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Perché il destino del Nagorno Karabakh è già scritto
I conflitti congelati a volte si scongelano. Come quello tra Armenia e Azerbaigian, che già tre anni fa aveva dato origine alla mini guerra di sei settimane al termine della quale Baku aveva riconquistato alcuni territori nel Nagorno Karabakh. La nuova “operazione antiterrorismo” azera non arriva dunque all’improvviso, ma era prevista e annunciata: un attacco che arriva dopo l’escalation degli scorsi mesi, fatta di provocazioni reciproche e con il blocco azero del corridoio di Lacin, che ha continuato a gettare benzina sul fuoco dal dicembre dello scorso anno. Già al termine del Blitkzrieg del 2020 si sapeva che l’equilibrio tra due Paesi sarebbe potuto saltare in fretta. E ovviamente le sue radici passano dal conflitto degli Anni 90, a sua volta scaturito a causa delle ferite insanabili che hanno lacerato il Caucaso dall’inizio del 900, prima su tutte quella del genocidio degli armeni sotto l’impero Ottomano, mai riconosciuto dalla Turchia. Armenia e Azerbaijan dunque nemiche da oltre un secolo, repubbliche riunite sotto l’Unione Sovietica, poi Stati indipendenti, con alleati potenti: la Russia al fianco di Erevan, la Turchia a fianco di Baku. Cristiani contro musulmani in un conflitto dove anche le vicende etniche e religiose ritornano a galla.

Putin, Aliyev ed Erdogan sembrano aver trovato una linea comune
La questione del Nagorno Karabakh, dopo la guerra finita nel 1994 con la vittoria dell’Armenia, è rimasta irrisolta per quasi di 30 anni, senza che nessuno, sia la Russia che l’Occidente, cioè Europa e Stati Uniti, sia stato capace di disinnescare la miccia che ora è stata riaccesa. Il momento non è stato scelto a caso dall’Azerbaigian, con il Cremlino focalizzato in Ucraina. Mosca, che è presente nella regione con circa 2000 peacekeaper e a Giumry, nel nord del Paese, ha una base che ospita circa 4 mila soldati russi, non sembra però aver intenzione di farsi coinvolgere nel conflitto. Il ministero degli Esteri russo ha invitato «le parti in conflitto a fermare immediatamente gli spargimenti di sangue, a cessare le ostilità e a prevenire vittime tra la popolazione civile» chiedendo di tornare a rispettare gli accordi trilaterali di Russia, Azerbaigian e Armenia sul Nagorno-Karabakh. «La cosa più importante ora è tornare immediatamente al rispetto degli accordi trilaterali firmati nel 2020-2022, che stabiliscono tutte le misure per una soluzione pacifica alla questione del Nagorno-Karabakh», si legge nella dichiarazione che sollecita Baku ed Erevan «a fermare le ostilità armate e a fare tutto il possibile per proteggere la popolazione del Nagorno-Karabakh e difenderne gli interessi». In realtà rapporto tra il Cremlino e la leadership armena si è incrinato da tempo; quello con l’Azerbaigian, sostenuto apertamente dalla Turchia, è improntato al pragmatismo, mentre il trio di autocrati Putin, Aliyev, Erdogan pare aver trovato una linea comune. A pagare il conto saranno gli armeni della regione contesa.

L’Occidente, da sempre interessato al gas e al petrolio azeri, continua a fare da spettatore
Anche l’Occidente sta facendo da spettatore, come accaduto in passato: dopo il conflitto all’inizio degli Anni 90, Stati Uniti e Unione europea si sono occupati più delle relazioni energetiche con l’Azerbaigian, Paese chiave allora come oggi per le esportazioni di gas e petrolio verso Occidente, che di sciogliere la matassa caucasica. Heydar Aliyev, padre dell’attuale presidente Ilham, nel 1994 aveva firmato il «contratto del secolo» con una decina di multinazionali occidentali per lo sfruttamento dei giacimenti del Caspio. La democrazia ereditaria inventata a Baku, le repressioni dell’opposizione e le guerre non sono mai state un problema per Washington e Bruxelles e l’Azerbaigian è sempre stato un partner fondamentale, non certo da sanzionare né per i deficit democratici né per qualche guerra di conquista. Ci mancherebbe.

Putin non correrà in soccorso di Erevan
Lo stesso scenario si è ripetuto con e dopo la breve guerra del 2020. Da Baku Aliyev ha detto ora in sostanza di voler riportare il Nagorno Karabakh sotto il controllo azero, costi quel che costi, e tutto indica che nessuno ha intenzione di fermarlo. A Erevan il primo ministro Nikol Pashinyan non sarà soccorso certo da Putin e la nuova guerra, persa, segnerà la sua fine politica. Sarà sostituito con qualcuno più gradito al Cremlino e con il nodo dell’Artsakh definitivamente sciolto a favore dell’Azerbaigian: una preoccupazione in meno per Mosca a cui basta in fondo Giumry per mantenere un piede del Caucaso, almeno ancora per un po’.