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Giappone, il pesce di Fukushima e la guerra del cibo con la Cina
«Per favore, mostrate a tutti il vostro sostegno per i prodotti ittici giapponesi, sicuri e deliziosi, compresi quelli di Sanriku Joban». Fumio Kishida, primo ministro nipponico, lo ha detto davanti alle telecamere, nel suo ufficio di Tokyo, consumando un pranzo a base di pesce crudo proveniente dalla prefettura di Fukushima, compresa l’area costiera di Sanriku Joban. L’intera zona è finita al centro di feroci polemiche, dopo che le autorità hanno avviato le procedure per riversare nell’Oceano Pacifico l’acqua usata per raffreddare i reattori danneggiati della centrale di Fukushima-Daiichi, colpita nel 2011 da uno dei peggiori disastri nucleari del Pianeta. Nonostante il piano di Tokyo sia sostenuto da un rapporto dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) – per la quale non ci sarebbero rischi, né per l’uomo né per l’ambiente – non sono mancate le proteste. Arrivate da parte del mondo ambientalista, dai pescatori e dai commercianti che vivono grazie all’indotto marittimo, e, soprattutto, da parte degli altri governi della regione. È per questo che Kishida, assieme a Shunichi Suzuki, ministro delle Finanze, Yasutoshi Nishimura, ministro del Commercio, e Masanobu Ogura, ministro per le misure relative al calo del tasso di natalità, ha mangiato sashimi di passera, spigola e polpo di Fukushima, così come riso, verdure e frutta coltivate nella medesima prefettura.
VIDEO: Japanese Prime Minister Fumio Kishida dines on Fukushima fish in a renewed public relations effort to support Japanese seafood, after wastewater was released from the area's crippled nuclear plant into the Pacific. pic.twitter.com/dB09PUudnG
— AFP News Agency (@AFP) August 31, 2023
La Cina con Hong Kong e Macao ha bloccato le esportazioni di pesce giapponese
La Cina, che di per sé aveva già rapporti movimentati con il Giappone, ha subito bloccato tutte le importazioni di prodotti ittici dal Sol Levante, seguita da Hong Kong e Macao. In Corea del Sud, invece, il governo ha affermato di non aver riscontrato problemi scientifici o tecnici con il rilascio dell’acqua trattata in mare aperto – l’equivalente di più di 500 piscine olimpioniche, per un processo che dovrebbe durare 30 anni – ma la preoccupazione dell’opinione pubblica rimane alta per la possibile contaminazione dei frutti di mare e degli oceani. È così che, proprio come Kishida, il presidente sudcoreano Yoon Suk-yeol ha pranzato a base di pesce durante il suo incontro settimanale con il primo ministro Han Duck-soo. «L’ufficio presidenziale ha deciso di fornire prodotti ittici coreani nel menu del pranzo nella nostra mensa ogni giorno per una settimana a partire da lunedì, sperando che la nostra gente consumi i nostri prodotti ittici sicuri senza preoccupazioni», si legge in una nota. Gli ultimi test sull’acqua di mare vicino all’impianto di Fukushima non hanno rilevato alcuna radioattività, ha assicurato il ministero dell’Ambiente giapponese. Le industrie della pesca della regione, tuttavia, temono di incorrere in un forte calo di vendite. Basti pensare, ad esempio, che in un sondaggio pubblico dello scorso luglio condotto da Media Research, il 62 per cento dei sudcoreani affermava che avrebbe ridotto o smesso di consumare prodotti ittici una volta che sarebbe avvenuto il rilascio in mare delle acque di Fukushima.

Così Pechino, in una fase di rallentamento, cavalca lo storico sentimento anti-nipponico
Se per Kishida il pesce di Fukushima è «ottimo», la Cina ha bollato come «egoista e irresponsabile» il rilascio dell’acqua in mare aperto del Giappone. In un momento di rallentamento economico interno, il Dragone ha cominciato così a soffiare sullo storico sentimento anti nipponico, facendo leva sul nazionalismo. È così che Tokyo è diventato il nemico pubblico numero uno, e non più soltanto per la sua vicinanza agli Usa. Dal canto suo, il Giappone ha chiesto alla Cina – che rappresenta il mercato più importante per il pesce – di eliminare il divieto sulle importazioni, avvertendo che presenterà reclamo all’Organizzazione mondiale del commercio. All’ombra della Città Proibita nessuno sembra però preoccupato dalle minacce. Anzi, mattoni e uova sono stati lanciati contro le scuole e i consolati giapponesi, al punto che Tokyo è stato costretto a consigliare ai suoi cittadini in Cina di mantenere un basso profilo. Come se non bastasse, i consumatori cinesi hanno iniziato a boicottare altri prodotti importati dal Giappone, dalle creme per il viso di lusso ai prodotti per uso domestico. I media nipponici raccontano addirittura di migliaia di chiamate dal prefisso cinese recapitate agli uffici municipali di Tokyo con messaggi molesti.

Le mire della Russia sul mercato cinese
La Cina sa di poter attivare a suo piacimento le leve del cibo per finalità geopolitiche. Considerando l’immensa mole del suo mercato interno – stiamo parlando di un Paese di 1,4 miliardi di abitanti – per gli altri governi della regione asiatica esportare cibo oltre la Muraglia è un’attività tanto determinante dal punto di vista economico, quanto necessaria per il sostentamento di intere filiere agroalimentari. Del resto, in tempi non sospetti, Pechino ha più volte attuato una simile mossa, bloccando per esempio le importazioni di cibo da Taiwan. Per la cronaca, l’ultimo ban contro Taipei, risalente allo scorso 21 agosto, riguardava l’importazione di mango, ufficialmente per aver rinvenuto nei frutti il planococcus minor, un parassita nocivo passibile di quarantena. Tornando al Giappone, il mercato ittico è in apprensione per quanto potrebbe accadere nelle prossime settimane. Nel caso in cui la Cina continuasse a bloccare l’import di pesce, le ripercussioni sull’intero settore potrebbero essere gravissime. Basti pensare che nel 2022 le esportazioni di prodotti marini giapponesi verso Pechino hanno sfiorato i 160 miliardi di yen (poco più di un miliardo di euro), circa il 40 per cento del totale delle spedizioni estere di Tokyo del settore, in termini di valore. Il governo di Kishida ha stanziato 80 miliardi di yen (550 milioni di dollari) per sostenere la pesca e la lavorazione dei frutti di mare, oltre che per combattere potenziali danni alla reputazione dei prodotti nazionali, in attesa di trovare eventuali, nuovi, mercati di esportazione. Nel frattempo la Russia, colpita dalle sanzioni, sta tenendo d’occhio il massiccio mercato cinese dei prodotti ittici, e secondo Reuters sarebbe pronta ad approfittare del malcontento di Pechino nei confronti di Tokyo. Ricordiamo che nel 2022 Mosca ha esportato 2,3 milioni di tonnellate di prodotti ittici, per un valore di circa 6,1 miliardi di dollari. La metà del pescato complessivo del Cremlino è andata a Cina, Corea del Sud e Giappone. Per Vladimir Putin potrebbe palesarsi un’occasione da cogliere al volo.