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Perché la partita di Tim non è ancora chiusa nonostante l’ok a Kkr
Settimana decisiva per la vicenda Tim, su cui il governo ha messo temerariamente la faccia fin dal giorno uno del suo insediamento, affermando senza se e senza ma che la Rete doveva tornare nelle mani dello Stato. Non importa se poi, via via che passava il tempo e seguendo gli umorali saliscendi di una maggioranza litigiosa, i se e i ma si sono moltiplicati. Così, prima che la sua faccia rischiasse di perderla, tutto è finito sui tavoli del Mef e di Palazzo Chigi, nello specifico quello del capo di gabinetto Gaetano Caputi, se non altro per disboscare la confusa platea di protagonisti che volevano dire la loro. Risultato? A un anno dall’insediamento dell’esecutivo la partita non è ancora chiusa.

Il via libera a Kkr e il possibile veto di Vivendi
Si chiuderà ora, dopo il suo via libera all’offerta del fondo Kkr? Visto il pregresso, meglio non azzardare previsioni. Ci sono ancora troppi nodi irrisolti, a partire dal ruolo dei francesi di Vivendi, soci di riferimento della società, sin dall’inizio contrari alla vendita della Rete la cui valutazione considerano deprezzata al punto tale da mettere in seria difficoltà la sopravvivenza di quello che resterebbe, in primis la parte dei servizi. Coinvolti all’ultimo momento dal governo, convinto comunque che lo scorporo di Tim si possa fare senza il loro coinvolgimento, Bolloré e soci hanno montalianamente fatto sapere ciò che non sono e ciò che non vogliono. Poi si sono messi alla finestra, non prima però di aver minacciato fuoco e fiamme se l’operazione dovesse passare senza l’avallo di un’assemblea straordinaria. La sola certezza dunque è che ci sarà molta più materia per gli avvocati e consulenti di quella che c’è stata finora, cosa che nel groviglio dei veti contrapposti suggerisce l’emergere di un sicuro vincitore: le loro parcelle.

La proposta di Merlyn e la chiamata in causa di Cdp
Notizia del fine settimana, sul filo di lana è arrivata la proposta del fondo Merlyn, che ribalta le carte in tavola: nessuna vendita della Rete, ma piuttosto dei servizi e dalla ricca controllata in Brasile. E uno schema che fa di Cassa depositi e prestiti, altro azionista importante dell’ex monopolista dei telefoni, perno dell’operazione. Figurarsi l’agitazione in via Goito per la chiamata in causa, dopo che per tutta la vicenda il suo atteggiamento era stato quello dell’alunno che si nasconde sotto il banco per non farsi interrogare. Sta di fatto che di fronte all’inatteso sasso lanciato nello stagno, il governo con raro tempismo ha fatto sapere che non se ne parla proprio, e che l’unica strada percorribile resta quella del fondo americano d’intesa con il Mef. La prontezza con cui Palazzo Chigi si è mosso a molti ha fatto specie, ma è facilmente spiegabile: la paura che la proposta di Merlyn seduca quanti al suo interno, a cominciare dal vicepresidente Matteo Salvini, hanno sempre strepitato contro lo spezzatino telefonico. E, ancora, quella che l’iniziativa del fondo vada a fare comunella con lo scontento di Vivendi, ampliando così la massa critica degli oppositori e il loro potere di interdizione in un’aventuale assemblea.

Tim, la fine di una vicenda di cui non si vede ancora la fine
Conclusione, che detta così suona come un paradosso: siamo alla fine di una vicenda di cui non si vede ancora la fine. Tirarla in lungo sarebbe esiziale, per il governo ma soprattutto per l’azienda che dopo mesi di caotica confusione intorno ai suoi destini vorrebbe certezze. Ma uscirne, parafrasando le parole del ministro Giorgetti, sembra uno spericolato quasi irrisolvibile esercizio di complessità.