezione lo scorso anno fu duramente osteggiata da Del Vecchio e da Francesco Gaetano Caltagirone, è quasi arrivato a metà mandato, una scadenza solitamente molto sensibile per i top manager. E quindi i due soci starebbero già ragionando sulla sua successione. Secondariamente per il fatto che fra tre mesi l’assemblea di Mediobanca (di cui Delfin detiene il 19,8 per cento e Caltagirone quasi il 9,9) dovrà eleggere il nuovo consiglio di amministrazione. Mettendo in fila questi elementi, qualche analista ha dato una lettura alternativa alla scelta di Delfin: una mossa segnaletica da leggere alla luce delle partite in corso. La scadenza più immediata è quella di ottobre, quando verrà eletto il nuovo board di Piazzetta Cuccia. L’esito della partita dipenderà dalle decisioni dei due principali azionisti che, dal 2019 a oggi, hanno rastrellato quasi un terzo delle azioni della blasonata banca d’affari milanese. Il mercato non si augura una nuova proxy fight dopo quella combattuta l’anno scorso in Generali, ma la convergenza su una lista unica appare al momento in salita. Caltagirone e Delfin chiedono subito la sostituzione del presidente Pagliaro al cui posto vorrebbero mettere Vittorio Grilli. Sarà un caso, ma proprio ieri in audizione alla Commissione finanze del Senato l’ex ministro del Tesoro ora banchiere per JP Morgan si è schierato sulle posizioni espresse nella medesima sede da Caltagirone che aveva definito «autocratiche» le liste proposte dal cda.
Senza una convergenza, sull’asse Milano-Trieste ci sarà di nuovo la guerra
Ma togliere Pagliaro (che prenderebbe il posto di Carlo Cimbri alla presidenza dello Ieo, l’Istituto europeo di oncologia nato su iniziativa di Enrico Cuccia e del professor Umberto Veronesi) potrebbe rivelarsi una mossa rischiosa per Nagel e per la stessa Mediobanca. Si arriverà a un accordo? Non è un mistero che sul tavolo della trattativa ci sia ancora Banca Generali. Dossier che potrebbe riprendere quota prima dell’assemblea ottobrina di Piazzetta Cuccia, con il beneplacito dei grandi soci e dello stesso Donnet. Le parti da tempo, al di là delle dichiarazioni ufficiali, si stanno parlando ma trovare la quadra non è facile. Per suggellare la pace, manca un passo indietro di Mediobanca che ridisegni gli assetti di controllo di Trieste e l’uscita di Pagliaro. In questo contesto la mossa di Delfin può essere letta come un avviso ai naviganti: se non ci sarà spazio per una convergenza, sull’asse Milano-Trieste ci sarà di nuovo la guerra. Un segnale credibile per i mercati? Si vedrà, anche se la débâcle del 2022 pone una pesante ipoteca sull’ipotesi di una nuova proxy fight nella galassia. Brandendo la possibilità di salire al 20 per cento Delfin starebbe in realtà puntando a un armistizio. Difficile infatti che il governo accetti la finanziaria, guidata da Milleri, come garante dell’italianità della compagnia. Tutti sanno che la dinastia Del Vecchio è divisa e tre eredi hanno contestato il testamento del fondatore Leonardo. Poi affidare il 20 per cento delle Generali a Delfin sarebbe una mossa pericolosa visto che la finanziaria potrebbe venderla in qualsiasi istante a una compagnia concorrente o a un fondo private equity. Da ultimo, in parlamento si dibatte ancora su un intervento in materia di liste del cda e a Palazzo Chigi c’è un governo attento agli assetti di controllo delle big corporate e alle eventuali ingerenze straniere. Un segnale credibile per i mercati? Si vedrà. La parola, comunque, adesso passa a Nagel che nei lunghi anni alla guida di Mediobanca ha mostrato capacità di difesa non comuni che gli hanno sempre consentito di respingere i tentativi di chi metteva in discussione il suo ruolo.
