Venezia, gli atti osceni di Kanye West e i ricordi del Salento: il racconto della settimana

Kanye West, prima di uscire completamente fuori di testa, è stato nell’ordine: un signor produttore e uno dei rapper più creativi degli ultimi 20 anni. Per chi volesse saperne di più dovrebbe essere ancora disponibile su Netflix il documentario Jeen-yuhs che racconta, in tre episodi, la sua ascesa fin dai tempi in cui, da ragazzo benestante di Chicago, iniziava a muovere i primi passi nel rap game. Se dovessi scegliere un album tra i suoi sicuramente il primo in classifica sarebbe The Life Of Pablo del 2016. Un disco di black music a 360 gradi che, come ho letto da qualche parte, avrebbe potuto fare Prince se fosse cresciuto in tempi diversi. In Pablo Yeezy lancia piccoli pezzi della sua psiche e ti sfida, mentre lo ascolti, a rimetterli insieme. Un po’ come ho fatto io con i Tales in questi due ultimi anni. Come i Tales non sono né racconti né articoli di giornale e appaiono parecchio lontani dalla forma romanzo, i pezzi che compongono The Life Of Pablo più che canzoni sono paragonabili a post, a Gif animate, con testi che giocano sull’attualità saltabeccando tra riflessioni profondamente intime e dichiarazioni totalmente megalomani.

Tornato dalle vacanze quindi mi sono comprato il vinile di TLOP, l’ho ascoltato a ripetizione tutta la settimana e poi, dopo essermi infilato nella mia borsa Hampton Esperienza di Martin Amis, sono saltato su un treno e sono partito per Venezia. Casualmente a Venezia, nonostante la Mostra del Cinema al Lido e la strepitosa festa di Armani all’Arsenale, non si parlava d’altro che di Kanye e dell’accusa di atti osceni in luogo pubblico che gli è stata rivolta dopo essere stato sorpreso dai paparazzi mentre in vacanza in laguna, a bordo di un taxi acqueo, si intratteneva con la moglie in atteggiamenti particolarmente espliciti. «Hai visto Kanye, che si faceva fare un pompino con il culo di fuori l’altro giorno?», mi ha chiesto Davide  mentre ci bevevamo un Martini nel giardino dell’Experimental alle Zattere con di fronte l’isola della Giudecca. «Sì», gli ho risposto, spegnendo nel portacenere l’ennesima Gauloise rossa, abbronzatissimo scalzo e a petto nudo, con in testa il cappello di One Piece di Superduper, deliberatamente stravagante. E di colpo mi sono tornate in mente la mia Bianca (non Censori) e un’estate di parecchio tempo fa.

Sono mitologici ancora oggi tra di noi amici i ricordi delle mirabolanti avventure estive degli anni in Salento, in periodi in cui la Puglia non era ancora il territorio eletto di Meloni e Salvini tra masserie a Ceglie Messapica e compagnia bella ma un luogo paradisiaco dove potersi rifugiare per trascorrere le vacanze. Si stava a Marina Serra e si alloggiava alla Fortunata, una splendida villa le cui terrazze guardavano il mare, e dove c’era sufficiente spazio per ospitare chiunque volesse o dovesse. Giovani e snelli, sempre sudati e a torso nudo vivevamo le giornate una dopo l’altra con l’acceleratore premuto, drogatissimi, ciondolando tra il campo da tennis nel giardino della villa, un Beach Bar chiamato Jamao vicino al mare e gli scogli del Lavaturu. Proprio un pomeriggio al Lavaturu conobbi Bianca, ci innamorammo e in breve diventammo il Signore e la Signora del disordine e del caos. Stavamo in giro tutta la notte fino a tardi e la mattina saltavamo sul suo motoscafo, il Mandrax, e andavamo a fare colazione a Castro o a Leuca. Spesso eravamo nudi o facevamo l’amore in mezzo al mare, all’ancora, vicino a qualche porto. Poi Bianca si infilava una mia polo blu da rugby di Ralph Lauren con le maniche lunghe e mi diceva: «Se vado a letto con qualcuno avrò pur il diritto di usare i suoi vestiti». Poi guidava il motoscafo (senza patente) e mi riportava alla Fortunata mentre sottocoperta svettavano testi di teosofia, magia nera, esoterismo di cui lei andava matta.

Spesso eravamo nudi o facevamo l’amore in mezzo al mare. Poi Bianca si infilava una mia polo blu da rugby di Ralph Lauren con le maniche lunghe e mi diceva: «Se vado a letto con qualcuno avrò pur il diritto di usare i suoi vestiti»

Per tutta l’estate fummo inseparabili. Quando volevamo prenotare un tavolo in qualche ristorante ci annunciavamo al telefono come il conte e le contessa Zigenpuss, perché io avevo letto su qualche rivista che era il nome in incognito che utilizzavano Keith Richards e Anita Pallenberg. Oppure, se ci capitava di imbatterci nei pescatori all’ora giusta, compravamo direttamente i dentici rossi dalle barche e li portavamo agli altri a casa per pranzo. Vivevamo con l’assurda idea in testa di essere degli esuli, anche se lei era salentina e io stavo lì semplicemente in vacanza. Ricordo che alla fine dell’estate volevamo fuggire e trasferirci a Los Angeles, allo Chateau Marmont. Altro che Kanye West.

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