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Gli effetti economici e geopolitici della crisi israeliana in Asia
Contraccolpi economici, commerciali e politici. Le conseguenze della guerra tra Israele e Hamas hanno superato i confini regionali e stanno bussando (anche) alle porte dell’Asia. Un continente più vicino all’epicentro delle tensioni di quanto si possa immaginare. Le dinamiche del mondo globale, del resto, sono soggette alla classica teoria dell’effetto farfalla: ogni piccolo cambiamento locale comporta, in maniera più o meno evidente, alterazioni su scale più grandi. È per questo che i principali governi asiatici, già alle prese con due impicci non da poco come l’elevata inflazione e l’aumento dei rendimenti del debito del Tesoro statunitense, devono adesso affrontare nuovi rischi. Tutti figli dalla crisi israeliana.
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Scossa economica: prezzo del greggio su del 5 per cento
All’indomani della pioggia di missili che dalla Striscia di Gaza si è riversata su Israele, il prezzo del petrolio ha subito uno scossone non irrilevante. Il greggio ha fatto segnare un balzo all’insù del 5 per cento in un solo giorno, mentre le quotazioni del Wti e del Brent sono rispettivamente salite del 3,8 per cento, a 86 dollari al barile, e del 3,6 per cento, a 87,6 dollari. Numeri e dati volubili, soggetti a cambiamenti e alterazioni, ma che hanno fatto scattare un primo, serio, campanello d’allarme in Asia. Cioè in una regione energivora, affamata di risorse energetiche e materie prime. S&P Global Commodity, non a caso, avvisava che l’intero continente avrebbe rappresentato i tre quarti della crescita della domanda globale di petrolio nel corso del 2023 e più della metà nel 2024.
La Cina consuma oltre 14 milioni di barili di petrolio al giorno
Dando un’occhiata alle cifre del 2022, notiamo come la Cina consumi oltre 14 milioni di barili di petrolio al giorno, seguita da India (oltre 5 milioni), Giappone (più di 3) e Corea del Sud (poco meno di 3). A seguire troviamo poi “Tigri” e “Tigrotte asiatiche”: Indonesia (1,5 milioni), Thailandia (1,2), Singapore (1,1), solo per citare alcune nazioni affamate di petrolio. I riflettori sono quindi puntati su Israele. La visione più ottimistica è che la crisi rientrerà presto e che le sue ricadute economico-finanziarie saranno temporanee. Secondo questo approccio, affinché un conflitto abbia un impatto duraturo e significativo sui mercati petroliferi è necessario assistere a una riduzione della fornitura e dei trasporti del petrolio. Un fenomeno che, almeno per il momento, non si è verificato.
La variabile Iran: occhio a ciò che succede nello Stretto di Hormuz
Dall’altro lato, non è però da escludere che la guerra possa estendersi ad altri Paesi, compresi i protagonisti del commercio delle risorse energetiche. Da questo punto di vista, la variabile chiave coincide con l’Iran, accusato di aver supportato Hamas nell’attacco contro Israele. Se Teheran dovesse essere risucchiata nello scontro, allora è lecito attendersi problemi di approvvigionamento petrolifero. Il motivo è semplice: negli ultimi anni, l’esercito iraniano ha creato non pochi grattacapi alle navi transitanti attraverso lo Stretto di Hormuz, il passaggio marittimo incastonato tra Oman e Iran dal quale viaggia il 30 per cento del petrolio internazionale.
In caso di dirottamento delle navi, viaggi più lunghi e costi maggiori
L’Iran ha più volte approfittato della dipendenza globale da questo choke point per dimostrare la sua potenza. Non a caso, il Dipartimento della Difesa Usa sostiene che gli iraniani abbiano attaccato o sequestrato una ventina di navi mercantili soltanto nell’ultimo biennio. Detto altrimenti, qualora il conflitto arrivasse anche a queste latitudini, gli armatori dovranno dirottare le loro imbarcazioni verso viaggi alternativi. Molto più lunghi e, va da sé, costosi, con forti perturbazioni nel mercato petrolifero. Un eventuale conflitto tra Iran e Israele trasformerebbe insomma lo Stretto di Hormuz in una sorta di tiro al bersaglio contro qualunque spedizione battente bandiera affiliata a Tel Aviv. Nel frattempo, gli Stati Uniti stanno posizionando un gruppo d’attacco nel Mediterraneo Orientale, nei pressi di Gaza e del Canale di Suez. Un altro segnale preoccupante per i mercati.
Tensioni politiche: Pechino e India sono per la soluzione dei due Stati
Accanto alle questioni economiche troviamo un altrettanto corposo dossier politico. La Cina si è mantenuta cauta nell’esprimere il suo giudizio sulla vicenda, chiedendo la fine delle violenze ma senza condannare espressamente Hamas, come avrebbero invece auspicato gli Stati Uniti. Il Dragone propende per la “soluzione dei due Stati”, Israele e Palestina, per risolvere ogni crisi nella regione mediorientale. Così come l’India di Narendra Modi, che ha espresso solidarietà al governo israeliano ma che, al tempo stesso, non intende inimicarsi i suoi più importanti partner locali, molti dei quali sconvolti dalla reazione di Tel Aviv.
Paesi a maggioranza musulmana allineati con la causa palestinese
In generale, lo scoppio della guerra ha ampliato le divisioni asiatiche, soprattutto nel Sud-Est della regione. Paesi a maggioranza musulmana, come Indonesia e Malesia, si sono allineati alla causa palestinese. Gli altri Stati dell’Asia che non riconoscono Israele – Afghanistan, Bangladesh, Maldive e Pakistan – hanno ancor più esplicitamente evidenziato le brutalità di Israele a Gaza e reiterato le richieste per uno Stato palestinese. Con il rischio che le frange estremiste locali possano risvegliarsi mettendo in atto attentati e azioni terroristiche. Di pari passo, gli interessi commerciali hanno spinto il resto del continente a mantenersi timidamente in equilibrio o a sostenere Israele. Se non altro a causa dell’elevato numero di cittadini di svariati Paesi coinvolti nella crisi. La Thailandia, che conta oltre 30 mila lavoratori migranti in Israele, piange per esempio 18 vittime ed è in apprensione per altre 11 persone rapite, con tutta probabilità ostaggio di Hamas.