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Cimitero dei feti, maxi multa a Roma Capitale e Ama: «No alla diffusione dei dati delle donne»
Il Garante della privacy ha deciso: Roma Capitale e Ama, la società a cui è affidata la gestione dei servizi cimiteriali, saranno sanzionate per aver diffuso i dati delle donne che avevano affrontato un’interruzione di gravidanza, scrivendone i nomi sulle targhette delle sepolture al Cimitero Flaminio. Una violazione del «rigoroso regime di riservatezza» previsto dalla legge 194 del ’78, oltre che del divieto di diffusione dei dati sanitari, che costerà 176 mila euro al Comune e 239 mila euro alla società in-house. Il Garante ha anche richiamato l’Asl Roma 1, chiudendo una vicenda di cui si parla già da quasi tre anni.
La normativa prevede «le informazioni del defunto sul cippo»
Proprio l’Asl Roma 1 ha trasmesso ai servizi cimiteriali tutta la documentazione, ma questi ultimi hanno violato la normativa. Questa prevede che sulla targhetta vengano indicate le informazioni relative al defunto. Nessun riferimento alle madri, che invece hanno trovato nell’ottobre del 2000 il proprio nome scritto sulle croci. L’azienda sanitaria non dovrà più riportarle nemmeno sulle autorizzazioni al trasporto, alla sepoltura e sui certificati medico legali. Il Garante della privacy nel suo provvedimento specifica altre misure, tra cui la cifratura dei dati o l’oscuramento delle informazioni che identificano le donne.
Crivellini e Mingiardi: «Pronuncia storica del Garante»
Giulia Crivellini e Francesco Mingiardi, avvocati rispettivamente di Radicali Italiani e della causa per la campagna Libera di Abortire, come riportato da Repubblica commentano: «Dopo due anni di denunce, udienze, inchieste giornalistiche nazionali ed internazionali che, con la campagna Libera di Abortire, abbiamo promosso per sostenere le centinaia di donne che dopo aver abortito a Roma hanno scoperto il loro nome su una croce cattolica al Cimitero Flaminio di Prima Porta, oggi viene resa pubblica una pronuncia storica del Garante per la protezione dei dati personali che condanna Roma Capitale al pagamento della somma di 176mila euro per la diffusione illecita di dati relativi alla sfera di riservatezza e salute delle donne, riconoscendo al contempo le responsabilità di Ama e della Asl Roma 1 nella violazione del diritto all’anonimato».