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La pasticciata strategia del governo Meloni sulla Cina
La Cina non è vicina, ma nemmeno in un altro pianeta. Così si potrebbe riassumere la posizione del governo Meloni su Pechino che rappresenta una delle maggiori continuità con l’era di Mario Draghi a Palazzo Chigi. L’esecutivo di centrodestra si appresta a formalizzare il via libera all’uscita dalla Via della Seta, visto che certamente non intende presentarsi come il primo amico del Dragone in Europa e manifesta la sua vicinanza a Washington. Ma non vuole fare il passo più lungo della gamba. E se sulla Russia Giorgia Meloni ha assunto una posizione filo-atlantica paragonabile a quella di Paesi come il Regno Unito, nei confronti della Cina non segue l’alleato Rishi Sunak o la Casa Bianca sulle reiterate condanne alle violazioni dei diritti umani di Pechino, sulla causa di Taiwan e sulle nette sanzioni su tecnologie strategiche e microchip con cui l’Anglosfera vuole castrare l’ascesa economica cinese.

I politici in sfilata a Villa Taverna e la missione della Marina
Certo, l’atlantismo promosso e spesso sbandierato dell’esecutivo è stato manifestato nella celebrazione del 27 giugno di Villa Taverna. La festa dell’ambasciata Usa per il 4 luglio ha visto presenziare i fedelissimi di Washington, Giancarlo Giorgetti e Antonio Tajani, mentre la premier telefonava a Joe Biden per preparare il suo sbarco alla Casa Bianca, che spera di concretizzare dopo l’estate. E anche il manager più attenzionato da Pechino, Marco Tronchetti Provera, poco dopo l’attivazione del golden power anti-cinese su Pirelli è arrivato alla Canossa a stelle e strisce. Il giorno stesso a Yokosuka levava l’ancora per la fine della sua crociera giapponese il pattugliatore della Marina italiana “Francesco Morosini”, inviato dal governo a mostrar bandiera nel Mar Cinese Meridionale, fino in Giappone. Due eventi che i ben informati non hanno mancato di collegare.

Berlusconi è stato durissimo con Pechino fino all’ultimo
La grande manifestazione di Villa Taverna ha fatto registrare la presenza massiccia dei membri dell’esecutivo. La missione della Marina in Giappone, invece, è stata per ora meno imponente della prevista idea di inviare la portaerei Cavour. Il governo dunque sostiene con attenzione gli Usa, ma è settoriale nello sposare il contenimento anti-cinese. E c’è un chiaro calcolo politico e strategico delle forze di maggioranza su questo tema. Non è un caso che a oggi il partito che più spesso parla della Cina come una minaccia strategica, in seno alla maggioranza, sia Forza Italia. Il cui fondatore Silvio Berlusconi è stato, nelle ultime settimane di vita, durissimo verso Pechino nel suo intervento da remoto alla convention azzurra su questo tema. Per struttura, storia e inserimento istituzionale, oltre che per base elettorale, Forza Italia sa che il contenimento anti-cinese è nel suo interesse politico. E in passato lo stesso Tajani ha speso per Pechino parole dure.

La Lega è autrice del memorandum del governo Conte I
Diverso è il caso di Lega e Fratelli d’Italia, dove gli umori sono differenti. Tanto che i primi a parlarne il meno possibile sono la capa del governo e il suo vice, Giorgia Meloni e Matteo Salvini, che dopo la vittoria elettorale hanno limitato le esternazioni pubbliche su Pechino. In casa Carroccio, infatti, il timore è che un’abiura netta del rapporto con Pechino spiazzi la Lega. Che è autrice di fatto del memorandum del governo Conte I, siglato dall’allora esecutivo gialloverde e avente come regista il sottosegretario al ministero dello Sviluppo economico Michele Geraci, economista molto noto nella Repubblica Popolare e nominato in quota Lega. Salvini in passato ha avuto uscite, anche molto polemiche, verso Pechino. Ma una “China Policy” leghista per ora non si vede. Esistono sentimenti chiari da tempo, come la preferenza di Giorgetti per Washington, così come esistono convenienze di fatto, vedi gli investimenti di Pechino nelle regioni chiave del governo leghista, tipo Lombardia e Veneto.

Fontana e Centinaio guardano anche agli affari
In passato anche il presidente della Lombardia Attilio Fontana ha visitato le sedi di aziende come Zte, chiave per la strategia di Pechino sulle telecomunicazioni, mentre più di recente al party di insediamento del neo-ambasciatore cinese a Roma Jia Guide il vicepresidente del Senato Gian Marco Centinaio rappresentava il Carroccio muovendosi con disinvoltura tra i convitati, ben accolto. Del resto, pur avendo visitato di recente Taiwan assieme alla senatrice Elena Murelli, Centinaio non ha negato di essere “amico” anche della Cina. La componente anti-cinese del partito, oltre a Giorgetti, ha nel vicepresidente della Commissione Esteri della Camera Paolo Formentini, molto critico in passato delle repressioni in Xinjiang e a Hong Kong, uno dei suoi maggiori portavoce.

In Fratelli d’Italia si consolida il “partito del Pil”
In casa Fratelli d’Italia la posizione della presidente del Consiglio Meloni è di compromesso: avanza un passo sul contenimento anti-cinese, per esempio con il golden power su Pirelli, ma poi ne fa due indietro, ribadendo, come fatto alla Camera, che «si può avere un ottimo rapporto con Pechino senza una partnership strategica». Fumo negli occhi per la componente più radicalmente anti-Dragone del suo partito, rappresentata dai senatori Lucio Malan e Giulio Terzi di Sant’Agata. Ma questa posizione serve a Meloni a consolidarsi nel “partito del Pil” che non tifa per la rottura con la Cina, per mantenere la presa su un elettorato di destra sociale che male ha digerito l’atlantismo spinto del suo governo, e pure per evitare strappi in Europa. Minare il rapporto con la Cina può fornire un assist strumentale a Francia e Germania per spiazzare Roma nel mercato cinese. Per questo Meloni si guarda bene dal pubblicizzare il distacco.

Qual è il vero interesse nazionale dell’Italia verso la Cina?
Insomma si perpetra, anche con Meloni, la difficoltà per l’Italia di avere un rapporto strutturato e completo con la Cina. Dopo la fatua rincorsa al memorandum, è iniziato un gioco di avanzate e dietrofront spesso condizionato da forze esterne. Che tra “ossessione” della sicurezza nazionale e difficoltà a dare priorità precise al rapporto con la Cina su temi come investimenti, ambiente, tutela dei diritti umani e cooperazione in aree di interesse comune tipo l’Africa, ha reso marginale il peso di Roma a Pechino, senza neanche trasformarla in un asset per la strategia Usa. Qual è l’interesse nazionale dell’Italia verso la Cina? Non lo si sapeva con Conte, non lo si è capito con Draghi, non si abbozza nemmeno con Meloni. Grande è la confusione sotto il cielo, ma – parafrasando Mao Zedong – la situazione non è eccellente.