Cosa svela lo strano silenzio dei banchieri sugli extraprofitti

Sulla discussa manovra del governo Meloni sugli extraprofitti bancari si sono pronunciati praticamente tutti: politici, economisti, opinionisti. Ma è sin qui mancata, almeno ufficialmente, la voce più importante, quella dei banchieri. Ossia i grandi amministratori delegati ed esponenti di peso degli istituti che saranno oggetto del prelievo della “tassa Robin Hood” (come l’ha ironicamente definita Alberto Forchielli), che secondo le stime degli analisti potrà valere tra i 2 e i 2,5 miliardi di euro complessivi.

Cosa svela lo strano silenzio dei banchieri sugli extraprofitti
Carlo Messina, ad di Intesa Sanpaolo (Imagoeconomica).

Messina e Orcel si erano espressi quando l’ipotesi era allo studio

Carlo Messina e Andrea Orcel, rispettivamente ceo di Intesa Sanpaolo e Unicredit, nei mesi scorsi avevano parlato della tassa quando ancora era solo un’ipotesi allo studio, anche se il ministero dell’Economia assicurava che sarebbe rimasta tale. Bocciata dal numero uno di Piazza Gae Aulenti, l’idea non era stata invece respinta da Messina, a patto che i suoi proventi andassero in politiche redistributive. E se da un lato questa diversità di posizioni rifletteva attitudini diverse da parte dei due colossi del credito – Unicredit in pieno rilancio e con il titolo in gran spolvero, Intesa più governista nella sua tradizionale vocazione a essere banca di sistema -, dall’altro è la testimonianza che le grandi banche danno al governo Meloni il beneficio del dubbio.

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Andrea Orcel, ceo di Unicredit (Imagoeconomica).

I top manager hanno scelto il silenzio per non agitare i mercati

A oggi, gli istituti di credito sembrano tranquillizzati dei paletti messi dal Mef al prelievo, che dopo le prime dichiarazioni in conferenza stampa di Matteo Salvini lunedì 7 agosto che evocavano la mano pesante hanno definito cosa sia un “extraprofitto” e limitato il prelievo agli utili conseguiti entro il 31 dicembre 2023. E visto che i mercati sono tutto fuorché pienamente razionali e pesano ogni parola, i top manager hanno saggiamente ritenuto opportuno seguire il motto che fu di Guido Carli: «Il silenzio vale molto più di regole declinate all’infinito».

Ingoiare la pillola ed evitare la percezione di un conflitto

Del resto, di fronte a un clima sociale surriscaldato da carovita e difficoltà economiche ereditate da pandemia e guerra in Ucraina, sfide per le banche che vanno dai finanziamenti al Piano di ripresa e resilienza (Pnrr) alla gestione dei crediti incagliati per i bonus edilizi, partite globali legate ai rialzi dei tassi d’interesse e dell’inflazione e un sostanziale consolidamento nel sistema creditizio nazionale, aprire un fronte conflittuale col governo non conviene. Si è preferito ingoiare la pillola, indorata dalle limitazioni rassicuranti del Tesoro, piuttosto che dare corda a ciò che la grande stampa finanziaria internazionale, a partire dal Financial Times, stava già segnalando: la percezione di una guerra tra il governo conservatore di Giorgia Meloni e i mercati finanziari.

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Giorgia Meloni e Giancarlo Giorgetti (Imagoeconomica).

Un quarto del debito pubblico italiano è in pancia alle banche

In una fase in cui utili e stress-test europei premiano la finanza italiana e i suoi risultati, sia a livello di banche di raccolta sia di banche d’affari, mettere a repentaglio la stabilità del sistema-Paese mettendosi di traverso avrebbe aperto alla prospettiva di un indebolimento sui mercati e, dunque, di turbolenze su quei 639 miliardi di euro di Btp che, secondo i dati più recenti, le banche italiane tengono in pancia. Pari a oltre un quarto (il 26 per cento) di quel debito pubblico italiano in un Paese che tra Pnrr e investimenti strategici ha bisogno di un virtuoso sistema del credito per vincere le sfide che lo attendono.

Linea soft dopo le sparate salviniane sui “banchieri nemici del popolo”

I chiarimenti di Meloni e Giancarlo Giorgetti sulla tassa nei giorni successivi alla sua introduzione hanno, al contempo, dato ai banchieri una sponda su un tema che, in conferenza stampa, lunedì sera Salvini sembrava aver dimenticato: la premier e il titolare del Mef hanno, con dichiarazioni e chiarimenti formali, collegato alla grande situazione internazionale data dall’aumento dei tassi della Banca centrale europea e alla crescita del costo del denaro la nuova imposta una tantum. Diversamente, il leader del Carroccio era sembrato additare i banchieri come nemici del popolo, suscitando reazioni critiche negli osservatori finanziari.

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Matteo Salvini (Imagoeconomica).

Il governo multiforme, ora liberale ora statalista, non passerà in fretta

Ciò non toglie che la vicenda extraprofitti sia la prova di un rapporto tra i nuovi inquilini di Palazzo Chigi e la comunità finanziaria che abbisogna di molto rodaggio. Se da un lato Meloni non ha ancora appieno preso contezza della complessità dei meccanismi del potere economico-finanziario nel Paese e della loro articolata profondità di rapporti umani e professionali, come si è visto in occasione delle nomine e del dietrofront dopo un’iniziale tendenza a presentarsi come pigliatutto, dall’altro nel mondo economico e imprenditoriale c’è la consapevolezza che l’attuale stagione politica sia tutt’altro che passeggera. E che dunque andrà capita la traiettoria di un governo multiforme, ora liberale ora statalista, ora moderato ora radicale, guidato da una premier sovranista a casa e draghiana all’estero, e quali tendenze prevarranno nella sua agenda politica, economica, istituzionale.

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