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Tra Fashion Week e caro affitti a settembre Milano è davvero Milano: il racconto della settimana
Venerdì, ore 13.00. Mentre arrivo, in ritardo, alla Fondazione Prada, per pranzare con Dodo mi rendo conto che al tavolo di fianco al nostro è seduta Camille Charriere. Mi guardo intorno e mi accorgo che la gente qui dentro si somiglia praticamente tutta: gran fisici, labbra cesellate, ultimo grido. Devo dire che Dodo in mezzo non sfigura, anche se noto che indossa sopra una coreana bianca di lino una giacca a vento leggera Nike e ai piedi ha un paio di Adidas Stan Smith.
«Mai mischiare Adidas con Nike, hombre», faccio, criptico, prima di sedermi di fronte a lui e fare cenno al cameriere per ordinare un beverone energizzante. «Hai visto che c’è Camille Charriere? L’ultima volta che sono venuto qui c’era Gwyneth Paltrow», aggiungo. Intorno a noi alcuni ragazzi bevono champagne mentre consultano la timeline di Instagram.
«Chi cazzo è Camille Charriere?», domanda Dodo, con aria interrogativa.
«Una influencer, scrittrice, podcaster. Una tizia da 1,4 milioni di follower», rispondo.
«Non vi sopporto a voi dello spettacolo», sospira, poi agguanta la birra che ha davanti e inizia a bere dalla bottiglia.
«Credimi», dico, alzando le mani, «ormai è assolutamente fondamentale».
«A quali sfilate sei stato questa settimana?», mi chiede.
«Nessuna», mormoro. «Io vivo nell’attimo presente, bello. E oggi ho una marea di cose da fare. Tu piuttosto, cosa ci fai qui?».
«Sono a Milano per lavoro, sono appena atterrato dopo un mese e mezzo di Bali. È paura! Ci dovresti andare. Sono stato benissimo. La miglior vacanza della mia vita».
«Secondo me vai forte, davvero forte. Nessuno è come te».
«Tu invece, piccolo orfanello degenerato, come te la passi? Vederti è impossibile».
«Sono presissimo, hombre, figurati che settimana scorsa ho addirittura celebrato un matrimonio. Mi cagavo addosso che manco la Ferragni prima di Sanremo. Però poi ho spaccato, come sempre del resto». Mi stringo nelle spalle. Poi mi soffermo a osservarlo e a parte il tono di voce troppo alto quando parla e il fatto che è profumato peggio di una figa devo ammettere che lo trovo abbastanza in forma.
«Caro, comunque ti trovo in forma», gli dico avvicinandomi.
«Anche tu, sei sempre uguale, e sei ancora abbronzato».
«Poco», preciso, con nonchalance.
«Vabbè, raccontami di te, che progetti hai? Cosa stai facendo?».
«Sono come Mauro Repetto, inseguo i miei sogni».
«Ma chi? Il biondino degli 883?».
«Esatto, lui. Ho appena letto il suo libro, tra l’altro molto più interessante di quelli di un mucchio di scrittori che incontro in giro per Milano impegnati a farsi i pompini a vicenda. Una storia pazzesca, comunque».
«Alla fine non è finito benissimo, però».
«Sì, in effetti poteva finire meglio».
«Come i tuoi racconti. Possono essere meglio. Devi uscire dalla comfort zone. Basta parlare di te», frigna Dado, e mentre lo dice mi rendo conto, mio malgrado, che ha completamente ragione.
«Oddio, difficile farlo», mugolo. «Dov’è il mio addetto stampa? Questa chiacchierata è già un racconto».

