Tim, strada ancora in salita dopo l’offerta di Kkr e del Mef

E alla fine, dopo varie peripezie, l’offerta di Kkr e del Mef per rilevare la rete Tim è arrivata sui tavoli dell’ex monopolista dei telefoni. Non si sa ancora bene come andrà a finire, perché Vivendi, che è il socio di riferimento, continua a storcere il naso, e si presuppone che i giorni a venire verranno spesi per cercare di ammansire le resistenze dei francesi. Non sarà facile. Da quando il gruppo di Bolloré è in Italia, ha preso solo bastonate: prima con Mediobanca, poi Mediaset, adesso la storia rischia di ripetersi con Tim dove, rispetto all’investimento iniziale, ha già perso 3 miliardi, praticamente quasi tutto. Finale, quindi ancora da scrivere. Anche se la mossa del fondo americano consente momentaneamente al governo, suo socio nell’operazione, di gridare vittoria. Non importa se, rispetto alle sue iniziali ambizioni, l’infrastruttura non viene nazionalizzata (come sbandierato da incauti proclami di ministri sbruffoni) ma ricalca in parte un modello già usato per le reti del gas e dell’elettricità: nocciolo duro statale, quanto basta per indirizzare gestione e strategie, il resto fondi e investitori istituzionali che hanno un solo obiettivo: guadagnarci. L’unica vera nazionalizzazione realizzata da questo esecutivo resta dunque quella di Autostrade, passata dal controllo dei Benetton a quello di Cdp, che per comprarla si è svenata. Tant’è che ha dovuto rinunciare ad avere un ruolo nell’affaire Tim, anche se nelle intenzioni di Palazzo Chigi doveva essere il perno dell’intera operazione.

Tim, strada ancora in salita dopo l'offerta di Kkr e del Mef
Giancarlo Giorgetti (Imagoeconomica).

Il Mef ora deve trovare una contropartita per Vivendi

Sulla compagnia telefonica si potrebbero versare fiumi di inchiostro. Il suo passaggio ai privati è cominciato male e finito peggio, visto che l’enorme indebitamento che si trascina da un quarto di secolo – oltre 26 miliardi – è figlio di chi (Colaninno, Gnutti e compagnia, complice il govrno D’Alema) l’ha scalata affondandola. Da allora, miliardo più miliardo meno, la situazione non è mai cambiata al punto di diventare insostenibile. Scorporare la rete forse dal punto di vista strategico non era una buona idea tant’è che, come sostengono quelli di Vivendi, nessuno lo ha fatto. Ma era una strada obbligata, l’unica percorribile per una società i cui margini che la concorrenza ha progressivamente ridotto vengono sacrificati quasi esclusivamente al servizio del debito. Andando avanti così, lo schianto era sicuro. C’erano altri copioni da seguire? Sì, ma sono stati via via scartati: dall’opa, soluzione meno costosa ma resa impossibile dal troppo debito, alla scissione proporzionale che avrebbe fatto della Rete e dei Servizi due realtà quotate diverse. Palazzo Chigi ha scelto la via americana, e adesso la deve sostenere fino in fondo se non vuole trovarsi alle prese con la patata bollente di un’altra crisi industriale (Ilva e Ita Airways bastano e avanzano) e 40 mila dipendenti sul piede di guerra. E deve farlo anche in fretta, perché lo scenario geopolitico si sta deteriorando e i riflessi sull’economia italiana non tarderanno ad arrivare. Primo passo di Giorgetti e Gaetano Caputi, il capo di gabinetto che dopo mesi di incomprensioni ha ritrovato l’intesa con Meloni ed è l’artefice dell’operazione Tim: trovare una contropartita per i francesi che neutralizzi il loro antagonismo. Non impossibile, ma difficile. Lo sa bene il mercato che, all’indomani della presentazione dell’offerta di Kkr, s’è mostrato gelido.

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