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Asia, dall’India al Pakistan l’inflazione sui beni alimentari è alle stelle
L’andamento dei prezzi dei beni alimentari rappresenta l’indicatore principe della tenuta economica di un Paese. Questo vale in modo particolare per il continente asiatico, densamente popolato e affamato di risorse, e quindi sensibile ad ogni minima fluttuazione. Non fanno eccezione i giganti Cina e India. E proprio da quest’ultima arriva un preoccupante campanello d’allarme, peraltro collegato alle conseguenze del cambiamento climatico. Nelle ultime settimane, i prezzi dei principali alimenti – i pilastri della dieta di uno Stato con oltre 1,4 miliardi di abitanti – sono aumentati a causa dell’arrivo irregolare dei monsoni. Mentre in alcune aree le forti piogge hanno spazzato via i raccolti, in altre il loro ritardo alimenta il timore di raccolti scarsi. E, va da sé, di prezzi in crescita.
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Modi alle prese con la stretta sulle esportazioni di riso
Come sottolineato dal Financial Times in agosto il prezzo dei pomodori è aumentato di circa il 400 per cento rispetto a luglio, dopo che le piogge torrenziali hanno danneggiato i raccolti, mentre il costo del riso è cresciuto dell’11,5 per cento su base annua. Oggi per acquistare un chilo di pomodori occorrono 40,82 rupie indiane, circa 0,45 euro, e per la stessa quantità di riso 118,91 rupie, 1,31 euro. Prezzi che potrebbero sembrare irrisori, ma che non lo sono affatto per una nazione dove – stando ai dati di Oxfam International – i due terzi della popolazione vive in condizioni di povertà. E dove quasi il 70 per cento di questi poveri deve accontentarsi di sfamare la propria famiglia con meno di due dollari al giorno (mentre il restante 30 per cento, i poverissimi, non ha neppure quelli). L’impennata dell’inflazione sui beni alimentari è così diventato un rebus per il primo ministro Narendra Modi che ha recentemente vietato le esportazioni di diverse varietà di riso dopo settimane di proteste per gli aumenti dei prezzi. La mossa di Nuova Delhi ha tuttavia spinto il Fondo Monetario Nazionale a chiedere a Modi di revocare la sua decisione, visto che l’India è il più grande esportatore di riso al mondo, dalle cui esportazioni dipendono molti Paesi.
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I rincari della tavola, dal Pakistan al Giappone
A giugno il tasso d’inflazione al consumo in India si aggirava intorno al 4,8 per cento, all’interno dei limiti stabiliti dalla Reserve Bank of India. Le percentuali però spaventano Modi, soprattutto in vista delle elezioni del 2024. Il controllo dei prezzi è insomma diventato un obiettivo chiave per l’India, ma anche per altri Paesi dell’area. Come il Pakistan, ad esempio, dove lo scorso aprile l’inflazione ha toccato il livello record del 36,4 per cento, trainata proprio dai prezzi dei prodotti alimentari. Secondo quanto riportato da Asianews, gli shock dell’offerta causati dalle inondazioni, l’aumento dei prezzi delle materie prime internazionali, il deprezzamento della rupia, la mancanza di controlli amministrativi sui prezzi al dettaglio e il contesto di crisi politica in peggioramento sono tutti fattori che rischiano di mantenere alta l’inflazione alimentare per parecchio tempo. E nel resto dell’Asia? In Cina, a giugno l’inflazione alimentare si è stabilizzata, con i prezzi dei prodotti che sono aumentati mediamente 2,3 per cento rispetto all’anno precedente (+1 per cento da maggio). In Giappone, il costo delle uova è aumentato del 35,7 per cento su base annua, quello delle bevande gassate del del 17,4 per cento e quello degli hamburger del 17,1 per cento. L’inflazione nipponica dovrebbe però aver raggiunto il suo apice e ridursi gradualmente. In Corea del Sud, il fenomeno è sceso al minimo degli ultimi 25 mesi, anche se i prezzi del cibo sono aumentati del 3,4 per cento. L’Asia guarda dunque con attenzione ai cambiamenti climatici, ben consapevole che i fenomeni estremi possono spesso innescare la volatilità dei prezzi. E proteste di piazza.