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Il prelievo sulle banche e quella coincidenza sospetta sulla quota di Tim
Alla fine, il pasticcio del prelievo forzoso sui bilanci delle banche ha trovato una sua plausibile spiegazione, o almeno non appare solo una coincidenza sfortunata nella successione degli annunci nella stessa settimana: il governo ha voluto prendere brevi manu dagli istituti di credito parte (inizialmente dovevano essere tutti) dei 4,6 miliardi di euro che servono per pagare a Tim il 20 per cento della rete, che sarà la partecipazione di minoranza del Mef a supporto del fondo Kkr. Cosa evidentemente diversa dall’aiuto ai giovani per i mutui prima casa, oppure dall’attenzione ai più deboli o dai sostegni alle imprese. E si capisce ora anche perché Giorgia Meloni non ha parlato, nemmeno informalmente, con alcuni banchieri per decidere insieme come destinare risorse a garantire i mutui per la prima casa ai giovani. Oppure prestiti a condizioni più favorevoli per incoraggiare l’apertura di nuove attività per giovani, o magari anche per anziani vogliosi di rimettersi in gioco, impiegando quegli utili che la bolla dell’inflazione ha portato agli istituti di credito dopo anni di bilanci più magri a causa dei bassi tassi d’interesse.

Salvini si è mosso come un elefante in cristalleria
Ma stupisce, e non è certo un dettaglio, il modo: l’esecutivo ha agito “di pancia” per mostrarsi decisionista, oltretutto facendo mettere il primo sigillo alla decisione di tassare i cosiddetti extraprofitti a un elefante in cristalleria come il ministro delle Infrastrutture e capo della Lega, Matteo Salvini. Mentre Giancarlo Giorgetti, ossia il più titolato in quanto ministro dell’Economia, se ne restava in disparte. E dunque la domanda è: era proprio necessario, essendo un esecutivo politico, dare l’idea di governare per rispondere a pulsioni presunte-identitarie («non abbiamo paura di colpire le banche») di un presunto elettorato originario? Quando invece l’obiettivo davvero politico dovrebbe essere quello di allargare i consensi, di occupare non tanto il centro politico, ammesso che esista, ma il centro degli interessi reali del Paese, del presidio del buon senso e della buona amministrazione, sapendo che con i diktat (più di comunicazione che di sostanza) in una democrazia parlamentare non si va da nessuna parte. E infatti Forza Italia fa da contraltare alla Lega per modificare la misura nel dibattito che ci sarà in sede di approvazione alla Camera e al Senato. Anche perché il provvedimento va dritto a colpire Mediolanum, uno dei gioielli della corona Fininvest, toccando nel vivo gli interessi della famiglia Berlusconi.

La ferita alla reputazione agli occhi degli investitori resta
Anche ammettendo le buone intenzioni del governo e non solo la necessità di trovare le risorse per comprare il 20 per cento della rete Tim (la stessa, peraltro, ceduta a quattro soldi alcuni decenni fa al cosiddetto “nocciolino duro” capitanato dall’allora Ifil, finanziaria della famiglia Agnelli) e dando ovviamente per scontato lo spirito di collaborazione dei banchieri più attenti alla coesione sociale del Paese, il risultato della pulsione “prestazionale” di Salvini prima e della premier dopo è magro: sì, le banche hanno recuperato parte della capitalizzazione persa in Borsa martedì 8 agosto, ma la ferita alla reputazione complessiva del sistema politico-economico italiano agli occhi degli investitori internazionali resta. E, oltretutto, la coincidenza con l’acquisto del 20 per cento della rete Tim prova che non vi è nessuna garanzia che le risorse così reperite (comunque all’incirca la metà di quanto previsto) siano destinate a chi, come i giovani, possano dare con la spinta di un incentivo mirato, all’acquisto della prima casa oppure al finanziamento di un’attività in proprio.

Il bottino non servirà a imbastire la legge di bilancio d’autunno
Infatti, il “bottino” strappato alle banche viene impegnato ancor prima di essere materialmente riscosso (va approvato il decreto) e dunque è come se non confluisse nemmeno nel calderone delle decine di miliardi che servono per imbastire la legge di bilancio d’autunno, scolorendosi nel mare dei bisogni da coprire. Addio a ogni finalizzazione di scopo, quella che poteva essere concordata con gli istituti di credito e facilmente sottoposta a verifica del raggiungimento degli obiettivi che il governo stesso avrebbe potuto (e magari dovuto) porre. Evitando così le perdite finanziarie e quelle reputazionali, che pesano persino di più. E, soprattutto, dando mostra di capacità di moral suasion o, se vogliamo dirla tutta, anche di leadership, che non vuol dire mostrare i muscoli e poi passare ad altro, ma ottenere risultati tangibili per la comunità. Risultati che poi si traducono in consensi stabili e non solo in fugaci e illusorie impennate di sondaggi, che tra l’altro lontano dalle elezioni valgono poco o nulla.
Forse era meglio trovare una soluzione concordata
C’è infine da chiedersi se valeva la pena di andare al muro contro muro con le banche (le quali hanno incassato il colpo in silenzio) mentre era possibile una soluzione concordata con l’occhio all’obiettivo sociale che si voleva realizzare e che evidentemente è di interesse comune di governo e mondo del credito: i clienti del primo sono i cittadini che poi votano, quelli delle seconde sono gli stessi cittadini nelle loro vesti di sottoscrittori di mutui (peraltro già fermi da diversi mesi causa tassi elevati), di polizze e di conti correnti. Senza dimenticare che il 50 per cento dell’inflazione deriva, secondo le stime di Bankitalia e Banca centrale europea, dai profitti delle imprese, ovviamente anche e soprattutto quelle commerciali che gestiscono il passaggio tra produttore e consumatore e che spesso sono molto solerti a denunciare gli alti tassi e molto meno a tenere sotto controllo i prezzi finali che determinano l’inflazione. E non parliamo solo di zucchine e di ciliegie.