Facci lascia Libero: la lettera ai colleghi della redazione

Filippo Facci ha lasciato Libero. Appena insediato, il neo direttore Mario Sechi ha eliminato la sua rubrica in prima pagina. Questa la lettera con cui il giornalista ha salutato amici e colleghi del quotidiano

«Oggi mi sono dimesso da Libero – come avevo chiesto a Scaglia di dire in riunione, essendo io stato ancora in uno stracazzo di ospedale per i miei guai interminabili – e ci tenevo a dirvi che voglio bene a voi tutti (sì, anche a te, a Senaldi: giuro) e che le mie dimissioni le avevo praticamente già decise nel giorno dell’insediamento di Sechi, il quale, come primissima cosa, ha eliminato la mia rubrica di prima pagina, che, tra piccole interruzioni umorali, esisteva – passando dal Giornale a Libero – dalla fine degli anni Novanta e figurava anche nel contratto d’assunzione che firmai nella tarda estate 2009. Non mi sono dimesso per andare al Giornale, anche se è una cosa che volevo e che dovevo fare in accordo con Sallusti sin da aprile, ma che poi è saltata per forte opposizione dell’amministratore delegato che mi offrì una cifra provocatoria all’inizio di agosto, cosa che poi non si aggiustò per sostanziale e letterale vacanza di Sallusti sulla questione».

«Mi sono dimesso per la rubrica»

«Non mi sono neanche dimesso per cose tipo l’obbligo di presenziare alle riunioni del mattino, pur io non avendo alcuna mansione: la cosa semmai mi divertiva e costituiva un problema per l’equilibrio neurovegetativo dei presenti e soprattutto di Biasin. L’equilibrio neurovegetativo di alcuni (penso a Scaglia) del resto non è peggiorabile. Senza farla lunga, e se dovessi sintetizzare, io mi sono dimesso da Libero per la rubrica, e per ciò che rappresentava per Sechi: qualcosa che in parte poteva sfuggire al suo controllo. Sechi vuole il controllo totale (già Capezzone è diverso) e lo avete già visto tutti, io l’ho capito da infiniti dettagli e da esperimenti che ho fatto in questo breve periodo.  Tantomeno mi sono dimesso in un qualcosa che è stato «concordato»: no, il direttore non ne sapeva un beato cazzo. Ma voglio bene anche a lui, a Mario Sechi, che mi seguì a Libero nel 2009 assieme a Nuzzi, Bechis, Belpietro e altri tromboni: guadagnavano infiniti soldi più di me, e però, nel tempo, io sono l’unico della brigata che è rimasto, colpevole degli accordi che avevo preso (scrivere e basta, con Belpietro che non mi voleva vedere fisicamente, così stavo a casa) e colpevole di guadagnare quello che chiesi, cioè la somma di quello che percepivo al porto sicuro di Mediaset (che lasciai per l’avventura disperata del Libero orfano del fondatore) più quello che percepivo al Giornale: non un soldo di più. Io volevo e dovevo scrivere: e non mi sembra di essermi risparmiato. Voglio bene a Mario Sechi, dicevo, anche se ne ho conosciuti due: il primo era un cazzone, il miglior capocronista che abbia avuto il piacere di conoscere, e ricordo ancora la volta che, da direttore dell’Unione Sarda, mi telefonò alle 6.00 del mattino completamente ubriaco. Un pazzo che ne cercava un altro. Del secondo Sechi ho sentito parlare, ma io non do mai retta alle voci: non voglio credere che sia diventato un classico esempio del Principio di Peter. Nel caso, non voglio saperlo, scoprirlo.

«Mi sono dimesso al buio, ma non ho paura»

«Mi è bastata la cosa della rubrica, ma non perché stiamo parlando di chissà che cosa, ma perché è stato un gesto fortemente simbolico. A parte che mi hanno levato due rubriche in un mese (la Rai e Libero: vaffanculo) suvvia, pochi cazzi: la rubrica funzionava, e funzionava perché spesso non centrava un cazzo, la sbirciavi anche se non ti piaceva, Sallusti quand’era al Giornale voleva assumermi perché la scrivessi lì, e, comunque era scritta con più metodo di quanto forse immaginiate; ma non è stata affidata a un altro, o messa in una pagina interna, cose così: è stata proprio buttata via, cancellata. E, in un giornale che sta funzionando, ci devi pensare bene prima di cancellare una rubrica che ha 25 anni o demansionare persone come qualcuna di voi. Altrimenti rischi di essere lo stupido secondo la definizione di Carlo Maria Cipolla: uno che fa del male agli altri e anche a se stesso. Vi voglio bene, insomma. Ricordatemi per quando vi portai le granite alla siciliana, per quando scassinai ufficialmente la macchinetta delle merendine, per aver portato qualcuno di voi a scalare montagne (con un ‘duro’ che quasi piangeva, e un interista che si commosse guardando delle capre), per aver rifato sorriso a un paio di ragazze tristi e ricordatemi persino per qualche articolo. Ho 56 anni e mi sono dimesso al buio, ma non ho paura. E, se vi servirà, vi sarò amico».

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