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Perché ha ragione Bin Salman nel dire che lo sportwashing in Arabia Saudita non c’è
Fine della discussione. Sua altezza il principe ereditario saudita Mohammad bin Salman Al Saud, l’uomo che sta guidando la monarchia saudita e il suo Paese verso un nuovo Rinascimento (parole di ex premier italiano sopravvissuto alla rottamazione di sé medesimo) ha esternato sul tema dello sportwashing. Lo ha fatto durante un’intervista concessa all’emittente statunitense Fox News. E ha usato parole che hanno spiazzato soltanto chi insiste a credere che il piano di espansionismo sportivo saudita serva davvero a quella cosa lì, al lavaggio dell’immagine internazionale, anziché essere una mera politica di potenza. E invece adesso dovrebbe essere chiaro a tutti che si tratta soltanto di uno sfoggio muscolare da parte di chi sa che può stravincere e perciò lo fa, per non lasciare il minimo margine a chiunque volesse fare ostacolo. Costui sappia che verrà spazzato via. Rispetto a tutto ciò, cosa c’entrerà mai la presunta volontà di usare lo sport per ripulirsi la reputazione?
Uso propagandistico dello sport? Veramente c’entra il Pil
In questo senso il principe ereditario saudita è stato di una schiettezza disarmante. Posto davanti all’accusa di fare sportwashing, Mohammad bin Salman ha risposto né sì né no. Ha scelto una terza via e ha invitato i critici a chiamarlo pure come meglio credano, che sia sportwashing o Pasquale, ché tanto a lui importa altro. Gli importa che il massiccio utilizzo della leva sportiva gli abbia permesso di incrementare dell’1 per cento il Prodotto interno lordo. E se dunque quella cosa che gli fa aumentare il Pil si chiama sportwashing, viva lo sportwashing. Come fosse una marca di detersivo per i piatti. Meglio ancora se quella cosa lì portasse in futuro a un aumento di Pil dell’1,5 per cento, ha aggiunto. Non è arrivato a dire che per un aumento del 2 per cento potrebbe anche farsi tatuare “sportwashing” sull’avambraccio, ma il senso è quello. Ciò dà ragione alla tesi di chi non ha mai creduto alla versione sull’uso propagandistico dello sport. Ai sauditi, come prima di loro ai qatarioti, questo uso non interessa perché non sentono di averne bisogno. Sono altri gli usi cui mirano.
L’obiettivo è il posizionamento internazionale sui grandi eventi
Innanzitutto il posizionamento internazionale, poiché la potenza sportiva è un pezzo della potenza politica nei rapporti fra Stati. In secondo luogo c’è l’importanza di fare sfoggio di capacità organizzative nel caso della grandi manifestazioni sportive internazionali. Ma infine, e soprattutto, ci sono le mire su un’economia cruciale del XXI secolo, quella dello sport e dell’intrattenimento, che viene portata a casa in una logica di diversificazione delle attività d’investimento e di progressiva integrazione-sostituzione della risorsa petrolifera. E se tutto ciò ha anche una grande forza propagandistica e contribuisce a costruire egemonia, tanto meglio. Ma non è certo l’obiettivo primario, che rimane quello della politica di potenza.
Diritti umani, repressione, pena di morte, leggi anti-Lgbtq+? Spallucce
Sullo sfondo rimane un ulteriore equivoco. Parlare di sportwashing significa presumere che, da parte di chi lo eserciti, venga avvertita l’esigenza di ripulirsi in qualche modo, o di avere qualcosa da farsi perdonare, o comunque di dover distrarre l’attenzione dell’opinione pubblica rispetto a condotte sanzionabili in termini sia legali sia etici. E invece nel caso della monarchia saudita, come di ogni altro regno o emirato della penisola araba, questa esigenza non è minimamente avvertita. «Ma quale sarebbe mai la macchia che dovremmo lavare via?», sembrano chiedere rivolgendosi alle opinioni pubbliche occidentali. Quindi fanno spallucce quando si parla di diritti umani, di repressione estrema degli oppositori, di pena di morte, di condizioni pre-moderne riguardo al ruolo e alle libertà delle donne in società, di criminalizzazione dei soggetti Lgbtq+. Rispetto a tutto ciò il loro atteggiamento potrebbe essere sintetizzato con la frase: «Sono problemi vostri e non nostri, perché noi questi problemi non li vediamo».
Si comprano pure il diritto di esserci antipatici, la facoltà di non piacerci
Governano e si comportano come hanno sempre fatto, secondo ciò che stabiliscono i loro codici culturali. E quale comunità si è mai sentita colpevole di ciò? Sicché, figurarsi come possano mai avvertire l’esigenza di fare sportwashing. Piuttosto, esibiscono le caute aperture in materia di diritti della popolazione femminile come una prova di modernizzazione. Ma intanto proseguono a comprare tutto ciò che ritengono appetibile, sia nel mondo dello sport che in altri settori cruciali dell’economia globale. Possono farlo in virtù di riserve finanziarie inavvicinabili per qualsiasi altro concorrente (la dotazione del Public Investment Fund, Pif, che è anche proprietario del Newcastle, è stimata in 700 miliardi di dollari). Anche a costo di diventare antipatici, perché alla lunga chi vuole stravincere ed esibisce ripetute prove di forza diventa antipatico. Nessun problema, hanno messo in conto anche quello. E si comprano il diritto di esserci antipatici, la facoltà di non piacerci. Ché magari produce pure un altro 1 per cento di Pil.