Ho sognato il mondo post coronavirus che verrà

La pandemia ha proiettato il nostro ieri in un passato remoto. Le parole d'ordine ora sono resilienza e flessibilità. Senza dimenticare, in questo fermo biologico imposto, la riscoperta degli affetti profondi. Ma alla fine dell'emergenza, ci odieremo o ameremo di più?

«Ormai ho più paura della fine del mese che della fine del mondo» (Anonimo). In ogni passaggio d’epoca c’è un detonatore. Un’esplosione. Un’improvvisa accelerazione che pone fine a rivendicazioni, proteste, conflitti che si trascinavano da tempo. Ma che a certo punto, in un preciso momento si risolvono con un brusco, violento scoppio.

Negli ultimi due secoli è stata una grande guerra l’ante e il post di epocali rivolgimenti e trasformazioni. Ora invece è una pandemia, la prima nella storia, ad annunciare la nuova era. Che comunque vada e si risolva – sperando ovviamente bene – segna la fine del mondo e della società nei quali abbiamo sin qui vissuto.

Volendo indulgere nel vezzo del neo e del post, che di solito s’usa quando non si sa bene come classificare un nuovo corso sociale, un’inedita fase economica o culturale, azzarderemo una provvisoria società post coronavirus. Che ovviamente reca in sé fenomeni e processi che abbiamo già in parte visto e vissuto, coi quali, dunque ci siamo già confrontati. Ma che offre molto di inedito, anche nel portare a maturazione situazioni e tendenze da tempo in atto, ma sottotraccia. Oppure disinvoltamente lasciate passare. Perché ritenute mode effimere o fenomeni non in grado di incidere realmente sui vissuti individuali e sociali.

LA SOCIETÀ DELL’ECCESSO CHE SEGUÌ LA CRISI DEL 2008

«Nulla sarà più come prima». Si è detto all’indomani della Grande Depressione scatenatasi nel 2007-2008, e ripetuto allo sfinimento sino all’altro giorno. Ma in realtà appena la bufera è passata, abbiamo ripreso a fare quel che facevamo prima. Cambiando poco o niente, ma al contrario esasperando, stressando tutti gli ambiti, non solo di mercato e finanziari, che erano stati principali cause di quella Grande Crisi. Troppa finanza, troppi prodotti, troppi soldi, troppo mobili: ma nel momento in cui lo si denunciava e si mettevano in evidenza i grandi rischi sottesi a questa folle corsa, si proseguiva ancora più alacremente ad alimentare la società del troppo.

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IL COVID-19 FA APPARIRE IL NOSTRO IERI TERRIBILMENTE VECCHIO

Ora invece con il Covid-19, nel giro di un mese, è successo quel che non era accaduto negli ultimi 12-13 anni. Che l’intero modo di vita che abbiamo fatto tutti sino all’altro ieri ci apparisse e appaia terribilmente vecchio, obsoleto, insostenibile. Città chiuse, frontiere blindate, voli sospesi, turismo finito e tutti chiusi in casa, nemmeno fosse scoppiata la III Guerra mondiale: siamo messi così. Costretti a ripensare e a ripensarci in una società che improvvisamente scopre il senso vero e reale, dunque concreto di parole che abbiamo ripetuto sino allo sfinimento.

LA FLESSIBILITÀ ASSUME UN VALORE POSITIVO

Flessibilità e resilienza, riassumibili anche in sostenibilità, altro termine abusato, sono le parole da cui può partire un esercizio di immaginazione del futuro, che assuma la pandemia come momento di passaggio epocale. La flessibilità è da anni che viene di norma intesa negativamente e associata a precarietà. Ora però il Covid-19 ci dice che essere flessibili, veloci nell’adattarsi a nuove, impreviste condizioni è, e sarà sempre più, fondamentale, in una fase di lunga e forte transizione, quale è quella che ci aspetta. Essere resilienti, in tale prospettiva, diventa la prima regola per essere pronti e preparati all’emergenza. Chi è “resiliente”, da tempeste e sconquassi esce non indenne, certo ammaccato, ma non morto.

