Bossi poeta e l’involuzione della Lega

Se è vero che nulla avviene per caso, dev’esserci un senso se la sorprendente riscoperta delle poesie di Umberto Bossi, fondatore della Lega Lombarda, poi Lega Nord, avviene proprio in questo momento. Quello più immediato e ovvio è evidenziare quanto è caduta in basso la leadership del Carroccio in due sole generazioni: dal profeta-poeta-visionario al tiktoker compulsivo specializzato in liste. Ma in questo inatteso ripescaggio si può leggere un monito apparentemente controintuitivo: la poesia, anche non eccelsa, è meno effimera della fortuna politica. Bossi è ancora vivo, ma politicamente defunto a causa dell’età e delle malattie. La sua eredità è stata in parte snaturata dall’ambizione e dalla pochezza dei suoi successori, che a malapena citano il suo nome, se non nella kermesse annuale di Pontida (da lui inventata, peraltro). Eppure a rinverdire la sua figura oggi non sono le sue gesta da leader di partito o da ministro, ma, a sorpresa, la misconosciuta opera giovanile di poeta e chansonnier, che gli avversari gli avevano sempre rinfacciato con disprezzo. Ed è internet, cui Bossi fu sempre estraneo, per ragioni anagrafiche e caratteriali, a ripescare un piccolo corpus bossiano di carmi composti fra gli Anni 60 e 70 (l’era della riscoperta del folk, da sinistra, area in cui all’epoca militava l’imberbe Umberto) e raccolti qualche anno fa nel blog della giornalista Nicoletta Maggi.

Bossi poeta e l'involuzione della Lega
Bossi nel 1992 (Imagoeconomica).

Bossi poeta, ribellismo ma con il coeur in man

Com’è il Bossi poeta? Con un po’ di cattiveria si potrebbe dire che è un ragazzo della via Gluck che non ha superato lo shock e continua a domandarsi «perché continuano a costruire case e non lasciano l’erba», però in dialetto lombardo.  I suoi temi sono il ripudio dell’industrializzazione e del consumismo, il rimpianto per la semplicità della vita agreste, l’invettiva contro i «padròn», la tenerezza verso i deboli, lasciati sul ciglio della strada dall’irresistibile avanzata del progresso. Ribellismo, ma con il coeur in man, insomma. La scelta del dialetto, in quegli anni, non aveva connotazioni campanilistiche o etniche, ma sociopolitiche: esprimeva il rifiuto per dell’omologazione imposta dallo sviluppo prepotente e dall’onnipotenza delle fabbriche che divoravano terre, acque e persone, così come l’italiano della televisione, della pubblicità e della scuola (istituzione con cui il giovane Bossi non era mai andato molto d’accordo) soppiantava le parlate locali, che per le classi popolari erano ancora la lingua madre, quella con cui si era imparato a parlare e a ragionare in un’Italia ancora prevalentemente contadina. È il dialetto a dare alle poesie del futuro Senatùr un’efficacia che non ti aspetti: il lombardo stacca le parole dalla carta, dà loro uno spessore che in italiano si perde, non solo perché è in lombardo che sono state scritte, ma anche perché obbligano il lettore non lombardòfono a cambiare il proprio punto di vista (o di udito), a fare più attenzione a quei termini un po’ stranieri e un po’ no. E la poesia è sempre l’incontro di due attenzioni, quella del poeta e quella del fruitore.

Bossi poeta e l'involuzione della Lega
Il Senatùr a una manifestazione della Lega (Imagoeconomica).

Dall’urlo ginsberghiano al celodurismo in canottiera

Ecco, in traduzione, l’urlo ginsberghiano dell’angry young Bossi: «Ho visto gli intestini della mia terra/seccarsi al sole/come cent’anni di pane raffermo,/ di ciotoline che hanno picchiato per niente./Io canto il muggire della carne in scatola/canto il fetore della cultura/Canto il domani/come un calcio nella pancia». Ehi, ma è lo stesso tizio che 10 anni dopo fonderà la Lega che «ce l’ha duro», sdoganerà le canottiere a vista, evocherà i «100 mila bergamaschi armati» e darà del «terrone» a due presidenti della Repubblica? Eh, sì. Proprio lui. E leggendo una poesia come Dü Fioeu (Due ragazzi), «von di nostra e un teron, butej den na bozza coi tulitt di tumatis voeuj» («uno dei nostri e un terrone, buttateli in un buca, con i barattoli dei pomodori vuoti», entrambi vittime di padroni che li abbattono come giovani pioppi) viene da chiedersi che cosa è andato storto. O che cosa si è raddrizzato, a seconda di come la si pensi, visto che invece di finire fra i matti o fra i clochard, destino abbastanza frequente fra gli artisti scioperati e incompresi, l’Umberto è approdato prima in parlamento e poi al governo.

Bossi poeta e l'involuzione della Lega
Umberto Bossi al Senato (Imagoeconomica).

Quel verso inconsapevolmente profetico: «Perché d’un rivoluzionari/n’han fai un lecapè?»

Il paragone con il pittore mancato che divenne Führer è inevitabile, e ci vorrebbero critici più esperti di me per valutare se il successo letterario di Bossi avrebbe danneggiato la poesia tanto quanto la fortuna di Adolf Hitler come pittore di paesaggi avrebbe degradato le arti figurative. Quel che è certo è che sarebbe stato meglio per tutti se qualcuno avesse incoraggiato entrambi a inseguire i loro sogni giovanili invece che trasformare la personale frustrazione in carburante per carriere di arruffapopoli (nel caso di Hitler, anche distruggipopoli). Oggi i dipinti dell’uomo di Braunau rimangono invenduti alle aste, non solo perché sono croste imbarazzanti o perché è imbarazzante alzare la mano in pubblico per fare un’offerta, ma perché girano un sacco di falsi praticamente indistinguibili da quelli veri (dipingere un paesaggio alpino alla Hitler è impresa alla portata di qualunque imbrattatele). Ed è difficile che le poesie di Umberto da Giussano, ancorché dignitose, finiscano nelle antologie. A storcere il naso non sarebbe il ministro dell’Istruzione Valditara, affezionato fin da ragazzo alle poesie milanesi di Carlo Porta, cui dedicò il suo tema di maturità, ma lo stato maggiore del Carroccio. Un verso bossiano inconsapevolmente profetico, «perché d’un rivoluzionari/n’han fai un lecapè?» (perché di un rivoluzionario ne han fatto un leccapiedi?) costringerebbe ogni dirigente leghista a un doloroso esame di coscienza.

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