Avranno pure intenzione di scalare le Generali, ma prima in casa Del Vecchio c’è qualcosina da mettere a posto. E non di poco conto. Quel qualcosina è la miliardaria eredità lasciata dal fondatore Leonardo alla sua morte, avvenuta nel giugno dell’anno scorso. Avendo sei figli avuti da mogli diverse, e alcuni manager di fiducia da premiare (a cominciare dall’amministratore delegato Francesco Milleri cui ha voluto assegnare un generosissimo lascito, nella fattispecie un pacchetto di azioni EssiLux del valore di 340 milioni di euro) si capisce bene che il passaggio dei beni rischia di scontentare più di qualcuno e scombinare i delicati assetti seguiti all’uscita di scena del re degli occhiali. Gli eredi mugugnano, non vorrebbero farsi carico del lascito a Milleri, che proprio in questi giorni si è visto bocciare una richiesta di un rimborso da 56 milioni di euro su cui più avanti ci soffermeremo.
Escluse dai crediti le richieste di rimborso delle imposte di successione avanzate da Milleri e Bardin
Chiaro quindi che ciascuno tenda a cautelarsi, prendendo posizione sulle varie partite creditorie nell’ambito della procedura concorsuale di liquidazione dell’eredità. È il caso di Luca Del Vecchio, 22 anni, bocconiano, uno dei due figli che il re degli occhiali ha avuto da Sabina Grossi, il quinto dei sei in ordine cronologico. Tra tutta la progenie sembra essere quello più attento alla spartizione di un impero che vale almeno 30 miliardi. Ebbene, il giovane Luca ha voluto stilare una classificazione di tutte le dichiarazioni di credito pervenute entro il 24 maggio scorso. Una miriade di richieste. Che vanno da consulenze a spese mediche, parcelle di perizie immobiliari, onorari di avvocati, stipendi e arretrati da saldare, manutenzione dello yacht Moneikos, e via discorrendo. Con l’assistenza del notaio milanese Mario Notari, i crediti sono stati suddivisi per capitoli: crediti per la procedura, crediti sorti per la gestione e il mantenimento dei beni e dei diritti dell’eredità, crediti ereditari, crediti derivanti da legati c.d. “obbligatori”, in sostituzione di legittima, crediti non ammessi al passivo (ossia crediti per i quali è pervenuta dichiarazione di credito, ma che non sono ammessi al passivo del presente stato di graduazione, in quanto ritenuti insussistenti e/o infondati e/o estranei alla procedura di liquidazione concorsuale dell’eredità beneficiata). Ed è quest’ultimo il capitolo che riserva la sorpresa più clamorosa. Anzi, le due sorprese. Perché non ammessa al passivo secondo Luca Del Vecchio, confortato immaginiamo dal parere dei suoi legali, c’è la richiesta avanzata da Milleri di rimborso delle imposte di successione sulle azioni ricevute per un ammontare di 56.156.945 euro. E quella di Romolo Bardin, tra i più stretti collaboratori di Del Vecchio e amministratore delegato di Delfin, la finanziaria cui fanno capo tra gli altri per esempio gli investimenti in Mediobanca e Assicurazioni Generali, la cui richiesta di rimborso è per 580.930 euro a fronte di un pacchetto di azioni pari a circa 3,5 milioni di euro.
In sostanza i due manager vorrebbero che nelle spese di liquidazione di quanto ricevuto rientrasse anche la parte che loro devono versare al fisco. Detto banalmente, vorrebbero che il lascito venisse loro corrisposto al netto delle tasse. Una pretesa francamente discutibile, di cui evidentemente Luca del Vecchio (e vedremo se anche qualcun altro dei fratelli sarà della sua stessa opinione) non ha alcuna intenzione di farsi carico. Del resto Luca non è nuovo al dissenso interno. In occasione dell’ultima assemblea di Mediobanca, come titolare di 50 azioni dell’istituto di Piazzetta Cuccia, ha votato in maniera difforme da Delfin, la finanziaria di famiglia di cui è al 12,5 per cento azionista.
Il capo economista Lane: «Siamo pronti a fare di più». La frase della presidente aveva fatto precipitare le Borse e persino provocato la reazione del Quirinale.
Il 12 marzo Christine Lagarde, presidente della Bce, con una sola frase ha fatto precipitare le Borse europee: «Non siamo qui per ridurre gli spread». Oggi, dopo la reazione dei mercati e delle più alte istituzioni italiane, Quirinale compreso, corregge il tiro: «Siamo pronti a fare di più e ad adottare tutti i nostri strumenti, se necessario, per assicurare che gli alti spread che vediamo oggi, a causa dell’accelerazione del coronavirus, non mettano in pericolo la trasmissione della nostra politica monetaria in tutti i Paesi dell’Eurozona», ha scritto infatti il capo economista dell’Eurotower, l’irlandese Philip Lane, sul sito web della Bce.
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