Ucraina, la cacciata di Reznikov serve a Zelensky per rassicurare gli Usa

Mentre la controffensiva si fa ancora attendere e le notizie di una breccia ucraina nella prima di difesa russa sul fronte meridionale si accavallano con quelle di una sempre maggiore pressione di Mosca su quello del Donbass, a Kyiv rotolano le prime teste. La più illustre quella del ministro della Difesa Oleksiy Reznikov, fedelissimo della prima ora del presidente Volodymyr Zelensky, che dopo oltre un anno e mezzo di guerra ha dovuto gettare la spugna, tra scandali di corruzione, incapacità di governare la normale amministrazione, errori di comunicazione e sul campo, nella gestione della campagna militare che ha mostrato una forbice sempre più ampia tra propaganda e realtà.

Ucraina, si dimette il ministro della Difesa Reznikov
Oleksiy Reznikov (Getty Images):

Reznikov e Kolomoisky, capri espiatori offerti agli Usa

C’è poco da stupirsi quindi se il ministro della Difesa è stato silurato, tra le pressioni dell’opposizione interna di fronte a una serie di disastri difficilmente giustificabili all’opinione pubblica, e quelle degli alleati, soprattutto degli Stati Uniti, con il rapporto tra Casa Bianca e Bankova sempre teso a causa delle suddette questioni in tutte le loro sfaccettature: da tempo i moderati a  Washington fanno filtrare messaggi che dai falchi a Kyiv non vengono recepiti, con il rischio di sempre maggiori incomprensioni che alla lunga potrebbero essere dannose all’Ucraina. Ecco quindi che in vista della prossima visita a Joe Biden, a margine dell’assemblea generale dell’Onu tra un paio di settimane, Zelensky ha deciso di portare sul piatto non solo la testa di Reznikov, ma anche quella di Igor Kolomoisky, oligarca prima amico e poi nemico, finito dietro le sbarre in custodia cautelare almeno sino alla fine di ottobre. Kolomoisky, da tempo nei radar dei tribunali statunitensi, è stato accusato di frode e riciclaggio finendo nel mirino della giustizia selettiva ucraina, quella che si sveglia quando c’è un nemico di cui sbarazzarsi. Le tempistica della ghigliottina non è certo casuale e serve appunto per ammorbidire Biden, che oltre ad avere problemi di empatia con Zelensky, deve affrontare una stagione di vigilia elettorale in cui il dossier ucraino non deve far perdere punti. Il problema sarà vedere se le due vittime sacrificali basteranno, almeno temporaneamente, per evitare che gli Usa decidano di prendere una strada diversa da quella sperata da Kyiv e premano per un compromesso che passi sopra la testa di Zelensky e del suo cerchio magico.

Ucraina, la cacciata di Reznikov serve a Zelensky per rassicurare gli Usa
L’oligarca Igor Kolomoisky in tribunale a Kyiv (Getty Images).

I motivi della nomina a ministro della Difesa di Umerov

In questo senso va anche letto il nome del sostituto di Reznikov, Rustem Umerov, non certo un perfetto sconosciuto Oltreoceano, sin da quando qualche anno fa ha frequentato il programma offerto dal dipartimento di Stato per i leader in erba. Un po’ imprenditore un po’ politico, attivo soprattutto fino a una decina di anni fa solo in Crimea, terra natale della sua famiglia di origine tatara, Umerov è stato eletto nel 2019 alla Rada, il parlamento ucraino, nelle liste di Golos, un piccolo partito filoccidentale, fondato dal cantante degli Okean Elzu, Sviatoslav Vakarchuk, che aveva e ha come priorità in politica estera l’entrata dell’Ucraina nell’Unione Europea e nella Nato. Dal settembre del 2022 Zelensky lo ha cooptato al vertice del Fondo del demanio statale, che si occupa sostanzialmente delle privatizzazioni, o come dicono i maligni della svendita del Paese all’Occidente. Il nuovo ministro della Difesa, come del resto il suo predecessore, non ha competenze specifiche militari, ma porta in dote le sue capacità di manager e soprattutto è un uomo chiave gradito a Washington, uno dei tanti che stanno scalando i vertici della politica, dell’amministrazione e dell’economia del Paese, in un’operazione di colonizzazione che sta andando avanti apertamente da quasi 10 anni, da quando nel primo governo dopo la rivoluzione di Euromaidan finirono tre ministri stranieri guidati dal premier Arseni Yatseniuk, colui che Victoria Nuland, allora vice segretaria di Stato, durante le proteste a Kyiv del 2013 aveva definito «il nostro uomo».

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