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Hong Kong, respinto il tentativo del governo di vietare un brano di protesta
La Corte suprema di Hong Kong ha respinto la richiesta del governo di vietare Glory to Hong Kong, canzone di protesta che inneggia alla democrazia tanto da diventare inno non ufficiale dei manifestanti nel 2019. Secondo il giudice Anthony Chan che ha emesso la sentenza, un’eventuale ingiunzione avrebbe potuto «avere effetti agghiaccianti, minando la libertà di espressione». Lo scorso 5 giugno il governo aveva chiesto di vietare ogni forma di distribuzione e circolazione della traccia o di parti di essa come la melodia e persino qualsiasi altra versione o adattamento. Si tratterebbe, secondo le autorità, di un «inno di secessione dalla Cina che può causare un grave danno a livello nazionale». Come ha riportato il Guardian, inoltre, il brano non è presente sugli store online di Spotify e iTunes.
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Le ragioni della Corte suprema di Hong Kong e le precedenti pressioni su Google
Tutto era partito a novembre 2022, quando la canzone venne suonata in una gara internazionale di rugby a sette. Glory to Hong Kong partì al posto dell’inno nazionale cinese, prima di essere fermato parlando di un «semplice errore umano». Da allora, il Paese ha assistito a una crescente intolleranza per qualsiasi slogan, dichiarazione o semplice citazione del brano. «Abbiamo il dovere di difendere i diritti umani in virtù della salvaguardia nazionale», ha spiegato il giudice Chan nella nota ufficiale, bollando la richiesta del governo come «priva di utilità». Un eventuale divieto avrebbe potuto presentare ripercussioni anche su persone innocenti, «scoraggiate in attività legittime per paura di violare la nuova legge». Qualora la Corte avesse accolto la richiesta del governo di Hong Kong, Google e gli altri motori di ricerca avrebbero dovuto bloccare ogni accesso dalla rete nazionale.
Già in passato tuttavia, Google aveva subito pressioni da parte del governo di Hong Kong per limitare o eliminare del tutto la presenza del brano di protesta dal browser. Il colosso americano aveva però negato ogni possibile intervento, affermando che solo un algoritmo è responsabile dei risultati di ricerca. Per il capo della sicurezza locale, Chris Tang, si era trattato di una scelta che aveva «ferito i sentimenti del popolo», mentre il governatore John Lee aveva parlato di «una risposta impensabile e inaccettabile». Intanto, dopo la decisione della Corte suprema, i cittadini hanno festeggiato sui social network, dicendosi pronti a intonare la melodia ogni sera. Preoccupano però le prossime mosse del governo, che secondo il Guardian potrebbe rivolgersi all’Assemblea nazionale del popolo di Pechino come ha già fatto in passato.