NELLA SOCIETÀ DIGITALE TUTTO SI PERDONA TRANNE L’INDECISIONE

Già: ma quanto è flessibile e resiliente il sistema Paese? Anche stavolta l’emergenza ha fatto e sta facendo uscire, con l’eccezione dei politici, il meglio degli italiani. Tuttavia come sistema Paese manca la consapevolezza che creatività e capacità di improvvisare sono qualità, dei plus. Ma se coniugati con strutture, anche di pensiero, solide. Con processi decisionali chiari, rapidi e capacità di mobilitazione massima. Il caso della Cina che è riuscita a sigillare 60 milioni di persone e in parte anche dell’Italia mostrano, appunto, che nella società digitale, mobile e virale tutto è concesso e perdonato, ma non l’indecisione e le risposte parziali, locali. Se c’era bisogno, ad esempio, di prova e controprova che una Sanità regionale, intesa in senso autonomistico, di fronte a flagelli sanitari globali potesse rivelarsi disastrosa, queste sono arrivate con il coronavirus.

OGGI BASTA POCO PER CAUSARE UN DEFAULT

La velocità – che non è fretta –  delle decisioni e dei provvedimenti, coordinati ai diversi livelli territoriali e istituzionali, è ormai fondamentale. Perché la società dell’istante, del momento non è solo un’immagine pubblicitaria. E il rischio che qualcosa o tanto vada storto, come ha scritto il sociologo Ulrich Beck più di 20 anni orsono, non è più una remota possibilità. Ma un’eventualità abbastanza probabile. Il classico incidente è quasi sempre dietro la porta. Per la semplice ragione che tutto, dal clima alle produzioni agricole, dalla finanza alle imprese, dalle organizzazioni urbane ai bilanci familiari e personali non ha più margini: è così tirato, stressato, portato al limite estremo, che basta poco per entrare in crisi, in default. Anche perché paracaduti, uscite di sicurezza e piani B sono quasi sempre teorici. Se il coronavirus ci ha gettati nel panico è perché viviamo in una società che è strutturalmente ansiogena.

IL GAP TRA TECNOLOGIA E IGNORANZA DIGITALE

Tuttavia nel disastro che si sta rivelando la pandemia, ci sono alcune ragioni di ottimismo. Per quanto in grande ritardo ci stiamo rendendo conto che quel che stiamo facendo ora in emergenza era da tempo nelle nostre possibilità. Scuole e università stanno infatti scoprendo che possono fare video-lezioni, e che la formazione a distanza è una soluzione praticabile anche in tempi normali. Cosi come lo smart working, lavoro agile o telelavoro, del quale si parla da 30 anni, ma nella sordità di aziende private e amministrazioni pubbliche. Siamo in coda all’Europa, anche come competenze digitali (solo il 20% degli italiani le ha). E così nell’epoca dell’home banking, ci troviamo di fronte a lunghe file di persone in strada, con mascherine e guanti, davanti agli sportelli delle banche. Ma anche nell’impossibilità di chiudere pratiche o atti amministrativi, perché l’ufficio comunale o statale, se non è stato chiuso, continua a chiedere documento e presenza personale, mentre potremmo risolvere da casa usando Skype e la firma digitale.

È GIUNTA L’ORA CHE LA SBUROCRATIZZAZIONE COMINCI DAVVERO

Ma perché #iorestoacasa sia una possibilità effettiva e non contingente, occorre che la tanto invocata sburocratizzazione cominci davvero. E contestualmente si dia avvio su larga scala a corsi e attività formative in ambito digitale rivolti a tutta la popolazione. Qualcosa di simile, nello spirito, al celebre programma tivù Non è mai troppo tardi che insegnò a leggere e scrivere a milioni di italiani. Evocazione questa che consente anche di segnalare un piccolo miracolo. «La Rai cambia i suoi palinsesti: più cultura e uno speciale per la scuola». Un titolo d’agenzia che riassume l’invito del ministro Dario Franceschini alla tivù di Stato di programmare musica, teatro, cinema, arte al fine di fare arrivare la cultura nelle case degli italianidurante questo periodo in cui sono chiusi cinema, teatri, concerti, musei.

TORNIAMO AGLI AFFETTI E ALLE RELAZIONI PROFONDE

Tuttavia l’opportunità più grande che ci offre la prima pandemia della storia non è solo il “fermo biologico” che ci viene imposto, ma soprattutto la riscoperta del “nucleo sociale primario”, ossia della famiglia. Dello spazio domestico come luogo di affetti e relazioni profonde ritrovate. Anche se non so prevedere, per mettere un po’ di veleno in conclusione, come questa stretta e costretta vicinanza a cui non eravamo abituati ci lascerà una volta finita l’emergenza. Ci ameremo o ci odieremo di più?

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