La vendita della rete Tim non chiude la partita dopo una storia piena di errori

Tim, fu Telecom, atto finale. Giudici permettendo, anche se la decisione di vendere la rete presa dal consiglio di amministrazione senza consultare i soci sembra irreversibile. Troppo squilibrio tra le forze in campo: da un lato i francesi di Vivendi, che ora forse maledicono il giorno in cui sono entrati (da allora hanno perso 3 dei 4 miliardi investiti, protagonisti in negativo di un copione già visto in Mediobanca e Mediaset). Dall’altro il governo, le banche, le fondazioni, gli americani, poteri forti e meno forti, nonostante che in molti capitoli dell’annosa vicenda telefonica si siano mostrati un’armata tutt’altro che invincibile, ma piuttosto brancaleonica. Ma oramai eravamo allo sfinimento.

Dalla sciagurata privatizzazione alle promesse tradite di Meloni

Di nazionalizzazione della rete Giorgia Meloni & C. avevano iniziato a parlare in campagna elettorale. Poi le elezioni le hanno vinte e sembrava che la partita dovesse chiudersi in un atto secondo. È durata più di un anno, con momenti di grottesca confusione dove tanta era la babele di chi voleva mettere becco che non si capiva più nulla. L’unica cosa certa è che la Tim così come l’avevano disegnata i padri fondatori (allora si chiamava Stet) e tale era rimasta prima che una sciagurata privatizzazione -citofonare Romano Prodi e poi Massimo D’Alema – la depredasse del suo valore, non stava più in piedi. Quindi delle due l’una: o si vendeva la rete, ossia il gioiello più redditizio della corona, o si vendeva tutto il resto. Che è poi la configurazione che si è delineata in queste ultime settimane con l’arrivo del fondo Marley (troppo tardi però) a contrastare l’offerta di Kkr. È finita come sappiamo a valle di un biblico cda dove il via libera agli americani ha prevalso con una maggioranza consiliare piuttosto larga.

Vivendi ha svalutato due volte l’investimento, fino a poco più di 0,2 euro ad azione

Tutto finito? Non proprio, per la gioia di quasi tutti i grandi studi legali coinvolti. Ma al di là della comprensibile rabbia per essere stati bellamente bypassati, oltre al fatto che Mef e Palazzo Chigi li hanno trattati a pesci in faccia, conviene ai francesi ragionare a mente fredda. Vogliono salvaguardare la proprietà della rete o più pragmaticamente riportare a casa i soldi spesi? La seconda che ho detto, anche se dovranno mettere in conto di perderne un bel po’. Hanno svalutato due volte il loro investimento, fino a portarlo a poco più di 0,2 euro ad azione. Tutto l’upside del titolo che ci sarà di qui in avanti, figlio di una società meno indebitata, sarà per loro oro colato. Poi, immaginiamo, non vedranno l’ora di levare le tende dall’Italia, terra per loro assai amara, non prima però di aver risolto la partita Mediaset in cui sono tuttora pesantemente invischiati.

La vendita della rete Tim non chiude la partita dopo una storia piena di errori
Vincent Bolloré di Vivendi (Imagoeconomica).

Il Paese perde un altro asset importante del suo sistema industriale

Errori fatti da Vivendi? Molti. In primis quello di aver sbattuto a suo tempo la porta in faccia al cda di Tim ritirando i suoi due rappresentanti. Convinti di poter combattere meglio stando fuori da una battaglia che invece richiedeva stessero dentro. Ma è niente in confronto agli errori fatti in questi anni dai governi che si sono succeduti ai quali, tutti, l’idea di politica industriale doveva suonare come qualcosa di vago e surreale. Ha ragione chi dice che con l’addio alla rete, e la probabile cessione nel tempo anche dei pezzi che restano, il Paese perde un altro asset importante del suo sistema industriale, tra l’altro proprio nei giorni in cui è diventato lampante quel che già si sapeva, ovvero che dal matrimonio tra Fiat e Peugeot a guadagnarci sono i francesi e non gli italiani.

La vendita della rete Tim non chiude la partita dopo una storia piena di errori
Pietro Labriola, amministratore delegato di Tim (Imagoeconomica).

Debito monstre ormai insostenibile dopo una storia di sperperi

Ma Tim era finita in un vicolo cieco e non c’erano santi per salvaguardarne l’integrità, specie da quando la salita dei tassi di interesse ha reso ancora più insostenibile il suo debito monstre. Quella della compagnia telefonica è stata, dalla fine degli Anni 90 in avanti, una saga di errori, furbizie, rapine, omissioni, passaggi di mano dove chi usciva lasciava i cocci a chi entrava. Bisognava, in un modo o nell’altro, staccare le macchine e interrompere la lunga agonia per non rischiare l’accanimento. E altro sperpero di denaro per un’azienda che nella sua storia ha arricchito pochi privilegiati e impoverito troppi malcapitati. Sempre, ovviamente, che sia davvero finita. Ipotesi di fronte a cui la borsa, alla riapertura dei mercati, si è mostrata invero scettica.

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