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Meloni, De Angelis e quel passato nero che non passa
Irritazione, fastidio e fatica a comprendere il motivo di questa sortita. A Palazzo Chigi la battaglia intrapresa da Marcello De Angelis, portavoce del presidente della Regione Lazio, Francesco Rocca, è stata accolta con una certa dose di incredulità. Prima la negazione della matrice neofascista nella strage della stazione di Bologna, poi il rilancio: «Ho espresso il mio dissenso. E sono finito sul rogo. Da uomo libero». Nessun minimo passo indietro, insomma. «Giorgia Meloni è furiosa, perché ci si è infilati in una polemica solo dannosa, dopo che il 2 agosto era ormai passato», spiega una fonte interna a Fratelli d’Italia a Lettera43. La presidente del Consiglio pensava di averla sfangata, bypassando le prevedibili critiche su una data decisamente sensibile, quasi quanto il 25 aprile, dopo la sentenza che accerta la mano dell’estrema destra dietro l’attentato. Invece no. De Angelis – mentore politico ed fiamma di Giorgia Meloni (si conobbero quando l’attuale premier era appena 16enne e le regalò persino una chitarra come raccontano Paolo Madron e Luigi Bisignani ne I potenti al tempo di Giorgia), fratello di Renato (autore Rai e anche lui ex fidanzato di Meloni), ex Terza posizione e cognato dello stragista Luigi Ciavardini (poi passato ai Nar) – ha tenuto aperto il dossier. «Vedrò Marcello De Angelis nel pomeriggio e sentirò cosa mi dirà: ha commesso un errore importante parlando in termini di certezza anche se a titolo personale. Farò le mie valutazioni ma lui non ha alcun ruolo politico nell’amministrazione regionale. Giorgia Meloni mi ha chiesto di chiarire e certamente non era felice per quanto accaduto», ha assicurato Rocca.
In FdI bocche cucite, solo Forza Italia rompe il silenzio prendendo le distanze
Dentro Fdi, comunque, prevale la consegna di non aprire bocca sulla vicenda. La stragrande maggioranza dei parlamentari, solitamente pronta a diffondere comunicati e dichiarazioni, ha cucito le bocche, sfruttando la contemporanea chiusura estiva di Camera e Senato che consente di eludere le domande dei cronisti. Addirittura gli opinionisti d’area preferiscono tenersi alla larga da una questione che scotta troppo. Forza Italia ha però rotto il silenzio: «Ognuno può avere le proprie opinioni ma quando si ricopre un incarico nelle istituzioni non esistono pareri personali e nell’esternare si rischia di mettere in difficoltà l’ente che si rappresenta», ha detto la capogruppo al Senato, Licia Ronzulli. Un invito alla prudenza e allo stesso tempo una presa di distanza.
Meloni ha messo da tempo nel mirino Rocca
La presidente del Consiglio è infastidita pure da Rocca, su cui peraltro da qualche settimana stanno crescendo le perplessità sulla gestione dell’amministrazione regionale. Ha chiesto all’ala romana del partito di essere più vigile su quanto accade in Giunta. La vicenda del portavoce troppo loquace è quindi sale lanciato su una ferita già aperta. Come se ne esce, allora? La linea è dettata dal presidente del Senato, Ignazio La Russa, che il 2 agosto era stato l’unico esponente di spicco a riconoscere la matrice neofascista dietro la strage. E lunedì mattina ha ribadito: «Ho già preso doverosamente atto, come detto in Aula, delle sentenze giudiziarie. E ho ricordato l’importanza della desecretazione degli atti sulla strage di Bologna». Seguito dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi che al Corriere ha ricordato la regia nera dell’attentato. Nessuna mano tesa alla rivisitazione storica. Meloni ha perciò fatto arrivare un messaggio chiaro a Rocca in una telefonata: deve risolvere la grana nel miglior modo possibile, tenendo lontana la leadership del partito e di conseguenza il governo. Più facile a dirsi che a farsi. «De Angelis dovrebbe dimettersi spontaneamente per evitare imbarazzi, magari facendo un po’ la vittima ma eliminando un problema», sussurra una fonte della maggioranza, di estrazione centrista. «Ma viste le sue reazioni non appare una prospettiva reale, almeno fino a questa mattina».
Quell’humus di estrema destra che riemerge
Del resto il portavoce di Rocca non è un caso isolato. E non stupisce. Meloni da quando è a Palazzo Chigi sta infatti cercando di smarcarsi da un humus nel quale però è cresciuta. E che ogni tanto riemerge. Basti pensare ai busti del Duce di La Russa, a qualche saluto romano di troppo, a cominciare da quelli dell’altro La Russa, Romano, fratello del presidente del Senato e assessore alla Sicurezza di Regione Lombardia, colto con il braccio teso alzato durante la commemorazione di Sergio Ramelli, militante del Fronte della gioventù ucciso durante un’aggressione orchestrata da esponenti di Avanguardia operaia, movimento sinistra extraparlamentare. Lo stesso gesto è stato ripetuto in un contesto istituzionale da Valeria Amadei, consigliera comunale di Fdi a Cogoleto (provincia di Genova), durante la celebrazione del giorno della memoria. Con tanto di strascichi giudiziari per l’apertura dell’inchiesta sulla violazione della legge Mancino. L’assessora all’Istruzione della Regione Veneto, Elena Donazzan, ha intonato una canzone simbolo del fascismo Faccetta nera, nel corso di un intervento radiofonico. Interpellata sulla vicenda, replicò: «Non sono pentita». E del resto la compagnia è vasta. L’europarlamentare di Fdi, Carlo Fidanza, durante l’inchiesta giornalistica lobby nera realizzata da Fanpage, riproponeva il saluto nazifascista. Sempre nello stesso ambito c’è l’imbarazzante foto del sottosegretario alle Infrastrutture e ai trasporti, Galeazzo Bignami con una divisa nazista, che ha sempre detto di provare «profonda vergogna per quelle immagini», rinnovando le «scuse». Almeno qualcuno lo ha fatto.
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