Carrère, Lagioia, Capote: quando la cronaca nera diventa letteratura

«Il giornalismo è letteratura», ha detto Emmanuel Carrère alla presentazione milanese del suo ultimo libro V13 edito da Adelphi. V13 è il nome dato al processo degli attentati del 13 novembre 2015 che sconvolsero Parigi e il mondo intero (130 le vittime, oltre 350 i feriti) che lo scrittore francese ha seguito quasi quotidianamente, per 10 mesi, per Le Nouvel Observateur. Quattordici imputati, 1.800 parti civili, 350 avvocati. Da settembre 2021 a giugno 2022, Carrère ha seguito questo processo fiume seduto su una panca scomoda in un imponente palazzo nel cuore di Parigi, prendendo appunti su un taccuino appoggiato alle ginocchia. Vittime, imputati e corte sono i tre blocchi in cui è diviso il libro che, pagina dopo pagina, si trasforma in un viaggio senza ritorno fatto di orrore, violenza e atrocità. Un lavoro che si differenzia da altri di questo genere anche perché per la prima volta la luce più che sugli assassini è puntata sulle vittime, sui loro familiari e sui sopravvissuti. Un po’ perché gli assassini sono tutti morti e un po’ perché, come ha spiegato lo scrittore, gli imputati del V23 «erano poco interessanti e sostanzialmente un gruppo di idioti».

Carrere, Lagioia, Capote: quando la letteratura incontra la cronaca nera carrere Emmanuel Carrère e V13.

L’Avversario e il processo Romand

In V13 la cronaca, in questo caso giudiziaria, diventa letteratura. Lo stesso Carrère non è nuovo a questo genere di operazione. Ne L’Avversario, pubblicato nel 2000, raccontò il processo a carico di Jean-Claude Romand che nel gennaio del 1993 tentò di suicidarsi dopo aver sterminato moglie, figli e genitori. Le indagini dimostrarono in poco tempo che per quasi 20 anni Romand aveva mentito, facendo credere alla sua famiglia e ai conoscenti di essere medico mentre in realtà aveva lasciato l’università al secondo anno, non aveva un lavoro e trascorreva le giornate vagando per strade, parcheggi e bar a caso. Romand non era un semplice bugiardo, ma un soggetto affetto da mitomania, «una forma di squilibrio psichico caratterizzato da false affermazioni in cui l’autore stesso crede»; patologia che lo aveva trascinato in una spirale di follia. Implacabile riflessione sull’essere e sull’apparire, L’avversario mette il lettore di fronte al proprio lato oscuro, alle proprie piccole mitomanie e menzogne, in uno straziante gioco di specchi. Così una notizia locale di nera acquisisce una dimensione universale.

 

.Carrere, Lagioia, Capote: quando la letteratura incontra la cronaca nera carrere L’Avversario di Emmanuel Carrère.

Capote capostipite del genere con A sangue freddo

Per quanto anche Dostoevskij fosse partito da una notizia di cronaca per Delitto e castigo, ispirandosi alla storia del moscovita Gerasim Chistov che nel gennaio 1865 uccise con un’ascia due anziane, il capostipite di questo genere ibrido – il non fiction-novel – è universalmente riconosciuto essere A sangue freddo di Truman Capote. La vicenda da cui parte lo scrittore statunitense è quella di due assassini che sterminarono una tranquilla famiglia della provincia americana. Capote lesse questa notizia sulla cronaca locale, si fece mandare dal New Yorker come inviato e passò circa sei anni nella scrittura di questo reportage narrativo che, contro tutti i pronostici, fu unanimemente considerato il suo capolavoro. «Molti ritennero che fossi pazzo a sprecare sei anni vagando per le pianure del Kansas; altri respinsero la mia idea del romanzo-verità dichiarandola indegna di uno scrittore ‘serio’; Norman Mailer la definì un ‘fallimento dell’immaginazione’, intendendo, presumo, che un romanziere dovrebbe scrivere cose immaginarie e non cose reali»,raccontò lo stesso Capote.

Il delitto Varani indagato da Nicola Lagioia ne La città dei vivi

Un lavoro simile è stato fatto superbamente anche da Nicola Lagioia nel suo La città dei vivi all’interno del quale viene narrata, alla Capote, l’agghiacciante delitto Varani. In un anonimo appartamento del quartiere Collatino, periferia romana, due ragazzi di buona famiglia, Manuel Foffo e Marco Prato, nel corso di un festino a base di sesso, alcol e droga uccisero dopo averlo seviziato per ore il coetaneo Luca Varani. «Ho trascorso quattro anni in giro per Roma a raccogliere materiale e documenti, ma soprattutto a incontrare gente, a fare domande, ho incontrato gestori di locali, piccoli commercianti, travestiti, spacciatori, senatori, carabinieri, baristi, dentisti, disoccupati, prostituti, educatori, avvocati, magistrati, agenti immobiliari, assicuratori, carrozzieri, ristoratori…», ha raccontato Lagioia, quasi ossessionato da come due ragazzi avessero deciso di rovinarsi completamente la vita senza alcun motivo. Il romanzo si apre con il sangue che cola in una biglietteria del Colosseo. Un inizio da film horror all’interno del quale non c’è nulla di inventato, nemmeno il perenne clima da indulgenza che aleggiava nella Capitale: «Il fatto è che a Roma ognuno fa come cazzo gli pare, pensai. I tifosi del Feyenoord entravano ubriachi nella fontana di Trevi e prendevano a bottigliate la Barcaccia del Bernini, a Villa Borghese i vandali decapitavano le statue dei poeti, grandi buste di immondizia volavano da un palazzo all’altro, tutti pisciavano ovunque, un’indulgenza plenaria era nell’aria, e io stesso, che in un’altra città mi sarei fatto scoppiare la vescica, mi ero trovato più di una volta a inumidire le Mura Mura Serviane».

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