Venerdì, ore 21.30. Dopo che il Milan ha perso 5-1 il derby mi sono così depresso che ho deciso di iniziare a seguire il rugby. L’unico problema è che non conosco affatto le regole, così adesso me ne sto qui, seduto nel mio salotto, a osservare lo schermo del computer mentre su Sky trasmettono Francia-Namibia senza capire un accidenti. È la seconda volta in vita mia che guardo una partita di rugby, la prima era stata circa una decina d’anni fa, un pomeriggio di settembre, in un pub ad Antibes. Io e Ofelia, in barca con Bob e Cleopatra, avevamo preso l’abitudine di prendere il tender e trascorrere le giornate su una piccola spiaggia, irraggiungibile via terra, poco lontano da Cannes. La stagione era quasi finita, ogni tanto grigliavamo del pesce fresco, bevevamo vino bianco francese e, se il tempo non era particolarmente favorevole, ci spingevamo fino ad Antibes e andavamo in un vecchio pub accanto al porto a bere birra. Io avevo la barba lunga, la pelle bruciata dal sole e i polsi stracolmi di braccialetti che, per tutta l’estate, avevo comprato in ogni porto dove ci eravamo fermati: Rosignano, S. Vincenzo, Porto Azzurro, Portoferraio, Capraia, Bastia, Saint Florent, Macinaggio, Porto Vecchio, Cogolin, Saint Tropez. Eravamo stati in barca a vela per oltre un mese e ricordo che quel giorno, mentre al pub di Antibes trasmettevano Francia – Sud Africa, ero parecchio triste perché l’indomani saremmo dovuti tornare a Milano.
Dopo che il Milan ha perso 5-1 il derby mi sono così depresso che ho deciso di iniziare a seguire il rugby. L’unico problema è che non conosco affatto le regole, così adesso me ne sto qui, seduto nel mio salotto, a osservare lo schermo del computer mentre su Sky trasmettono Francia-Namibia senza capire un accidenti
Penso a quel pomeriggio di 10 anni fa mentre in sottofondo suona il vinile, che è stato definito da tutti il caso discografico dell’estate jazzistica, Evenings at the Village Gate, ovverosia 80 magnifici minuti inediti di musica di John Coltrane, registrati a New York durante un live dell’agosto del 1961. Fuori piove, o forse ha appena smesso, e io, in totale solitudine, rollo uno spino di CBD, cammino nervosamente avanti e indietro per la stanza in boxer, scalzo e con indosso la maglia della nazionale. Ogni tanto mi fermo, guardo fuori dalla finestra, osservo la mia immagine riflessa nel vetro e poi mi chino sul grosso tavolo bianco posto al centro del soggiorno e scribacchio qualcosa sul mio taccuino, cercando vanamente di mettere ordine tra i pezzi che devo consegnare ai giornali e tutte le altre mille cose che ho in testa.
Da quando siamo tornati dalla Grecia a fine agosto è la prima volta che mi fermo dopo i week-end trascorsi a Venezia, a Camogli e a quello dedicato al matrimonio di Roffredo della scorsa settimana, con mega party annesso, in una villa in mezzo al Parco Sempione, con 250 invitati. Ce lo ripetevamo con Ofelia, mentre passeggiavamo sotto il sole con in testa i nostri cappelli di paglia sulla spiaggia di Naxos o mentre ci dividevamo un piatto di ricci crudi da Pipinos ad Antiparos, che l’estate sarebbe finita il giorno del matrimonio, e in effetti il tempo ci ha dato ragione. Mi ero ripromesso prima di partire per le vacanze di fare un piano di battaglia per affrontare la nuova stagione ma come da regolamento lo avevo clamorosamente disatteso e, una volta rientrato, sono stato travolto per l’ennesima volta dalla solita soffocante routine di cui mi sono lamentato tutti i santi giorni negli ultimi due anni. La storia come spesso accade si ripete e in particolare Milano a settembre è sempre più simile a se stessa, presa tra il caro affitti e i van con i vetri scuri con dentro le modelle della fashion week che zigzagano per le trafficate strade del centro mentre io, nel frattempo, non solo non sono in grado di progettare alcunché ma non riesco nemmeno ad andare a vedere all’Alcatraz il concerto di Paul Weller, fin dai tempi degli Style Council, super presente nel mio personalissimo Pantheon estetico-musicale di riferimento.