Sinner ci ricorda il nostro rapporto ambivalente con l’Alto Adige

Potremmo chiamarla, in modo un po’ grossolano, dissonanza etnico-competitiva. È la bizzarra sindrome che induce spettatori e tifosi a definire la nazionalità, l’origine o lo status di un atleta in base ai suoi risultati. Il caso più classico riguarda Alberto Tomba, che quando vinceva era «lo sciatore di Bologna» e quando perdeva «il carabiniere di Sestola». Esempi più recenti, il calciatore della nazionale tedesca Mesut Özil, tedesco di terza generazione, che si è visto rinfacciare i nonni turchi dopo il flop al Mondiali in Russia nel 2018, e Fabio Quartararo, motociclista del team Yamaha, francese figlio di siciliani, che per gli appassionati italiani è italiano quando vince e francese quando perde.

C’è ancora chi crede che Sinner sia straniero anche se è nato a San Candido ed è italiano fin dalla sala parto

Jannik Sinner, il golden boy del tennis che ha riportato in Italia la Coppa Davis dopo quasi mezzo secolo, è vittima di due dissonanze etnico-competitive incrociate e sovrapposte. Per gli austriaci è italiano quando perde e sudtirolese quando vince, mentre alcuni italiani sembrano più propensi a vederlo come un connazionale nelle sconfitte e come uno straniero naturalizzato di fresco nelle vittorie. Come ha fatto Giancarlo Dotto sulla Gazzetta dello Sport dopo la vittoria di Sinner su Djokovic a Torino: «Jannik ha scoperto la bellezza di essere nostro e di ritrovarsi italiano. Sentirsi italiani per adozione conclamata e plebiscitaria. Cosa c’è di più bello?». Bè, ritrovarsi italiani senza tante pippe burocratiche dopo essere cresciuti in Italia e frequentato le nostre scuole fin dall’asilo, risponderebbero Alessia Korotkov, Sirine Chaarabi e tanti altri giovani campioni che non possono indossare la maglia azzurra perché non hanno ancora la cittadinanza. L’ultimo dei problemi per Sinner, che essendo nato a San Candido, Italia (per soli sei chilometri, d’accordo) è italiano fin dalla sala parto, anche se quelli come Dotto, cui non è ancora arrivata la notizia degli accordi De Gasperi-Gruber, non se ne capacitano, sviati forse anche dall’aspetto fisico e dall’aplomb del tennista. Vabbè, il look di Sinner non sarà tipicamente mediterraneo, ma nemmeno crucco come ce lo immaginiamo di solito, cioè non evoca né Mino Reitano né Walter Reder, e fa pensare piuttosto a latitudini scozzesi o scandinave. Buffo che ci lamentiamo degli stereotipi sugli italiani («non siamo tutti bassi, bruni, baffuti e chiassosi»), e poi siamo i primi ad applicarli quando la genetica si dimostra più fantasiosa di noi.

Sinner ci ricorda il nostro rapporto ambivalente con l'Alto Adige
Jannik Sinner dopo la vittoria contro Alex De Minaur (Getty Images).

Quel rapporto ambivalente tra Italia e Alto Adige: dagli attentati ai tralicci all’arrivo di Lilli Gruber

Va detto che il nostro rapporto con l’Alto Adige è sempre stato ambivalente. Dovremmo essere fieri di ospitare nel nostro territorio uno dei pochi esperimenti riusciti al mondo di convivenza fra culture diverse e di tutela delle minoranze, recentemente additato come modello anche dall’Onu: non “due popoli, due Stati” ma uno Stato e due popoli che, pur non adorandosi, hanno portato la Provincia autonoma di Bolzano al top della classifica sulla qualità della vita. Okay, fino agli Anni 90 girare da quelle parti con una targa italiana da TN in giù comportava un serio rischio di ritrovarsi le gomme tagliate, e l’ultima condanna per vilipendio alla bandiera italiana per Eva Klotz, la leader degli autonomisti sudtirolesi, è solo del 2018, ma non si sente più parlare di attentati alle stazioni dei carabinieri o di bombe sotto i tralicci. Eppure gli altoatesini, tedeschi eppure italiani, italiani eppure inossidabilmente germanici, sono rimasti un enigma, un ossimoro affascinante e respingente al tempo stesso. Poco invadenti, fino a qualche decennio fa si palesavano traumaticamente all’opinione pubblica peninsulare solo nella stagione degli sport invernali, quando in tivù vedevamo gareggiare gente con acrobatici cognomi tedeschi (Kerchbaumer, Runggaldier, Untergassmair, Tschurtschenthaler) e il pettorale tricolore («ah già, è di Bolzano»), oppure in fondo alle tabelle dei risultati elettorali dove appariva un partito dal nome tedesco («ah già, la Südtiroler Volkspartei») che inspiegabilmente era anche quello che apriva le consultazioni al Quirinale per la formazione di ogni nuovo governo. Poi è arrivata Lilli Gruber, che con larghissimo anticipo su Sinner è stata la prima altoatesina a conquistare la fama in un’attività praticabile anche sotto i 600 metri sul livello del mare. Il suo atteggiamento a Otto e mezzo è la perfetta rappresentazione del rapporto fra Bolzano e le altre province italiane: Lilli condivide lo studio con il peggio e con il meglio del giornalismo e della politica italiota, ma si vede benissimo che pensa (in tedesco): «Meno male che non sono come questi qua». E così si becca dai simpaticoni del Giornale nomignoli tipo “radical speck” o l’accusa di voler annettere La7 all’Alto Adige.

Sinner ci ricorda il nostro rapporto ambivalente con l'Alto Adige
Eva Klotz (Getty Images).

Daremo un sacco di soldi all’Alto Adige ma almeno li sanno spendere bene: un’impresa più pazzesca che vincere la Coppa Davis

Del resto noi per primi fatichiamo a credere di essere ancora in Italia (e forse nemmeno nel 2023) quando ci aggiriamo fra casette linde dai balconi fioriti, pittoresche insegne in caratteri gotici e strade pulite come piatti, e ci rivolgiamo ai negozianti scandendo “Buongiorno” per paura che ci apostrofino per primi in tedesco suscitandoci reazioni alla Alberto Sordi nel finale de La grande guerra. Ma non andiamo così volentieri in vacanza in Alto Adige proprio perché sembra di non essere in Italia? D’accordo, gli avremo dato un sacco di soldi, ma almeno gli altoatesini li hanno spesi bene, a differenza di altre regioni autonome. E con buona pace di Jannik Sinner, spendere bene i soldi pubblici in Italia è un’impresa più pazzesca che vincere la Coppa Davis.

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